La rivincita dei mendicanti - Кресс Нэнси (Ненси) 39 стр.


Lizzie esitò. Sembrava così poco concreto. Se vi fosse strisciata sopra e se il ponte l’avesse lasciata cadere nel fiume di sotto… ma non sarebbe accaduto. L’energia-Y non era poco solida. L’energia-Y era la cosa più affidabile e solida che fosse rimasta dai vecchi tempi, prima delle Guerre del Cambiamento, quando la vita era stata sicura.

Le voci si cristallizzarono in parole. "Sbrigati… Dov’è… non può… la ragazza, Janey…"

Poteva essere gente per bene. Potevano essere semplicemente persone normali che attraversavano un ponte. Oppure potevano essere come quegli animali alla rimessa. Lizzie guardò di nuovo lo scudo quasi invisibile, chiuse gli occhi e vi rotolò sopra. Sussurrò un codice e sentì lo scudo curvarsi, muoversi e scivolare sotto il ponte per permettere di effettuare un’ispezione e una riparazione.

Cautamente, Lizzie riaprì gli occhi. Giaceva pochi centimetri sotto il traliccio, la cui parte inferiore era butterata di escrescenze e pannelli. Probabilmente alcuni erano terminali. Per una volta tanto, non provò alcun desiderio di trafugare dati. Si aggrappò con una mano al bordo del campo di energia che la sorreggeva, cercando di trovare il punto in cui si collegava col ponte. Per quello che avvertiva lei, l’intero scudo era scivolato esattamente sotto il ponte ed era individuabile da sopra soltanto da qualcuno che cercasse effettivamente nel buio un’estensione di un campo di energia.

Sopra di lei, le persone si allontanarono.

Aspettò alcuni minuti dopo avere avvertito l’ultima vibrazione nel ponte. Pronunciò quindi il codice per fare tornare indietro l’estensione e quello per farla richiudere.

Sul lato est del ponte la ferrovia a gravità si divideva. Una linea procedeva a sud, lungo la costa occidentale di Manhattan, su una stretta striscia di terra fra il fiume e la cupola dell’Enclave di Manhattan Ovest. L’altra deviava a nord, schivando l’enclave e andando a finire a Central Park. Da quella parte, Lizzie lo sapeva, c’erano le rovine della New York dei Vivi. Ormai non ci vivevano più molte persone: cemespugna rotta e pietre cadute non fornivano molto come cibo. Quelli che erano rimasti erano pericolosi.

Non aveva scelta. Era la via per arrivare al dottor Aranow.

Avvolta nello scudo personale, Lizzie si nascose sotto un folto cespuglio fino al mattino. Si sentiva abbastanza sicura di non essere vista, ma non riuscì ad addormentarsi per lungo tempo.

Alla luce del giorno, New York era anche peggio di quanto si fosse immaginata.

Non aveva mai visto nulla del genere. Sì, invece, in quegli ologrammi di storia che Vicki aveva insistito che lei studiasse nel software istruttivo, prima che Lizzie fosse abbastanza grande da puntare i piedi e studiare solo quello che desiderava. Gli ologrammi avevano mostrato posti proprio come quello: ammassi bruciati e crollati di macerie ricoperti da erbacce. Strade così intasate che non si poteva essere sicuri di quale direzione avevano avuto un tempo. Metallo contorto disseminato in giro, separato da aree color nero trasparente nei punti in cui determinate armi avevano levigato tutto, fondendolo. Lizzie aveva sempre immaginato che quegli ologrammi fossero fasulli, come il software di letteratura che le aveva fatto guardare Vicki. O se non completamente fasulli quanto meno esagerati.

Quella città in pezzi invece era vera.

Lei si mosse con circospezione attraverso le orribili rovine, in ascolto. In qualche occasione udì delle voci. Si nascose immediatamente, tremando, finché gli uomini non si allontanarono. Non li vide mai e ne fu più che felice.

C’erano persone che abitavano in alcuni edifici mezzo crollati. Vide una donna portare acqua dal fiume, un uomo intrecciare una corda, un bambino Cambiato inseguire una palla. Quindi un bambino nonCambiato, in braccio a una ragazzina di dieci anni.

