L’isola del drago - Le guin Ursula Kroeber 4 стр.


Con dispiacere capì dalla loro espressione che non avevano ascoltato il nome, il vero nome di Ogion; non le avevano dato retta.

«Oh!» esclamò. «Sono tempi davvero brutti, quando un simile nome non viene ascoltato, quando cade a terra come una pietra! Ascoltare non è più un Potere? Ascoltate, allora: il suo nome era Aihal. Il suo nome di morte è Aihal. Nei canti — sempre che se ne compongano ancora — sarà conosciuto come Aihal di Gont. Era un uomo che parlava poco. Ora non parla più. Forse, non ci saranno più canti, ma solo il silenzio. Non lo so. Sono molto stanca. Ho perso un padre e un caro amico.» Le si incrinò la voce; dalla gola le uscì solo un singhiozzo. Si girò per andarsene, e sul sentiero della foresta vide il portafortuna di Zia Muschio. Allora lo raccolse, si inginocchiò accanto al morto, gli baciò il palmo della mano sinistra e vi posò il piccolo amuleto. Poi, mentre era ancora in ginocchio, guardò un’altra volta i due uomini e disse, a bassa voce:

«Volete occuparvi voi di fargli scavare la fossa qui, dove ha chiesto?»

Prima il vecchio mago, poi quello giovane le rivolsero un cenno d’assenso.

La donna si alzò, si passò la mano sulla gonna e fece ritorno alla casa, ora illuminata dalle prime luci dell’alba.

KALESSIN

«Aspettalo», le aveva detto Ogion, che adesso era chiamato Aihal, un attimo prima che il vento della morte lo scuotesse per staccarlo dal mondo dei vivi. «È finita. Tutto è cambiato», le aveva detto, in un bisbiglio, e poi: «Tenar, aspettalo…» Ma non le aveva detto chi o che cosa. Forse Ogion aveva visto il cambiamento… ma che cambiamento? Che intendesse parlare della propria morte, della vita che lo stava abbandonando? Aveva parlato con gioia, con esultanza. E con le sue parole le aveva conferito l’incarico di rimanere là ad attendere.

«Che altro posso fare?» si chiese Tenar mentre spazzava il pavimento della casa di Ogion. «Che cos’altro ho fatto, in tutta la mia vita?» E, rivolgendosi al ricordo di lui, gli domandò: «Devo attendere qui, nella tua casa?»

«Si», le rispose Aihal il Taciturno senza parlare e le sorrise.

Cosi, lei spazzò la casa, svuotò il focolare della cenere, e portò fuori i giacigli. Gettò via un po’ di terraglia sbreccata e una pentola che perdeva, ma le trattò affettuosamente. Accostò anche la guancia a un piatto con una grossa crepa, prima di buttarlo tra le immondizie, perché era una testimonianza di quanto il mago fosse malato l’anno precedente. Era un uomo semplice, vissuto poveramente come un qualsiasi contadino, ma quando i suoi occhi erano limpidi e aveva ancora tutta la sua forza, non avrebbe mai usato un piatto sbreccato, né avrebbe permesso a una pentola di rimanere con un buco. Questi segni della sua debolezza addoloravano la donna, le facevano rimpiangere di non essere venuta a prendersi cura di lui. «Sarei stata lieta di farlo», disse al ricordo di lui, ma il mago non le rispose. Non aveva mai desiderato che qualcun altro si occupasse di lui: voleva essere sempre in grado di badare a se stesso. Le avrebbe detto: «Non hai qualcosa di meglio da fare?» Tenar non lo sapeva. Ogion rimase in silenzio. Ma adesso era sicura di poter stare nella sua casa.

Prunella e il suo vecchio marito, Rivochiaro, che abitavano nella fattoria della Valle di Mezzo già da prima che lei ci arrivasse, potevano prendersi cura degli animali e delle piante; l’altra coppia che abitava nella fattoria, Tiff e Sis, si sarebbe occupata dei campi. Il resto sarebbe rimasto com’era, almeno per un po’ di tempo. I lamponi di Tenar li avrebbero raccolti i figli dei vicini. Peccato; i lamponi le piacevano. Lassù, sopra il Grande Precipizio, con la brezza del mare che non cessava mai, faceva troppo freddo per coltivare i lamponi. Ma il vecchio pesco di Ogion, nel suo angolo riparato e rivolto a sud, aveva diciotto frutti, e Therru li teneva d’occhio come un gatto che sorveglia un topo, finché, un giorno, la bambina entrò in casa e, con la sua voce roca, disse a Tenar: «Due delle pesche sono tutte rosse e gialle».

