Il leone, la strega e l’armadio - Lewis Clive Staples


Clive Staples Lewis

Il leone, la strega e l’armadio

a Lucy Barfield

Cara Lucy,

ho scritto questo racconto per te, ma quando l’ho cominciato non mi sono reso conto che le ragazze crescono più in fretta dei libri. Come risultato, ormai sei troppo grande per le fiabe e quando questa verrà stampata e rilegata lo sarai ancora di più. Un giorno, però, diventerai abbastanza grande da leggere le fiabe di nuovo: allora recupererai la mia da uno degli scaffali più alti, toglierai la polvere e mi dirai cosa ne pensi. A quell’epoca, probabilmente, io sarò troppo duro d’orecchi per sentirti e troppo vecchio per capire le tue parole, ma rimarrò comunque

il tuo affezionato padrino

C.S. Lewis

1

Lucy entra nell’armadio

C’erano una volta quattro bambini che si chiamavano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Vivevano a Londra ma, durante la seconda guerra mondiale, furono costretti ad abbandonare la città per via dei bombardamenti aerei. Furono mandati in casa di un vecchio professore che abitava nel cuore della campagna, a poco meno di venti chilometri dalla più vicina stazione ferroviaria e a tre chilometri e mezzo dall’ufficio postale. Il professore non aveva moglie: alla casa badava la signora Macready, la governante, aiutata da tre cameriere che si chiamavano Ivy, Margaret e Betty (ma nella nostra storia c’entrano poco).

Il professore era molto vecchio, con i capelli bianchi e ispidi e un’abbondante peluria che gli cresceva sulla faccia oltre che in testa, formando una gran barba bianca. I ragazzi provarono molta simpatia per lui, anche se la prima sera, quando apparve ad accoglierli sulla porta di casa, Lucy, che era la più piccola, ne ebbe paura. Edmund, che era di poco più grande, trovò che fosse un uomo molto buffo e per non ridere si nascose il viso con il fazzoletto, fingendo di soffiarsi il naso.

La sera del loro arrivo, dopo aver dato la buona notte al professore, i quattro ragazzi salirono al piano di sopra e i maschi entrarono nella stanza delle sorelle per chiacchierare in libertà.

— Siamo proprio fortunati, lo sento — esclamò Peter. — Andrà tutto a meraviglia e il vecchietto ci lascerà fare quello che vogliamo.

— Mi è sembrato una cara persona — cominciò Susan.

— E piantala di parlare in quel modo — disse Edmund, interrompendola in tono sgarbato. Per la verità era molto stanco, ma non voleva farlo capire: perciò era di malumore.

— Parlare… in che modo, scusa? — ribatté Susan. — Comunque, è meglio che tu vada a letto.

— Ecco che ti metti a fare la mamma — sbottò Edmund. — Vacci tu a letto, se vuoi.

— E se ci andassimo tutti? — propose Lucy. — Forse sarebbe meglio. Se sentono che stiamo qui a discutere invece di dormire ci sgrideranno.

— Non ci sentono, non aver paura — affermò Peter. — Da qui alla stanza da pranzo ci sono tanti di quei corridoi, tante di quelle scale e scalette, che ci vogliono almeno dieci minuti per farle tutte. Figurati se ci sentono.

— Cos’è questo rumore? — chiese Lucy all’improvviso. La vecchia magione era davvero immensa: non avrebbe mai immaginato che una casa potesse essere tanto grande. Il pensiero di tutti quei corridoi bui le metteva i brividi.

— È il verso di un uccello, sciocca — fece Edmund.

— Di un gufo — precisò Peter. — Dev’essere pieno di uccelli, da queste parti. Non avete visto che montagne, arrivando qui? Scommetto che ci sono le aquile, lassù. E i boschi? Ci saranno gufi e cervi.

— E tassi — esclamò Lucy.

— E volpi — le fece eco Edmund.

— E conigli selvatici — aggiunse Susan.

— Bene, domani esploreremo i dintorni — concluse Peter. — Ora, però, andiamo a dormire.

La mattina dopo pioveva. La pioggia cadeva così fitta che guardando dalla finestra non si vedevano né montagne né boschi, e neppure il ruscello che attraversava il giardino.

— Naturalmente, doveva piovere — borbottò Edmund.

I ragazzi avevano fatto colazione insieme al professore e ora si trovavano nella grande stanza che lui aveva riservato per il giorno: un camerone lungo e stretto con quattro finestre che guardavano da una parte del giardino e due dall’altra.

