Uno sciocco.
«La legge,» ricordò loro Svengaard con tono grondante rimprovero, «richiede anche che io informi i genitori sui pericoli di un trauma psicologico. Non avevo alcuna intenzione di dissuadervi dall’assistere.»
«Noi lo vogliamo, fermamente,» ribatté Lizbeth.
Harvey provò un moto d’ammirazione nei confronti della moglie. Lizbeth stava recitando la sua parte alla perfezione; e quel tremito nella voce era stato così convincente.
«Non riuscirei a sopportare l’attesa in nessun altro modo,» spiegò Lizbeth. «Non sapere se…»
Svengaard si chiese se fosse il caso di insistere — magari facendo leva sul loro timore reverenziale, oppure esercitando la propria autorità. Uno sguardo alle ampie spalle di Harvey e agli occhi supplichevoli di Lizbeth fu sufficiente a dissuaderlo: i due sarebbero rimasti ad ogni costo.
«Molto bene,» si arrese con un sospiro.
«Guarderemo da qui?» si informò Harvey.
Svengaard fu terribilmente irritato da quella domanda. «No di certo!» Quei due idioti erano davvero dei primitivi. Ma poi ricordò che una simile ignoranza era causata dal profondo mistero, accuratamente coltivato, in cui era avvolta l’ingegneria genetica. Con voce più calma, spiegò, «Una sala privata con un sistema video a circuito chiuso sarà a vostra disposizione. La mia infermiera vi accompagnerà lì.»
L’infermiera Washington diede prova della sua professionalità comparendo proprio in quell’istante sulla soglia della sala. Ovviamente aveva ascoltato tutta la conversazione. Un’infermiera davvero brava non lasciava mai al caso simili faccende.
«Qui dentro non c’è altro da vedere?» chiese Lizbeth.
Svengaard percepì il tono supplichevole della donna, notò il modo in cui lei evitava di posare lo sguardo sulla vasca. Tutto il proprio disprezzo, represso fino a quel momento, esplose in un commento sferzante, «Cos’altro vorrebbe vedere, Ms. Durant? Sicuramente non si sarà aspettata di vedere la morula.»
Harvey tirò la moglie per un braccio. «Grazie, Dottore.»
Ancora una volta gli occhi della donna scrutarono la sala, sempre evitando la vasca. «Sì, grazie per averci mostrato… questa stanza. Mi rincuora enormemente vedere quanto siete… per qualunque emergenza.» I suoi occhi indugiarono sul lavabo.
«Ma si figuri,» rispose il Dottor Svengaard. «L’infermiera Washington vi fornirà la lista dei nomi permessi. Potreste occupare parte del tempo scegliendo un nome per vostro figlio, se non l’avete già fatto.» Rivolse un cenno all’infermiera. «Accompagni i Durant nella Sala Cinque, per favore.»
L’infermiera disse, «Prego, se hanno la cortesia di seguirmi?» Si voltò con quell’aria di impazienza indaffarata che Svengaard era giunto a credere tutte le infermiere acquistassero una volta ricevuti i loro diplomi. I Durant vennero risucchiati nella sua scia.
Svengaard tornò a voltarsi verso la vasca.
C’era tanto da fare — Potter, lo specialista della Centrale, sarebbe arrivato entro un’ora… e non sarebbe stato troppo contento di avere degli spettatori. La gente comune capiva così poco gli obblighi che l’esercizio della medicina implicava. Preparare psicologicamente i genitori sottraeva tempo che sarebbe stato meglio utilizzare per faccende più importanti… e sicuramente complicava i problemi posti dalla sicurezza. Svengaard pensò alle cinque direttive, da distruggere dopo essere state lette, inviategli da Max Allgood, il capo del Servizio di Sicurezza della Centrale, durante l’ultimo mese. Era un avvenimento inquietante: faceva sospettare che la Sicurezza avesse subodorato qualche nuovo pericolo.