«Ah», commentò la donna. Si recarono insieme all’albero, staccarono le due pesche mature e le mangiarono immediatamente, senza sbucciarle, imbrattandosi di succo il mento e leccandosi le dita.

«Posso piantarlo?» chiese Therru, mostrando il suo rugoso nocciolo di pesca.

«Certo. Il posto è buono, vicino all’altro albero. Ma non troppo vicino. Tutt’e due devono avere spazio per le radici e per i rami.»

La bambina scelse un punto e scavò una piccola fossa. Vi collocò il nocciolo e poi lo coprì. Tenar la osservò attentamente. Nel poco tempo trascorso da quando erano andate ad abitare lassù, Therru le pareva cambiata. Era ancora priva di reazioni, senza collera e senza gioia; ma in quei giorni la sua assoluta concentrazione, la sua immobilità si erano quasi impercettibilmente allentate. Therru aveva desiderato quelle pesche. Le era venuto in mente di piantare il nocciolo, di aumentare il numero di pesche che esistevano al mondo. Alla Fattoria delle Querce c’erano solo due persone di cui non avesse paura: Tenar e Lodola; ma a casa di Ogion aveva fatto subito amicizia con Erica, la pastorella di Re Albi, una giovane di vent’anni, un po’ debole di mente ma dalla voce forte e dal carattere dolce, che trattava la bambina come se appartenesse anche lei al gregge, come un capretto zoppo. Tenar non aveva niente in contrario. E non aveva niente contro Zia Muschio, indipendentemente dalla sua scarsa pulizia.

Quando Tenar era giunta a Re Albi, venticinque anni prima, Muschio non era una vecchia fattucchiera ma una giovane strega. Si inchinava davanti alla «giovane signora», alla «Signora Bianca», pupilla e allieva di Ogion, e le parlava sempre con il massimo rispetto. Tenar aveva avuto l’impressione che quel rispetto fosse falso e che nascondesse un’invidia, un’antipatia e una sfiducia che aveva incontrato molte volte nelle donne rispetto alle quali si era trovata in posizione di superiorità, donne che vedevano se stesse come normali e lei come straordinaria e privilegiata. Sacerdotessa delle Tombe di Atuan o pupilla straniera del mago di Gont, lei era distante dalle altre, superiore. Gli uomini le avevano dato il Potere, avevano condiviso il loro Potere con lei. Le donne la guardavano da lontano, a volte con rivalità, a volte con aria leggermente beffarda.

E Tenar si era sempre sentita abbandonata, esclusa. Era fuggita via dai Poteri delle Tombe del deserto, e poi era fuggita dai Poteri delle conoscenze e delle capacità che le offriva il suo tutore, Ogion. Aveva voltato la schiena a tutto questo, era andata dall’altra parte, nell’altra stanza, dove vivevano le donne, per essere una di loro. Una moglie, la moglie di un agricoltore, una padrona di casa, che si serviva dei Poteri che spettavano per nascita alle donne, dell’autorità che le concedeva il mondo.

E laggiù nella Valle di Mezzo, a Goha, moglie di Selce, le donne avevano sempre dato il benvenuto; certo, lei era una straniera dalla pelle bianca, che parlava in modo bizzarro, ma era anche una buona padrona di casa, bravissima a filare, con dei figli robusti e bene educati, e una fattoria ricca: una persona rispettabile. E per gli uomini lei era la moglie di Selce, che faceva quel che doveva fare una donna: letto, figli, torte, minestre, pulizia, filatura, cucito, lavare i piatti e servire in tavola. Un’ottima donna. La approvavano. Selce, dopotutto, non aveva sbagliato, dicevano. Come sarà fatta, una donna bianca? Sarà bianca dappertutto? dicevano i loro occhi, quando la guardavano, finché non raggiunse la mezza età e gli uomini non le badarono più.

