L’anziana donna raddrizzò la ciotola sulle ginocchia. «Se sei chi penso io» disse, «allora non ho conti in sospeso con te.» Sentiva Phyllida che dentro casa brontolava con la domestica.
«Né io con te» rispose un po’ tristemente l’uomo dai capelli rossi, «anche se sei stata tu a portarmi qui, tu e pochi altri come te, in questa terra che non ha tempo per la magia e non ha posto per pixy e simili.»
«Tu mi hai molto aiutata» disse lei.
«Faccio del bene e faccio del male» rispose lo straniero strabico. «Noi siamo come il vento. Soffiamo in tutte le direzioni.»
Essie annuì.
«Vuoi prendermi per mano, Essie Tregowan?» E le tese la sua. Era coperta di lentiggini, e benché la vista di Essie fosse ormai debole, riuscì a vedere i peli color arancio sul dorso, scintillanti nel sole del pomeriggio. Si morse un labbro. Poi, esitante, mise la sua mano dalle nocche blu in quella dell’uomo.
Quando la trovarono era ancora calda, anche se la vita l’aveva abbandonata e solo metà dei piselli erano stati sgusciati.
5
Quel sabato mattina a salutarli c’era soltanto Utrennjaja Zarja. Prese i quarantacinque dollari e insisté per scrivere con una calligrafia larga e arzigogolata una ricevuta sul retro di un buono scaduto per una bibita. Con il suo viso da vecchia truccato con cura e i capelli d’oro legati alti sulla testa sembrava una bambola, alla luce del mattino.
Wednesday le baciò la mano. «Ti ringrazio per l’ospitalità, cara signora» disse. «Tu e le tue adorabili sorelle siete sempre splendenti come il firmamento.»
«E tu sei un vecchio malvagio» gli rispose lei agitando un dito ammonitore. Poi lo abbracciò. «Stai attento. Non mi piacerebbe venire a sapere che te ne sei andato per sempre.»
«La notizia addolorerebbe anche me, mia cara.»
La donna strinse la mano a Shadow. «Polunochnaja Zarja ha una grande opinione di te» disse. «E anch’io.»
«Grazie» rispose Shadow. «E grazie per la cena.»
Lei aggrottò un sopracciglio. «Ti è piaciuta? Torna a trovarci, allora.»
I due uomini cominciarono a scendere le scale. Shadow infilò le mani in tasca. Il dollaro d’argento era freddo, più grosso e pesante delle monete che era abituato a maneggiare. Provò una tecnica di palmaggio classico, lasciando cadere la mano lungo il fianco con naturalezza, poi la raddrizzò mentre la moneta scivolava nel palmo. Sembrava starci bene, lì dentro, trattenuta dalla leggera pressione di medio e anulare.
«Ben fatto» disse Wednesday.
«Sto cercando di imparare. Da un punto di vista tecnico me la cavo, la parte più difficile resta sempre quella di attirare l’attenzione della gente sulla mano sbagliata.»
«È così che si deve fare?»
«Sì» rispose Shadow. «Si chiama indirizzo erroneo.» Fece scivolare il medio sotto il dollaro spingendolo sul dorso della mano e sbagliò il movimento. La moneta cadde tintinnando sulle scale e rimbalzò per mezza rampa. Fu Wednesday a raggiungerla per primo e a raccoglierla.
«Non puoi permetterti di maltrattare i doni» gli disse. «A una cosa come questa bisogna stare attenti. Non andare a gettarla chissà dove.» Esaminò il dollaro, studiando prima la faccia con l’aquila, poi quella con la Libertà. «Ah, Signora Libertà. Bellissima, non trovi?» La lanciò a Shadow che la prese al volo, e finse di lasciarsela cadere nella mano sinistra, mentre in realtà la tratteneva nella destra, e poi di infilarla in tasca con la sinistra. Invece il dollaro era nella destra in bella mostra. Sembrava a suo agio, lì.
«Signora Libertà» continuò Wednesday, «una straniera, come molti dèi cari agli americani. Una francese, per la precisione, anche se per riguardo al pudore americano i francesi le coprirono i magnifici seni, nella statua offerta a New York. Libertà» si interruppe arricciando il naso davanti a un preservativo usato in fondo alle scale e spostandolo con disgusto con la punta della scarpa. «Qualcuno ci potrebbe scivolare e rompersi il collo» borbottò, sospendendo il discorso. «Come su una buccia di banana, ma con un pizzico di cattivo gusto e ironia in più.» Spalancò il portone e la luce del sole li colpì. «Libertà» tuonò mentre si avviavano verso l’automobile, «una puttana che si lascia prendere solo sopra un letto di cadaveri.»