Ma la Centrale insisteva sulla necessità di socializzare con i genitori. Svengaard sapeva che gli Optimati dovevano avere buone ragioni per aver autorizzato una simile politica. La maggior parte delle loro decisioni era perfettamente sensata. Svengaard sapeva che qualche volta cadeva preda della sensazione di essere un orfano, una creatura priva di passato. Ma per scuotersi da quello stato emotivo gli bastava un momento di riflessione: «Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi.» Loro tenevano in pugno il mondo, avevano pianificato il futuro — un posto per ogni uomo e ogni uomo al suo posto. Alcuni dei vecchi sogni — i viaggi spaziali, le ricerche filosofiche, la colonizzazione dei mari — erano stati temporaneamente accantonati, messi da parte per perseguire il raggiungimento di scopi più importanti. Ma le ricerche in quei campi sarebbero riprese, il giorno in cui loro avrebbero risolto le incognite dell’ingegneria submolecolare.
Nel frattempo, c’era molto da fare per gli individui dotati di buona volontà: nutrire la popolazione di lavoratori, sopprimere i devianti, studiare sempre più a fondo il genoma della razza umana, da cui erano nati gli stessi Optimati.
Svengaard avvicinò il microscopio a mesoni alla vasca in cui era ospitato l’embrione dei Durant, lo regolò su di una amplificazione ridotta, per minimizzare l’interferenza postulata da Heisenberg. Un’altra occhiata non avrebbe danneggiato l’embrione. Magari sarebbe riuscito a localizzare la cellula pilota, facilitando il compito di Potter. Mentre si chinava verso l’oculare, Svengaard si rendeva perfettamente conto di star razionalizzando un proprio impulso. In realtà, non aveva resistito al desiderio di osservare ancora una volta quella morula che aveva il potenziale, che poteva essere plasmata in un Optimate. Simili meraviglie capitavano così di rado.
Accese il microscopio e lo mise a fuoco.
Gli sfuggì un sospiro. «Ahhhh…»
La morula, a bassa amplificazione, appariva estremamente passiva; non pulsava, poiché era immersa nella stasi… eppure era così bella nel suo sonno parziale… così piccola… ma tuttavia teatro di tante antiche battaglie.
Svengaard posò la mano sui controlli dell’ingrandimento, esitò. Un ingrandimento maggiore comportava numerosi pericoli, ma Potter avrebbe potuto senza dubbio porre rimedio alle tracce di interferenza mesonica. E poi la tentazione di guardare al massimo ingrandimento era troppo forte.
Raddoppiò l’ingrandimento.
Lo raddoppiò ancora una volta.
I successivi ingrandimenti diminuirono sempre più l’impressione che la morula fosse in stasi. Svengaard registrò dei movimenti, e nelle zone non perfettamente messe a fuoco si intuivano dei lampi, simili a pesci che guizzassero nell’acqua. Dallo sfondo emerse la tripla spirale di nucleotidi che lo aveva spinto a chiamare Potter. L’embrione era quasi un Optimate. Possedeva quasi quella magnifica perfezione di forme e mente che poteva accettare l’equilibrio indefinito della Vita, raggiunto mediante la somministrazione, estremamente accurata e delicatissima, di enzimi.
Svengaard provò una punta di tristezza. Quegli stessi enzimi, anche se lo mantenevano in vita, lo stavano lentamente uccidendo. Era il destino di tutti gli esseri umani. Potevano vivere duecento anni, qualche volta perfino più a lungo… ma l’equilibrio si spezzava per tutti, tranne che per gli Optimati. Loro erano perfetti, limitati soltanto dalla sterilità… ma quello era il fato di molti umani, e comunque non sottraeva nulla alla loro esistenza eterna.
Poiché anche lui era sterile, Svengaard aveva l’impressione di avere qualcosa in comune con gli Ottimati. Loro avrebbero risolto anche quel problema… un giorno o l’altro.
Si concentrò sulla morula. A quell’ingrandimento, notò un lieve movimento provocato da un aminoacido contenente solfo. Con un moto di sorpresa, Svengaard lo riconobbe: era isovaltina, un indicatore genetico che indicava la presenza di un mixodema latente, foriero di una qualche potenziale deficienza tiroidea. Era un difetto inquietante, in quella morula tanto vicina alla perfezione. Avrebbe dovuto avvertire Potter.
Poi si dedicò all’esame del mitocondrio. Seguì la membrana invaginata fino alle creste appiattite, simili a sacchi, ritornò lungo la seconda membrana esterna, mise a fuoco il compartimento idrofilo esterno. Sì… era possibile ovviare all’inconveniente dell’isovaltina. Quella morula poteva ancora raggiungere la perfezione.
Un movimento guizzante apparve sull’orlo del campo di visione del microscopio.
Svengaard si irrigidì, pensò, Mio Dio, no!