— Smettila di brontolare, Edmund — disse Susan. — Scommetto quello che vuoi che tra un’ora finirà di piovere. Intanto qui non si sta male: c’è la radio e ci sono dei libri.

— Macché, macché — la interruppe Peter. — Io me ne vado a fare un giretto per la casa. Esplorazione!

Trovarono che fosse una bellissima idea e fu così che cominciò la loro strana avventura. Era il tipo di casa di cui non si arriva mai alla fine, piena di imprevisti. Aprirono qualche porta a caso: le prime erano le stanze degli ospiti, come c’era da immaginarsi. Arrivarono a una lunga sala, stretta e piena di quadri; c’era anche un’armatura completa, tutta di ferro. La sala successiva, tappezzata di verde, conteneva una grande arpa in un angolo. Scesero quattro gradini, ne salirono altri cinque, aprirono una porticina e si trovarono in una specie di corridoio sopraelevato. In fondo c’era un’altra porticina che dava su una balconata interna, dopo di che attraversarono una lunga serie di stanze tutte uguali e in fila: erano piene di scaffali e gli scaffali erano pieni di libri. Ce n’erano di vecchissimi e grandissimi, alcuni più grandi della Bibbia che sta in chiesa. Poco dopo arrivarono in una stanza quasi vuota: c’era solo un grande armadio appoggiato al muro, del tipo che ha uno specchio nell’anta; a parte il mobile, sul davanzale della finestra si vedeva una piantina di fiordalisi secca.

— Qui non c’è niente — decise Peter, proseguendo nella marcia. Gli altri lo seguirono a eccezione della piccola Lucy, che si era fermata davanti all’armadione chiedendosi cosa contenesse. Certo era chiuso a chiave, ma un tentativo si poteva anche fare; Lucy toccò la maniglia e con sua grande sorpresa la porta si aprì subito. Ne vennero fuori due palline di naftalina.

Guardando all’interno, Lucy vide che il guardaroba conteneva cappotti e pellicce. A Lucy le pellicce piacevano tanto: entrò nel vano e si divertì ad accarezzarle con la mano, ci strofinò il viso e trovò che avessero un buonissimo odore. Naturalmente aveva lasciato un’anta aperta, perché sapeva benissimo che entrare in un armadio e chiudersi la porta alle spalle è la cosa più stupida che si possa fare.

Dietro la prima fila di pellicce ce n’era un’altra. Lucy fece qualche passo, tenendo le braccia tese in avanti: non voleva sbattere improvvisamente contro la parete dell’armadio. Un passo, due, un altro. All’interno era buio, Lucy non vedeva niente, e per quanto annaspasse con le mani non incontrava che il vuoto.

"Questo armadione è semplicemente enorme" disse tra sé, continuando ad avanzare e scostando le pellicce per fare spazio. Poi cominciò a sentire qualcosa che scricchiolava sotto le scarpe. — Ancora naftalina? — si domandò, chinandosi per sentire con le mani. I polpastrelli rivelarono qualcosa di morbido, sottile come sabbia e freddissimo.

— Molto strano, sembra neve — mormorò Lucy. Un attimo dopo sentì contro il corpo e il viso qualcosa di duro e ruvido, perfino pungente. — Sembrerebbero rami d’albero — bisbigliò, sempre più sbigottita. E allora vide una piccola luce che brillava lontano, dritto davanti a lei. Lucy si rese conto che dove avrebbe dovuto esserci la parete di fondo dell’armadio c’erano invece alberi.

Quello era un bosco, e nel bosco c’era un sentiero. Nevicava; era già buio e nevicava.

Naturalmente, fu un po’ spaventata dalla scoperta, ma nello stesso tempo si sentì piena di curiosità e di una strana eccitazione che la spingeva a proseguire lungo il sentiero, verso la luce. Voltò la testa un attimo, e tra i neri tronchi degli alberi riuscì a vedere la porta spalancata dell’armadio. Vide anche un pezzetto della stanza vuota dalla quale era venuta: lì splendeva ancora la luce del giorno. — Se qualcosa non va, tornerò indietro — si disse Lucy, e puntò decisa verso il lumicino che brillava in lontananza. Sotto le scarpe la neve faceva cric croc.