La ragazzina Cambiata era sudicia, mezza nuda, coi capelli sporchi per la polvere dei detriti. Però la pelle le risplendeva di salute e lei si arrampicò con forza su un cumulo di macerie, col piccolo avvinghiato al petto. Lui… lei?… sembrava avere circa un anno, l’età della figlia di Sharon, Callie. Le sue gambette, tuttavia, avevano un aspetto raggrinzito e debole, il ventre era gonfio e le braccia assomigliavano a bastoncini. Una ferita aperta sulla gamba lasciava colare del pus. Quando la ragazzina lo adagiò a terra, il piccolo si lamentò e sollevò le braccine che, quasi immediatamente, gli ricaddero lungo i fianchi.

Ecco che aspetto avrebbero avuto ben presto tutti i bambini, se Miranda Sharifi non avesse prodotto altre siringhe del Cambiamento e se il Rifugio avesse diffuso il neurofarmaco. Proprio così.

La ragazzina tirò in piedi il piccolo che subito ricadde. Le sue ossa non avevano alcuna forza.

Lizzie si allontanò dai due. Sarebbe stato meglio aspettare finché non si fossero ritirati dalla zona, ma lei non riuscì a sopportare di restare lì. Con grande attenzione, si fece strada attraverso Manhattan, orientandosi con la ferrovia a gravità anche quando dovette deviare a nord per evitare alcune persone. A sud, davanti a lei e alle sue spalle, riusciva a scorgere le toni di Manhattan Ovest e Manhattan Est, separate dall’immensa distesa del parco. Le torri scintillavano alla luce del sole e brillanti chiazze di colori modificati geneticamente rifiorivano sulle loro terrazze all’interno delle cupole a energia-Y dell’enclave. I velivoli entravano e uscivano da porte invisibili nella cupola invisibile.

A metà pomeriggio, aveva raggiunto la porta terrestre settentrionale dell’Enclave di Manhattan Est.

Era circondata da una specie di villaggio-in-rovina-all’interno-della-città-in-rovina. Di quelli che Lizzie immaginò fossero gli edifici originali in cemespugna, la metà era intatta e vuota, ancora circondata da scudi impenetrabili. L’altra metà era ridotta in macerie, incendiata, bombardata o abbattuta da pura e semplice forza bruta. Attorno e in mezzo agli edifici, la gente aveva costruito baracche con assi di legno, macerie di cemespugna, teli di plastica e perfino robot guasti. Be’, ogni tribù si accontentava di quello che riusciva a trovare. Quelle baracche, tuttavia, a loro volta erano distrutte o rovinate, alcune rappezzate, altre no, come se lì ci fosse stata una seconda Guerra del Cambiamento, una terza e poi una quarta.

Lizzie non vide persone, ma sapeva che c’erano: un falò da campo spento con le ceneri non ancora smosse; un sentiero ben tracciato libero da erbacce; un mazzo di fiori selvatici non ancora avvizziti, gioco di qualche bambino; cosa più sconcertante di tutte, una fotografia incorniciata di un uomo con abiti molto all’antica coi polsini e il colletto inamidati, che teneva in mano una specie di libro incastonato. Ma com’era arrivata lì quella? Restò nascosta, tenendo d’occhio la porta di entrata dell’enclave e aspettò.

All’improvviso suonò un segnale d’allarme.

Le persone sfrecciarono subito fuori dai nascondigli e da dietro i detriti, dalle baracche e perfino da un tunnel sotterraneo. Vivi, ma vestiti come Lizzie non aveva mai visto. Indossavano abiti da Muli: stivali, piccole camicie attillate, pantaloni, cappotti eleganti. Il tutto, però, a brandelli: nessuno aveva un vestiario completo. Le persone, donne, bambini e qualche uomo, non apparivano pericolose. Si radunarono attorno alla porta di ingresso dell’enclave e il segnale risuonò nuovamente.

Se Lizzie voleva vedere ciò che accadeva, doveva per forza unirsi a loro. Si avvicinò alla piccola folla con estrema cautela. Puzzavano, ma nessuno la degnò di attenzione. Quindi non erano una vera tribù dove tutti si conoscevano e restavano insieme. Erano solo un pugno di persone. Lei riuscì a raggiungere il fronte del gruppo.

La cupola dell’enclave era di colore grigio opaco fino a circa cinque metri di altezza, trasparente di lì in poi. Probabilmente i residenti non volevano essere guardati dai Vivi che rovinavano la visuale dei loro magnifici giardini. La porta, un profilo nero sul campo energetico grigio, scomparve all’improvviso. Tutti si misero a correre all’interno dell’enclave.

Non poteva essere così facile!