Ma ora, nella casa di Ogion, le cose erano diverse. Da quando lei e Muschio avevano vegliato insieme il morto, la vecchia le aveva fatto capire di volerle essere amica, seguace, serva, qualsiasi cosa Tenar le chiedesse. Tenar non sapeva bene in quale veste preferire la strega, che era una donna imprevedibile, inaffidabile, misteriosa, collerica, ignorante, astuta e sporca. Ma Muschio voleva bene alla bambina. E forse era proprio merito di Muschio il cambiamento avvenuto in Therru, quel rilassamento appena percettibile. All’inizio, quando era con la strega, Therru si comportava come sempre: era assente, non reagiva, era docile come può esserlo un oggetto inanimato, una pietra. Ma la vecchia aveva continuato a blandirla, offrendole dolci e altri tesori, pregandola e supplicandola. «Vieni con Zia Muschio, cara! Vieni, e Zia Muschio ti mostrerà la cosa più bella che hai mai visto…»

Muschio aveva un naso lungo lungo, labbra sottili ed era sdentata; su una guancia spiccava una verruca grossa come un nocciolo di ciliegia; i suoi capelli grigi erano un solo, indescrivibile garbuglio di ricci e di nodi magici; e aveva un afrore forte e pungente, profondo e complesso come quello di una tana di volpe. «Carina, vieni con me nella foresta!» dicevano le vecchie streghe nelle favole che si raccontavano ai bambini di Gont. «Vieni con me, che ti mostrerò qualcosa di bello!» E poi la strega ficcava la bambina nel forno, la arrostiva ben bene e se la mangiava, o la trasformava in mostro e la gettava nel pozzo, dove poi la poverina gracidava e saltava, triste e disperata, per tutta l’eternità, o la metteva a dormire per cent’anni dentro una grande pietra, finché non giungeva il Figlio del Re, il Principe Mago, che con una sola parola spezzava la pietra, con un bacio ridestava la giovane e poi uccideva la strega cattiva…

«Vieni con me, cara!» E portava la bambina nei campi e le mostrava un nido di allodola in mezzo al verde del grano, la portava nella palude per raccogliere funghi, menta selvatica e mirtilli. Non aveva bisogno di chiudere la bambina nel forno, di trasformarla in un mostro o di sigillarla nella pietra. Gliel’avevano già fatto.

Muschio era gentile con Therru e la viziava; quando erano insieme, le parlava a lungo. Tenar non sapeva che cosa la strega raccontasse o insegnasse alla bambina, e se dovesse permetterle di riempirle la testa dei suoi insegnamenti. Debole come la magia delle donne, perfido come la magia delle donne, le avevano detto centinaia di volte. E in effetti Tenar aveva visto quanto la magia di donne come Muschio o Edera avesse, spesso, poco senso e a volte fosse addirittura malvagia, intenzionalmente o per ignoranza. Le streghe di villaggio, anche se conoscevano molte formule e molti incantesimi e alcuni dei grandi canti, non conoscevano mai le Grandi Arti e i princìpi della magia. Nessuna donna riceveva quel genere di insegnamenti. L’alta magia era un lavoro per uomini, richiedeva capacità maschili; l’alta magia era fatta da uomini. Non c’era mai stato un mago di sesso femminile. Anche se alcune donne si erano date il nome di maga o incantatrice, il loro Potere non era addestrato, era una forza priva di arte e conoscenza, per metà superficiale, per l’altra metà pericolosa.

Le comuni streghe di villaggio, come Muschio, campavano su alcune parole della Lingua Vera tramandate come un grande tesoro da streghe più anziane, o comprate a caro prezzo dai maghi, oltre che su un certo numero di incantesimi banali per trovare e per riparare, e molti rituali inutili che servivano solo a fare impressione sugli altri, una buona esperienza come levatrici, come conciaossa, e nel curare le malattie degli uomini e degli animali, una buona conoscenza delle erbe unita a un mucchio di superstizioni… il tutto in aggiunta a eventuali doti naturali di curare, incantare, cambiare forma o fare fatture. Una simile miscela poteva essere indifferentemente buona o cattiva. Alcune streghe erano donne cattive e amareggiate, pronte a fare del male e prive di ragioni che impedissero loro di farne. In genere erano levatrici e guaritrici con in più qualche pozione amorosa, qualche incantesimo per la fertilità e contro l’impotenza, e un fondamento di recondito cinismo. Alcune, quelle che disponevano di una certa dose di saggezza istintiva, usavano il loro dono solamente per fare del bene, anche se non avrebbero saputo spiegare, diversamente da qualsiasi apprendista mago, il motivo delle loro azioni, e ciarlavano dell’Equilibrio e della Via del Potere per giustificare le loro azioni o le loro rinunce. «Io seguo il mio cuore», aveva detto una di queste donne a Tenar, che allora era l’allieva e la protetta di Ogion. «Lord Ogion è un grande mago. Vi fa un grande onore, insegnandovi. Ma guardate dentro di voi, bambina, e vedrete che quel che vi insegna è, in fondo, seguire il vostro cuore.»