Rimase immobile, con l’occhio incollato all’oculare, mentre il fenomeno che si era verificato soltanto otto volte nella storia della manipolazione genetica avveniva sotto il suo sguardo.
Una linea sottile, simile ad un tentacolo, penetrò nella struttura cellulare, provenendo da sinistra. Si snodò attraverso un ammasso di spirali alfa, trovò le estremità ripiegate delle catene di polipeptidi in una molecola di miosina, si contorse e si dissolse.
Al suo posto comparve una nuova struttura, dal diametro di circa quattro Angstrom e lunga mille Angstrom: protamina spermatica ricca di arginina. Tutt’intorno ad essa, le proteine del citoplasma mutavano, lottavano contro la stasi, e stavano riorganizzandosi in nuove combinazioni. Svengaard, basandosi sulle descrizioni degli altri otto casi, sapeva cosa stava succedendo. Il sistema di scambio ADP-ATP stava diventando più complesso — più "resistente". Ciò avrebbe reso il compito del chirurgo infinitamente più complesso.
Potter sarà furioso, pensò Svengaard.
Spense il microscopio e si raddrizzò. Si asciugò dal sudore i palmi delle mani e controllò l’orologio del laboratorio. Erano trascorsi meno di due minuti. I Durant non erano neppure arrivati nella sala privata, ma in quei due minuti una qualche forma di energia… una forza esterna aveva modificato l’embrione, apparentemente con uno scopo ben preciso.
È questo che ha messo in stato d’allerta la Sicurezza… e gli Optimati? si chiese Svengaard.
Aveva sentito descrivere quel fenomeno, aveva letto i rapporti… ma vederlo con i propri occhi! Vedere quel mutamento… così sicuro, così deciso…
Scosse il capo. No! Non era voluto! Si è trattato di un fenomeno casuale, nient’altro.
Ma quella visione lo ossessionava.
Rispetto a ciò che ho appena visto, quanto sono goffi i miei sforzi! Dovrò avvertire Potter. Toccherà a lui riportare alla normalità quella catena alterata… ammesso che ci riesca, visto che adesso è più resistente.
Turbato, per nulla convinto di aver assistito ad un evento casuale, Svengaard iniziò a effettuare gli ultimi controlli sulle apparecchiature di laboratorio. Controllò la dotazione di enzimi, e il collegamento con il computer che ne controllava il dosaggio: citocromo b5 ed emoproteina P-450 in abbondanza, una buona scorta di ubiquinone, sulfidrile, arseniato, azide e oligomicina, una quantità sufficiente di fosfoistidina. Passò in rassegna l’intera fila: due tipi di agenti acilati, 4-dinitrofenolo, e i gruppi di isoxazolidone-3 con riduzione NADH.
Poi si occupò dell’attrezzatura, controllò il micromeccanismo del bisturi a mesoni, i dati che apparivano sui quadranti della vasca e del meccanismo di stasi.
Tutto in ordine.
Doveva esserlo. L’embrione dei Durant, quella meraviglia dall’incredibile potenziale, adesso era resistente: un’incognita genetica… se Potter fosse riuscito dove gli altri avevano fallito.
CAPITOLO SECONDO
Non appena fu arrivato in ospedale, il Dottor Vyaslav Potter passò dall’Ufficio Registrazioni. Era un po’ stanco, dopo il lungo viaggio in sotterranena dalla Centrale alla Megalopoli di Seatac, ma raccontò una barzelletta sul sistema di riproduzione primitivo all’infermiera dai capelli grigi che era di turno. Lei ridacchiò, mentre scovava l’ultimo rapporto di Svengaard sull’embrione dei Durant. Posò il rapporto sul banco e fissò Potter.
Il dottore diede un’occhiata alla cartellina, poi sollevò gli occhi e incontrò lo sguardo della donna.
È possibile? si chiese. Ma… no: è troppo vecchia — non sarebbe neppure una buona Compagna. E poi, i pezzi grossi non ci concederebbero mai il permesso di procreare. Ricordò a se stesso: Io sono uno Zeek… un J411118zK. Il genotipo Zeek aveva conosciuto un breve periodo di popolarità nella regione della Megalopoli di Timbuctu, durante i primi anni Novanta. Sue caratteristiche erano capelli neri e crespi, epidermide di un colore appena più chiaro di quello del cioccolato, occhi scuri e dall’espressione dolce, un viso grassoccio e benevolo, il tutto su un corpo alto e forte. Uno Zeek. Un Vyaslav Potter.