Non lo era. Dentro c’era una seconda cupola sigillata, piena di… cosa? Pile di vestiti, scatoloni di roba. Lizzie notò una bambola con la testa rotta, qualche piatto, una scatola in legno graffiata, alcune coperte. A quel punto comprese: i Muli dell’Enclave di Manhattan Est davano via le cose che non volevano più.

La gente cominciò a strappare roba dalle scatole, dai cumuli di oggetti, dalle mani di altri. Ci furono un po’ di spintoni, ma nessuna vera lotta. Lizzie osservò con attenzione, cercando di assimilare tutto, sia la struttura della cupola, sia i resti. Vestiario, quadri, giocattoli, lenzuola e coperte, vasi da fiori, mobili, oggetti in plastica. Nulla di elettronico o a energia-Y, nulla che potesse diventare un’arma. In tre minuti la cupola venne spogliata interamente e tutti i Vivi scapparono con i nuovi stracci.

Lizzie aspettò, mentre il cuore cominciava a martellarle in petto.

— Per favore, adesso lasciate la cupola — disse la voce severa di un robot. — La consegna di oggi è terminata. Per favore, adesso lasciate la cupola.

Lizzie restò dove si trovava, sfiorando con le dita il suo scudo personale.

— Per favore, adesso lasciate la cupola. La consegna di oggi è terminata. Per favore, adesso lasciate la cupola.

All’esterno, qualcuno gridò qualcosa di incomprensibile. I Vivi si immobilizzarono terrorizzati e poi cominciarono a correre.

— Per favore, adesso lasciate la cupola. La consegna di oggi è terminata. Per favore, adesso lasciate la cupola. — E poi, come per caso, lei si trovò fuori. La muraglia posteriore a energia l’aveva spinta poco cerimoniosamente in avanti, chiudendosi così in fretta che Lizzie cadde a faccia in giù.

I Vivi, che continuavano a strillare e a correre, scomparvero all’interno delle loro tane e dei loro buchi. Alcuni non furono abbastanza svelti. La banda di razziatori, soprattutto uomini ma anche qualche donna, si gettò su di loro e cominciò a saccheggiare gli scarti dei Muli, abbattendo le persone, gridando e strillando mentre calpestavano con pesanti stivali rubati facce e corpi.

Lizzie rotolò indietro verso la cupola che l’aveva appena espulsa. Aveva capito perché le baracche erano state ripetutamente distrutte e ripetutamente ricostruite. Il prezzo da pagare per vivere nei pressi del bottino di stracci usati dell’enclave era che altri cercavano di appropriarsene, con vari livelli di cattiveria.

Arrancò in piedi e cominciò a scivolare lungo la cupola. Inutile, era il bersaglio più visibile e meglio equipaggiato. Due uomini conversero su di lei.

— Lo zaino! Acchiappalo, Tish!

Non erano due uomini ma un uomo e una donna alta e dalle spalle larghe come quelle di un uomo che mostrava profondi occhi color porpora sotto ciglia lunghissime. "Modificata geneticamente."

I begli occhi da Mulo sogghignarono davanti a Lizzie e la donna cercò di afferrarla, incontrando lo scudo personale. — Cazzo! È schermata, lei! — L’accento era perfettamente da Vivo.

Tish pesava almeno quindici chili più di Lizzie. La fece cadere su un fianco e Lizzie si sentì crollare e scivolare contro la cupola a energia. Si rannicchiò piagnucolando all’interno del suo bozzolo. Tish le cadde accanto in ginocchio, con gli occhi color porpora che scintillavano di gioia pregustando la tortura, e cominciò a scuotere Lizzie per il collo come un cane con l’osso.

— Allora se non posso entrare lì dentro, io, posso sempre scuoterti fino a spezzarti il collo proprio dentro il tuo piccolo scudo sicuro…

Lizzie estrasse dallo stivale il coltello che Billy usava per scuoiare i conigli e lo spinse con un movimento dal basso in alto sotto lo sterno della donna.

Aveva affilato il coltello ogni giorno, durante le lunghe ore diurne in cui era stata nascosta. Nonostante ciò, rimase sorpresa di quanto fosse duro far passare la lama attraverso muscoli e carne. Spinse finché la lunga lama non fu conficcata fino al manico.

Gli splendidi occhi di Tish si spalancarono; crollò in avanti sopra Lizzie, in un abbraccio inerte.