«Ah sì?»
«Cito un francese. È a lei che hanno eretto una statua nel porto di New York, una puttana a cui piaceva farsi sbattere sopra i corpi dei condannati sulla carretta che tornava dalla ghigliottina. Tieni la fiaccola alta fin che ti pare, mia cara, nei tuoi vestiti si annidano ancora i ratti, e lungo le gambe ti cola ancora lo sperma freddo.» Aprì la portiera e fece segno a Shadow di prendere posto sul sedile accanto a quello di guida.
«A me sembra bellissima» disse osservando la moneta da vicino. La faccia argentea della Libertà gli ricordava un po’ Polunochnaja Zarja.
«Questa è l’eterna follia umana» rispose Wednesday. «Dare la caccia alla carne tenera senza rendersi conto del fatto che si tratta soltanto di un bel rivestimento delle ossa. Cibo per vermi. Di notte, quando abbracci una donna, ti stringi a una massa calda di cibo per vermi. Senza offesa.»
Shadow non aveva mai visto Wednesday così espansivo. Il suo nuovo capo, stabilì, attraversava fasi di estroversione seguite da periodi di profonda indifferenza. «Tu non sei americano, allora?» gli domandò.
«Nessuno lo è. Di origine americana, intendo. O perlomeno così la penso io.» Diede un’occhiata all’orologio. «Prima della chiusura delle banche abbiamo ancora parecchio tempo. A proposito, bel lavoretto ieri sera con Chernobog. Alla fine sarei riuscito a convincerlo a venire lo stesso, però tu l’hai fatto arruolare molto più volentieri.»
«Solo perché dopo mi può ammazzare.»
«Non è detto. Come hai saggiamente fatto osservare tu è vecchio, e il colpo fatale potrebbe lasciarti paralizzato per sempre, diciamo. Un invalido permanente. Perciò guarda con fiducia al futuro, anche nel caso il signor Chernobog riesca a sopravvivere alle prossime difficoltà.»
«Sussistono dei dubbi, in proposito?» chiese Shadow esprimendosi come Wednesday e odiandosi, per questo.
«Sì, cazzo.» Wednesday entrò nel parcheggio di una banca. «Questo è l’istituto di credito che stiamo per svaligiare. Sono aperti ancora per qualche ora. Entriamo a salutarli.»
Fece un cenno a Shadow che scese malvolentieri dalla macchina. Se il vecchio voleva combinare qualche stupidaggine lui non aveva nessuna intenzione di farsi riprendere da una telecamera. Ma siccome la curiosità lo pungeva lo seguì ugualmente. Tenne gli occhi sul pavimento e si grattò il naso facendo del suo meglio per tenere la faccia nascosta.
«Scusi, signora, i moduli di versamento?» chiese Wednesday all’unica impiegata in vista.
«Sono laggiù.»
«Molto bene. E se mi trovassi nella necessità di fare un versamento in orari notturni…?»
«Valgono gli stessi moduli.» La donna gli sorrise. «Sa dove si trova lo sportello, vero, signore? A sinistra dell’entrata principale.»
«Molte grazie.»
Wednesday prese alcuni moduli, salutò con un sorriso l’impiegata e uscì insieme a Shadow.
Sul marciapiede si fermò a grattarsi pensoso la barba. Poi si avvicinò allo sportello del bancomat e a quello della cassa continua per i versamenti notturni all’esterno della banca e li ispezionò. Attraversò la strada e portò Shadow nel supermercato dove acquistò un ghiacciolo al cioccolato fondente per sé e una tazza di cioccolata calda per lui. Su una parete dell’ingresso c’era un telefono pubblico, sotto un tabellone con annunci di camere in affitto e gattini in cerca di famiglie affettuose. Wednesday trascrisse il numero del telefono pubblico. Ritornarono dall’altra parte della strada. «Quello che ci serve adesso» disse «è un po’ di neve. Una bella, intensa, fastidiosa nevicata. Puoi pensare "neve" per me, per favore?»
«Cosa?»