Tenar già allora aveva pensato che la donna avesse ragione, ma non del tutto; oltre a quello, ci doveva essere anche dell’altro, e ne era tuttora convinta.

Ora, mentre guardava Muschio e Therru, pensò che Muschio seguiva il proprio cuore, ma che era un cuore scuro, selvatico, strano come quello di un corvo: un cuore che badava comunque ad assecondare i propri interessi. E pensò che ad attrarre Muschio non era solo la compassione per Therru, ma la sventura della bambina, il male che le era stato fatto con la violenza e con il fuoco.

Nulla di ciò che Therru faceva o diceva, però, sembrava frutto degli insegnamenti di Zia Muschio, se non il modo per scoprire il nido dell’allodola o individuare il luogo in cui raccogliere i mirtilli, oppure la maniera per fare il ripiglino con una mano sola. La mano destra di Therru era stata talmente consumata dal fuoco che, quando si era rimarginata, le era rimasto solo il pollice, e lei lo usava come una chela di granchio. Ma Zia Muschio aveva una sorprendente quantità di figure di ripiglino per quattro dita e un pollice, ciascuna con la sua poesiola:

Batti batti abbatti tutto!

Brucia brucia interra tutto!

Vieni, drago, vieni!

e il cordino formava quattro triangoli che si trasformavano in un quadrato… Therru non cantava mai i versetti, ma Tenar glieli sentiva bisbigliare mentre giocava da sola, con il cordino, seduta sulla soglia della casa di Ogion.

E, si chiedeva Tenar, quale legame univa lei, lei stessa, alla bambina, oltre alla pietà e al dovere di aiutare gli infelici? Se non l’avesse presa Tenar, Lodola l’avrebbe voluta con sé. Ma Tenar l’aveva presa con sé senza neppure chiedersene la ragione. Aveva seguito il proprio cuore? Ogion non le aveva chiesto niente della bambina, ma aveva detto: «Impareranno a temerla…» E Tenar aveva risposto: «La temono già adesso», ed era vero. Forse lei stessa aveva temuto la bambina, perché temeva la violenza e il fuoco. Era il timore, il legame che la univa a lei?

«Goha», disse Therru, seduta sui calcagni, sotto il pesco, lo sguardo fisso sul punto dove aveva piantato il nocciolo di pesca nel duro terreno estivo. «Che cosa sono i draghi?»

«Grandi creature», spiegò Tenar, «simili alle lucertole, ma lunghe più di una nave, più di una casa. Hanno le ali come gli uccelli, e soffiano fuoco dalla bocca.»

«Vengono qui?»

«No», rispose Tenar.

Therru non fece altre domande.

«È stata Zia Muschio a parlarti dei draghi?» chiese Tenar.

Therru scosse la testa. «Sei stata tu», disse.

«Ah», rispose Tenar. E, dopo qualche istante: «La pesca che hai piantato ha bisogno di acqua per poter crescere. Una volta al giorno, finché non arriverà la stagione delle piogge».

Therru si alzò in piedi e trotterellò fino al pozzo che si trovava dietro la casa. Gambe e piedi della bambina erano perfetti, indenni. A Tenar piaceva vederla correre o camminare: era bello vedere quei piccoli piedi, scuri e impolverati, che si alzavano e si abbassavano sul terreno. La bambina tornò con l’innaffiatoio di Ogion, curva sotto il suo peso, e versò un filo d’acqua sulla piantina.

«Allora, ti ricordi la storia di quando uomini e draghi erano una sola razza», disse Tenar. «Parlava di come gli uomini sono giunti qui, mentre i draghi sono rimasti nelle lontane Isole Occidentali. Molto, molto lontano.»

Therru annuì. Pareva che non prestasse attenzione, ma quando Tenar, dicendo «isole dell’Occidente», puntò la mano verso il mare, la bambina si voltò a guardare l’alto, chiaro orizzonte che si vedeva tra i paletti dell’orto di fagioli e la capanna della mungitura.

Sul tetto della capanna comparve una capra, che si fermò di profilo rispetto a loro, la testa nobilmente levata; sembrava convinta di essere uno stambecco.

«Sippy è di nuovo uscita», disse Tenar.

«Hess! Hess!» cominciò a fare Therru, imitando il richiamo di Erica; e la stessa Erica comparve accanto al cancello dell’orto, e si mise a fare «Hess!» alla capra, che tuttavia la ignorò per continuare ad adocchiare i fagioli.

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