Lizzie la spinse via e si guardò in giro terrorizzata. L’uomo che aveva detto a Tish di afferrare il suo zaino si trovava dall’altra parte della zona sgombra da macerie e stava combattendo con uno dei pochi uomini rimasti in vita nelle vicinanze dell’enclave. Il compagno di Tish sembrava avere la meglio. C’erano poi altri due razziatori in giro, e in un minuto qualcun altro l’avrebbe attaccata, Lizzie aveva a disposizione solo pochi istanti.

Non esitò: se ci avesse pensato non sarebbe mai stata in grado di farlo. Tish era pesante e lei non avrebbe potuto trascinarne il corpo muscoloso, ma non aveva bisogno di tutto il corpo.

Tremando, Lizzie si inginocchiò accanto a Tish e tirò fuori il cucchiaio d’argento che aveva rubato dalla sala da pranzo del dottor Aranow. Aveva avuto la bizzarra idea che, una volta all’interno di Manhattan Est, lo avrebbe potuto mostrare al sistema dell’edificio, convincendo "Jones" a lasciarla entrare. Fermò la palpebra destra di Tish fra il pollice e l’indice destro, l’aprì per bene e fece scivolare il cucchiaio sotto il bulbo oculare. Trattenendo il respiro, estrasse l’occhio dall’orbita. Quindi tirò fuori il coltello dal corpo di Tish e il sangue della donna la spruzzò a fiotti, scivolando lungo la parte esterna dello scudo a energia. Lizzie tagliò nervi e muscoli che legavano il bulbo all’orbita vuota.

Si girò, cercando a tastoni il profilo nero della porta dell’enclave. Il sangue macchiava le superfici esterne dello scudo a energia-Y della cupola e del suo. Inserito nel profilo della porta c’era un analizzatore di retina standard, programmato per concedere l’ingresso a ogni configurazione modificata geneticamente. Una misura di emergenza: un tecnico poteva essere colto all’esterno, un adolescente avventuroso poteva restare bloccato. Lizzie lo sapeva dai dati che spesso aveva trafugato.

Appoggiò l’occhio di Tish contro lo scanner e la porta della cupola esterna si aprì. Le si chiuse alle spalle, proprio davanti ai razziatori che gridavano per ucciderla.

Lizzie crollò a terra ed ebbe un conato. Non riuscì a vomitare: non aveva ingerito cibo per bocca da settimane. Ma non aveva tempo. Quanto poteva restare fresco un bulbo oculare per ingannare uno scanner? Quel tipo di informazione non si trovava nei data base.

Barcollando in piedi, sollevò l’occhio color porpora modificato geneticamente di Tish verso il secondo scanner. Si aprì anche la porta interna e Lizzie vi si catapultò attraverso.

Era dentro Manhattan Est.

Più precisamente, si trovava in una specie di deposito, pieno di robot da lavori pesanti immobili contro le pareti. Bene. Niente robot-poliziotti finché non avesse lasciato quell’edificio che doveva essere fortemente schermato e ben sigillato. Poteva aspettare. Lizzie si stese sul pavimento finché non riuscì a respirare normalmente.

Quando fu in grado di stare in piedi, disattivò lo scudo personale. Il sangue di Tish scivolò sul pavimento. Lizzie riattivò lo scudo e si rese conto soltanto in quel momento di avere ancora in mano l’occhio della donna. Non era insanguinato: tutto il sangue si era versato quando lei aveva ritirato il coltello dal corpo di Tish.

Tish non aveva mai utilizzato i suoi occhi modificati geneticamente per entrare nell’enclave. Perché no? Doveva sapere di essere modificata. Lizzie, tuttavia, aveva capito il motivo dell’esilio di Tish quando lei aveva cercato di scuoterla a morte. Le mani di Tish si erano strette attorno al suo collo; il corpo di Tish si era premuto contro il suo. Attraverso gli abiti, Lizzie aveva sentito i punti duri nei posti sbagliati, lo sterno malformato, le costole asimmetriche. Lo scheletro di Tish si era deformato nell’utero. Nuda, sarebbe apparsa grottesca. Lizzie rifletté sull’importanza che i Muli attribuivano alla perfezione fisica, e su quanto tempo Tish avesse vissuto con i Vivi per ottenere quell’accento. Vicki aveva sempre sostenuto che odiare se stessi fosse il tipo peggiore di odio. Lizzie non aveva mai capito cosa intendesse dire Vicki.

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