«Concentrati su quelle nuvole — quelle lassù a occidente — e falle diventare sempre più grandi e più nere. Pensa a un cielo grigio e a raffiche di vento dall’Artico. Pensa neve.»
«Non credo che servirà.»
«Stupidaggini. Se non altro ti terrà la mente occupata» ribatté Wednesday aprendo l’automobile. «Adesso andiamo da Kinko. Sbrigati.»
Neve, pensò Shadow seduto in macchina, mentre sorseggiava la cioccolata. Grandi raffiche di neve in fiocchi vorticanti, macchie bianche contro il cielo grigio ferro, neve che ti cade sulla lingua come un bacio, fredda e invernale, che ti sfiora la faccia con un tocco esitante prima di gelarti a morte. Trenta centimetri di neve soffice come zucchero filato per creare un mondo da favola, dove ogni cosa è bellissima, irriconoscibile…
Wednesday gli stava parlando.
«Come?»
«Ho detto che siamo arrivati, ma tu eri da un’altra parte.»
«Stavo pensando alla neve» rispose Shadow.
Da Kinko, Wednesday si mise a fotocopiare i moduli della banca e poi si fece stampare dall’impiegato due fogli con dieci biglietti da visita ciascuno. A Shadow cominciava a far male la testa, e aveva una sensazione spiacevole in mezzo alle scapole; si chiese se avesse dormito male, se l’emicrania fosse uno strano lascito della notte trascorsa sul divano.
Wednesday sedette davanti al computer del negozio a scrivere una lettera e, con l’aiuto dell’impiegato, confezionò alcuni cartelli di grandi dimensioni.
Neve, pensava Shadow. Alta nell’atmosfera, perfetta, minuscoli cristalli che si formano intorno a un atomo di polvere, ognuno una trina. E scendendo i cristalli si uniscono tra loro e diventano fiocchi, ricoprono Chicago di una coltre spessa e bianca, centimetro dopo centimetro…
«Tieni» disse Wednesday porgendogli una tazza di caffè con un grumo galleggiante di latte vegetale in polvere che non si era sciolto. «Penso che basti, non credi?»
«Cosa?»
«La neve. Non vogliamo mica paralizzare la città, ti pare?»
Il cielo aveva il colore grigio di una nave da guerra. Stava nevicando. A più non posso.
«Non sono stato io» disse Shadow. «Cioè, non c’entro io, vero?»
«Bevi il caffè. È pessimo, però allevia un po’ il mal di testa.» Poi aggiunse. «Ottimo lavoro.»
Wednesday pagò l’impiegato di Kinko e uscì con i cartelli, le lettere e i biglietti da visita. Aprì il baule dell’automobile, infilò tutte le carte in un grosso contenitore, una cassetta di metallo del tipo che usano le guardie addette al trasporto valori, e richiuse il baule. Diede a Shadow un biglietto da visita.
«Chi è A. Haddock, direttore della Al Security Service?»
«Sei tu.»
«A. Haddock?»
«Esatto.»
«A per cosa sta?»
«Alfredo? Alphonse? Augustine? Ambrose? Decidi tu.»
«Capisco.»
«Io sono James O’Gorman» disse Wednesday. «Jimmy per gli amici. Vedi? Ho un biglietto da visita anch’io.»
Salirono in macchina. Wednesday disse: «Se riesci a pensare a A. Haddock bene come hai pensato "neve", stasera avremo denaro in abbondanza per offrire da bere e da mangiare ai miei amici.»
«Io in prigione non ci torno.»
«Non succederà.»
«Eravamo d’accordo che non avrei fatto niente di illegale.»
«Infatti. Forse sarai responsabile di complicità e favoreggiamento, di cospirazione, seguita ovviamente dal possesso di denaro rubato, ma credimi, uscirai da questa storia immacolato come un giglio.»
«Questo prima o dopo che il tuo vetusto culturista slavo mi avrà fracassato la testa?»
«Ci vede poco. Ti mancherà, probabilmente. Allora, abbiamo ancora un po’ di tempo a disposizione, sabato la banca chiude a mezzogiorno, dopotutto. Ti andrebbe di mangiare qualcosa?»
«Sì» rispose Shadow. «Sto morendo di fame.»