Dopo pochi minuti arrivò a un lampione. Si domandò a chi possa venire in mente di piazzare un lampione in mezzo al bosco, e proprio in quel momento sentì un leggero scalpiccio. Qualcuno veniva dalla sua parte… Tra gli alberi, proprio di fronte a Lucy e in piena luce del lampione, apparve una strana figura. Era poco più alta della bambina e si riparava dalla neve reggendo in mano un ombrello che era già tutto coperto di candidi fiocchi. Dalla cintola in su sembrava un uomo come tutti gli altri, ma i fianchi e le gambe erano quelli di una capra coperta di peli neri, folti e lucenti. Non aveva piedi, naturalmente, ma grosse unghie sagomate a zoccolo. E aveva la sua brava coda che però Lucy non vide subito, perché lui la teneva arrotolata sul braccio, forse per evitare di trascinarla sulla neve. Intorno al collo aveva una bella sciarpa di lana rossa, e rossiccia appariva la pelle del torace. Il viso era un po’ strano, ma con un’aria simpatica e una graziosa barbetta a punta. I capelli erano ricciuti e scuri: in mezzo ai riccioli, da una parte e dall’altra della fronte, spuntavano due bei cornetti.

In una mano, come ho già detto, teneva l’ombrello, nell’altra un bel po’ di pacchi e pacchettini avvolti in carta scura. Con tutta quella neve e quei pacchetti, sembrava un signore che torni a casa dopo aver comprato i regali di Natale.

Invece era un fauno. Quando vide Lucy ebbe un sussulto di sorpresa, ma così forte che i pacchetti gli caddero di mano.

— Santo cielo! — esclamò il fauno.

2

Lucy nella casa del fauno

Il fauno là per là non rispose: era troppo occupato a raccogliere i pacchetti. Quand’ebbe finito, fece un bell’inchino e rispose: — Buona sera. Scusa, non vorrei sembrarti curioso, ma credo di non sbagliare se dico che sei una figlia di Eva.

— Mi chiamo Lucy — rispose la piccola, che non era troppo sicura di aver capito bene.

— Però sei una… bambina, vero?

— Sì, naturalmente — rispose Lucy.

— Allora appartieni alla razza umana, vero?

— Certo che sì — esclamò Lucy, molto perplessa.

— Certo, certo — mormorò il fauno. — Stupido io a far tante domande. Dovevo capirlo subito. Ma, vedi, non avevo mai incontrato prima un figlio di Adamo o una figlia di Eva. Sono proprio contento… — Il fauno si interruppe bruscamente, come uno che si sia lasciato scappare qualcosa che era meglio non dire. Però se n’era accorto in tempo. — Lietissimo di fare la tua conoscenza — disse. — Permetti che mi presenti? Mi chiamo Tumnus.

— Felice di conoscerti, signor Tumnus — rispose educatamente Lucy.

— Posso chiederti, figlia di Eva, come sei arrivata a Narnia?

— Narnia? E cos’è? — chiese subito Lucy.

— Narnia è un paese. Qui siamo a Narnia — rispose prontamente il fauno. — Il territorio che si estende dal lampione fino a Cair Paravel, il castello che sorge sulle rive dell’Oceano orientale, è Narnia. E tu, figlia di Eva, da dove vieni? Dai boschi selvaggi che si trovano a occidente?

— Io… sono venuta dal guardaroba che sta nella stanza vuota — balbettò Lucy.

— Ah! — esclamò il signor Tumnus in tono alquanto triste. — Se avessi studiato un po’ meglio la geografia quand’ero un piccolo fauno, saprei senza dubbio molte cose su quegli strani paesi. Ma ora è troppo tardi.

— Non sono paesi — replicò Lucy. E quasi quasi le veniva da ridere. — Vengo da laggiù, non è lontano, almeno credo. Però, laggiù è estate.

— E a Narnia è inverno — disse il signor Tumnus. — È inverno da tanto tempo. Ma se restiamo a chiacchierare qui nella neve prenderemo il raffreddore.

Il fauno non aveva tutti i torti. In tono gentile aggiunse: — O figlia di Eva che vieni dalla città di Guarda Roba nel paese felice di Stanza Vuota, dove regna l’estate eterna, che ne diresti di venire a casa mia a prendere un tè?

— Mille grazie, signor Tumnus — rispose educatamente Lucy. — Mi chiedevo se non farei meglio a tornare indietro…

— Ma è vicinissimo, è qui voltato l’angolo — insistette il fauno. — Ho acceso un bel fuoco e ho pronta una bella focaccia.

— Sei davvero gentile, signor Tumnus — disse Lucy, accettando l’invito. — Ma ti avverto, non potrò restare a lungo.