Il genotipo non aveva mai prodotto un Optimate, maschio o femmina, e neppure un accoppiamento di gameti che fosse fertile.
Potter si era arreso da molto tempo. Era stato tra quelli che aveva votato affinché si smettesse di produrlo. Pensò agli Optimati con cui aveva a che fare e rise di se stesso. «Se non fosse per gli occhi scuri…» Ma quel commento sarcastico non gli causava più tanta amarezza.
«Sa,» disse rivolgendo un sorriso all’infermiera, «i Durant che hanno fornito l’embrione di cui debbo occuparmi stamattina — sono stato io a modellarli, entrambi. Forse è troppo tempo che svolgo questo lavoro.»
«Oh, non dica sciocchezze, Dottore,» replicò lei, scuotendo vigorosamente il capo. «Non ha ancora raggiunto la mezza età. Non sembra neppure un giorno più vecchio dei suoi cento anni.»
Potter sbirciò la cartellina. «Però questi due giovani mi portano il loro embrione affinché io intervenga e…» Si strinse nelle spalle.
«Glielo dirà?» chiese la donna. «Cioè, che è stato lei a modellare anche il loro genotipo?»
«Con tutta probabilità non li vedrò neppure,» le fece notare Potter. «Sa com’è. E poi, qualche volta le persone sono contente del loro genotipo… ma altre volte vorrebbero aver ricevuto un po’ più di questo, un po’ meno di quello. Di solito, attribuiscono la colpa al bioingegnere. Non comprendono, e non potrebbero farlo, i problemi che dobbiamo affrontare nel modellare il loro corredo genetico.»
«Ma i Durant mi sembrano decisamente ben riusciti,» gli fece notare l’infermiera. «Normali, felici… forse un po’ troppo preoccupati per loro figlio, ma…»
«Il loro genotipo è tra i migliori,» replicò Potter. Batté l’indice sulla cartellina. «Qui dentro ne abbiamo la prova: un embrione fertile e dotato di potenziale.» Sollevò il pollice nel tradizionale gesto che indicava un Optimate.
«Dovrebbe essere fiero di loro,» affermò l’infermiera. «La mia famiglia ha ottenuto un solo embrione fertile su centottanta tentativi; loro invece hanno prodotto un embrione fertile e dotato di potenziale.» Ripeté il gesto di Potter.
Quest’ultimo piegò le labbra in una smorfia di commiserazione, chiedendosi il perché si facesse immancabilmente trascinare in conversazioni del genere, specialmente con le infermiere. Sospettava di nutrire ancora delle speranze. Esse affondava nello stesso humus da cui scaturivano le voci incontrollate, i ciarlatani della procreazione, il mercato nero di sostanze fecondanti, la vendita di immaginette dell’Optimate Calapine, in base alla voce infondata che quest’ultima avesse prodotto un embrione fertile. Era lo stesso sentimento che spingeva i fedeli a consumare i grossi alluci degli idoli di fertilità a furia di baci.
La sua espressione di commiserazione divenne un sogghigno cinico. Illusi! Se soltanto sapessero la verità.
«È al corrente che i Durant assisteranno?» gli chiese l’infermiera.
Potter sollevò la testa di scatto e la fissò con sguardo rabbioso.
«In ospedale lo sanno tutti,» proseguì lei. «La Sicurezza è già stata avvertita. I Durant sono stati controllati, e adesso si trovano nella Sala Cinque, che possiede un collegamento video a circuito chiuso con il laboratorio.»
Potter fu invaso dal furore. «Dannazione! È mai possibile che nessuno in questo stupido posto sappia fare le cose per bene?»
«La prego, Dottore,» ribatté l’infermiera con tono freddo. «Non è il caso di arrabbiarsi in questo modo. I Durant hanno invocato la legge. Questo ci lega le mani e lei lo sa benissimo.»
«Al diavolo quella stupida legge!» imprecò Potter, ma ormai si era calmato. La legge! pensò. Ancora quella pagliacciata. Tuttavia, dovette ammettere che era necessaria. Senza la Legge Pubblica 10927, la gente avrebbe potuto iniziare a porsi le domande sbagliate. E senza dubbio Svengaard aveva fatto del suo meglio per dissuadere i Durant.