«Conosco il posto giusto» disse Wednesday. Guidando canticchiava un motivetto allegro che Shadow non riuscì a identificare. Nevicava, proprio grossi fiocchi come li aveva immaginati lui e, cosa strana, se ne sentiva orgoglioso. Razionalmente sapeva di non aver niente a che fare con la nevicata, proprio come sapeva che il dollaro d’argento che aveva in tasca non poteva mai e poi mai essere stato la luna. Eppure…
Si fermarono davanti a un grande edificio basso, una specie di capannone. Un cartello pubblicizzava il buffet a prezzo fisso per quattro dollari e novantanove. «Mi piace questo posto» disse Wednesday.
«Si mangia bene?»
«Non particolarmente. Però l’atmosfera è speciale.»
L’atmosfera che piaceva tanto a Wednesday, si scoprì, una volta consumato il pranzo — pollo fritto per Shadow, che aveva apprezzato — dipendeva dal traffico che si svolgeva sul retro: deposito e vendita di oggetti ricavati da bancarotte e liquidazioni, come annunciava uno striscione teso da una parte all’altra della sala.
Wednesday uscì per andare in macchina a prendere un valigetta con la quale si diresse nel bagno degli uomini. Visto che comunque avrebbe saputo anche troppo presto che cosa stava combinando il suo capo, Shadow decise di curiosare tra i corridoi e vedere la merce in vendita: scatole di caffè "soltanto per filtri usati dalle compagnie aeree"; pupazzetti delle Tartarughe Ninja e di Xena; bambole dell’harem della Principessa Guerriera, orsacchiotti che collegati a una presa suonavano motivetti patriottici sullo xilofono, carne in scatola, vari tipi di galosce e sovrascarpe, sacchetti di toffolette, orologi della campagna presidenziale di Bill Clinton, finti alberelli di Natale, portasale e portapepe a forma di animali, parti anatomiche, frutta e suore e l’oggetto che ottenne subito le preferenze di Shadow, un kit "basta la carota" di un omino di neve con gli occhi fatti di carbone sintetico, la pipa di tutolo e il cappellino di plastica.
Shadow pensava a una donna che era riuscita a dargli l’illusione che la luna si staccasse dal cielo per diventare un dollaro d’argento e a un’altra uscita dalla tomba per attraversare la città e parlare con lui.
«Non è un posto fantastico?» gli chiese Wednesday appena uscito dal bagno mentre si asciugava le mani nel fazzoletto. «Hanno finito le salviette di carta» disse. Si era cambiato e adesso indossava un completo blu con camicia bianca e cravatta blu di maglia, un maglione pesante blu scuro e un paio di scarpe nere. Sembrava un agente di sicurezza, come gli disse Shadow.
«Che cosa vuoi che faccia, giovanotto» rispose l’altro prendendo in mano un acquarietto di plastica con i pesci galleggianti ("Non perdono colore — e non hanno bisogno di mangime!!"), «oltre che congratularmi per la tua perspicacia? Cosa te ne pare di Arthur Haddock? Arthur è un bel nome.»
«Troppo frivolo.»
«Be’, allora inventati qualcosa. Forza. Torniamo in città. Per avere qualche soldo da spendere ci dobbiamo presentare puntuali alla rapina.»
«In genere» disse Shadow «se uno ha bisogno di soldi li prende al bancomat.»
«E infatti. Ti sembrerà strano ma è più o meno quello che pensavo di fare.»
Lasciò la macchina nel parcheggio del supermercato di fronte alla banca e dal baule prese la cassetta di metallo, un blocco di carta e un paio di manette. Si ammanettò la cassetta al polso sinistro. La neve continuava a cadere. Poi indossò un berretto blu a punta, e con il velcro si attaccò il cartellino al taschino della giacca. A quel punto cominciò ad assumere un’andatura goffa e pesante. Sembrava un vecchio poliziotto in pensione e, chissà come, gli era spuntata anche una bella pancia.
«Adesso» disse «tu vai a comperare qualcosa nel supermercato e poi ti fermi nei paraggi del telefono. Se qualcuno ti chiede che cosa stai facendo, rispondi che aspetti una telefonata dalla tua fidanzata che è rimasta in panne.»
«E perché mi dovrebbe chiamare proprio al telefono del supermercato?»
«A me lo domandi?»
Wednesday si infilò un paio di paraorecchi rosa chiaro e chiuse il baule della macchina. Sul cappello scuro e sui paraorecchi si stavano posando i fiocchi di neve.