— Prendimi sottobraccio, l’ombrello ci coprirà tutti e due — propose il signor Tumnus. — Vieni, figlia di Eva. Da questa parte.

E così Lucy se ne andò per il bosco, sottobraccio a quella strana creatura, come se fossero amici da sempre.

Dopo poco arrivarono in un posto dove il terreno appariva più accidentato: c’erano grandi rocce tutt’intorno e un continuo su e giù di collinette.

In fondo a una valletta il signor Tumnus piegò decisamente verso una grande roccia, come se volesse sbatterci contro. Ma all’ultimo momento Lucy si accorse che invece la guidava verso l’imboccatura di una caverna. Appena furono entrati, Lucy si trovò abbagliata da un bel fuoco scintillante. Il signor Tumnus si chinò a prendere un paio di molle che stavano vicino al caminetto, tirò un tizzone fiammeggiante dal fuoco e accese una piccola lampada.

— Ci sbrigheremo alla svelta — disse, e mise sul fuoco il bricco dell’acqua per il tè.

Lucy pensò di non aver mai visto un posto così carino. L’interno della caverna era di roccia rossa, sul pavimento si allargava un bel tappeto sul quale poggiavano due poltroncine («Una per me e una per l’ospite» aveva detto il fauno); c’era anche una tavola, naturalmente, e una credenza poggiata alla parete di fondo. Il camino aveva la sua brava mensola e sopra si vedeva un quadro che rappresentava un vecchio fauno con la barba grigia. In un angolo si vedeva una porticina che, secondo Lucy, doveva portare nella camera da letto del signor Tumnus. Un’altra parete era coperta di scaffali pieni di libri, e mentre il fauno si dava da fare con il tè, Lucy diede un’occhiata ai titoli: Vita e lettere del fauno Sileno, Le ninfe e loro abitudini, Gli uomini, eremiti e guardacaccia: uno studio sulle leggende popolari e ancora L’uomo è un mito? Roba così, insomma.

— Il tè è pronto — disse infine il signor Tumnus.

Il tè venne servito in modo davvero magnifico. C’erano due uova (uno per ciascuno) leggermente bollite nel loro guscio scuro; c’era il pane abbrustolito con le sardine, il burro e il miele nonché la focaccia con la crosta di zucchero vanigliato. Quando Lucy fu stanca di mangiare, il fauno cominciò a far conversazione. Aveva mille splendide cose da raccontare a proposito della vita nella foresta. Parlò delle danze di mezzanotte, quando le ninfe escono dalle fonti in cui vivono e le driadi escono dagli alberi per giocare con i fauni sotto la luna; parlò delle lunghe battute di caccia al cervo bianco come il latte, il solo che, se lo catturi, esaudirà ogni tuo desiderio; parlò dei Nani Rossi che vivono sottoterra scavando nelle miniere alla ricerca di incredibili tesori; poi parlò dell’estate quando la foresta è tutta verde e il vecchio Sileno viene a visitare i fauni con il grasso asino; qualche volta Bacco in persona è con lui, e allora nei fiumi scorre vino invece di acqua, e per settimane è una baldoria continua.

— Ma ormai è sempre inverno — sospirò il signor Tumnus, e per consolarsi un poco tirò fuori dalla credenza una specie di flauto che sembrava fatto di diverse canne legate insieme. Usando quello strano strumento, il fauno cominciò a suonare una melodia così incantevole che Lucy provò il desiderio di ridere e piangere allo stesso tempo, di ballare e farsi una dormitina. Dovevano essere passate ore quando alla fine Lucy si scosse: — Mi dispiace interrompere il concerto, signor Tumnus, ma devo proprio andare. La musica è bellissima, ma volevo star qui solo qualche minuto.

— È inutile, sai, ormai è inutile — esclamò il fauno, posando il flauto dalla forma strana.

Sembrava diventato molto triste.

— Inutile? — esclamò Lucy, balzando in piedi e sentendosi un po’ spaventata. — Che significa? Devo andare a casa subito. Si staranno chiedendo cosa mi è successo. Signor Tumnus, cosa c’è adesso? — Gli occhi bruni del fauno si erano riempiti di lacrime che scendevano lungo le guance, e un attimo dopo gli gocciolarono dalla punta del naso. Alla lunga, il signor Tumnus si nascose il viso tra le mani e cominciò a singhiozzare e a urlare disperatamente.

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