«Così prese tutte quelle monete da cinque e venticinque centesimi e si dedicò a un’impresa strana e grandiosa. Sotto la casa costruì questi depositi e li riempì di cose che la gente potesse ammirare e la gente venne ad ammirarli. Ogni anno vengono milioni di visitatori.»
«Perché?»
Wednesday si limitò a sorridere ed entrarono nelle Strade di Ieri, alberate e fiocamente illuminate. Bambole vittoriane di porcellana con le faccine atteggiate a un sorriso composto fissavano in gran numero dalle vetrinette polverose come in un film dell’orrore d’altri tempi. Ciottoli sotto i piedi, una volta scura sopra la testa, musica stridula di sottofondo. Superarono una bacheca di vetro piena di burattini rotti e un’altra che conteneva un’enorme scatola armonica. Passarono davanti allo studio del dentista e al negozio del droghiere (RITROVA LA TUA POTENZA! USA LA CINTURA MAGNETICA O’LEARY!).
In fondo c’era una grande bacheca con un manichino dalle fattezze femminili vestito da zingara chiromante.
«Dunque» urlò Wednesday per sovrastare la musica meccanica, «all’inizio di ogni ricerca e di ogni impresa si conviene consultare le Norne. Perciò stabiliamo che questa Sibilla sia la nostra Urdar, d’accordo?» Infilò un gettone nella fessura. La zingara sollevò un braccio con movimenti meccanici, a scatti, e poi lo riabbassò. Dalla fessura apposita uscì un foglietto.
Wednesday lo prese, lo lesse, ripiegandolo brontolò qualcosa e se lo infilò in tasca.
«Non me lo fai vedere? Io ti faccio vedere il mio» disse Shadow.
«Il destino di un uomo è faccenda privata» rispose Wednesday severo. «Non ti chiederei mai di leggere il tuo responso.»
Shadow infilò il gettone e prese il foglietto di carta. Lo lesse.
OGNI FINE È UN NUOVO INIZIO.
IL TUO NUMERO FORTUNATO NON ESISTE.
IL TUO COLORE FORTUNATO NEMMENO.
Motto:
TALE IL PADRE, TALE IL FIGLIO.
Shadow fece una smorfia. Ripiegò il foglietto e lo infilò nella tasca interna della giacca.
Poi proseguirono lungo un corridoio rosso, attraverso stanze piene di sedie su cui erano appoggiati violini e viole e violoncelli che suonavano da soli, o perlomeno sembravano suonare da soli, se ci infilavi un gettone. I tasti si abbassavano, i piatti sbattevano con frastuono, sistemi di tubi soffiavano aria dentro oboi e clarinetti. Shadow osservò, con disappunto e divertimento, che gli archi degli strumenti a corde suonati da bracci meccanici non toccavano mai veramente le corde, che spesso erano allentate o mancavano del tutto. Si chiese se la musica che sentiva fosse prodotta soltanto dagli strumenti o se ci fossero anche nastri registrati.
Avevano percorso chilometri, sembrava, quando arrivarono in una stanza chiamata Mikado, dove una delle pareti era un incubo ottocentesco pseudorientale con percussionisti meccanici dalle sopracciglia sporgenti che picchiavano piatti e tamburi fissando il mondo dalla loro tana incrostata di draghi. Al momento stavano magistralmente torturando la Danse Macabre di Saint-Saëns.
Seduto sulla panchina di fronte al meccanismo c’era Chernobog che batteva il tempo con le dita. I fiati stridevano, le campanelle tintinnavano.
Wednesday gli si sedette accanto, mentre Shadow decise di rimanere in piedi. Chernobog tese la mano sinistra e la strinse a entrambi. «Piacere di rivedervi» disse. Poi si appoggiò allo schienale con tutta l’aria di godersi la musica.
La Danse Macabre arrivò a una fine tumultuosa e discordante. Il lieve difetto di intonazione degli strumenti contribuiva ad accrescere l’atmosfera ultraterrena del luogo. Un brano nuovo cominciò.
«Come è andata la rapina?» chiese Chernobog. «Tutto bene?» Si era alzato ma continuava a trattenersi, come se gli dispiacesse lasciare il Mikado e la sua musica stridula e roboante.
«Liscio come l’olio» rispose Wednesday.
«Io prendo la pensione dal mattatoio» spiegò Chernobog. «Non chiedo altro.»
«Non durerà per sempre» disse Wednesday. «Niente dura per sempre.»
Altri corridoi, altre macchine musicali. Shadow si rese conto che invece di seguire il percorso consigliato ai visitatori stavano attraversando le stanze secondo un disegno che sembrava inventato da Wednesday. Adesso percorrevano un pendio e Shadow, perplesso, si chiese se per caso non fossero già passati, di lì.
Chernobog lo afferrò per un braccio. «Svelto, da questa parte» disse tirandolo verso una grande bacheca di vetro addossata a una parete. La bacheca conteneva il diorama di un barbone addormentato sul sagrato di una chiesa accanto al cimitero. IL SOGNO DELL’UBRIACO recitava il cartello, e continuava spiegando che si trattava di una macchina a gettone creata nel diciannovesimo secolo e proveniente da una stazione ferroviaria della Gran Bretagna. La fessura era stata modificata per ricevere il gettone d’ottone della Casa.
«Mettici un gettone» disse Chernobog.
«Perché?»
«Devi vederlo. Voglio fartelo vedere.»
Shadow inserì il gettone. L’ubriaco sdraiato sul sagrato si portò la bottiglia alle labbra. Una delle tombe si spalancò mostrando un cadavere con le mani protese; una lastra tombale girò su se stessa e al posto dei fiori comparve un teschio ghignante. A destra della chiesa spuntò un fantasma mentre a sinistra una creatura da incubo alla Bosch, appena intravista ma con una faccia pallida e appuntita da uccello, sbucò da dietro una lastra tombale e scivolò nell’ombra. A quel punto si spalancò il portone della chiesa e ne uscì un prete. Spettri, fantasmi e cadaveri scomparvero e l’ubriacone e il sacerdote rimasero soli nel cimitero. Il prete guardò l’ubriaco dall’alto in basso con disprezzo e si ritirò in chiesa chiudendosi il portone alle spalle e lasciando il poveraccio completamente solo.
Quella breve rappresentazione meccanica faceva un effetto molto inquietante. Turbava molto più di quanto dovrebbe essere consentito a un meccanismo, pensò Shadow.
«Sai perché te l’ho fatto vedere?» chiese Chernobog.
«No.»
«Perché così è il mondo. Quello è il mondo reale. È lì, dentro quella bacheca.»
Attraversarono una stanza con le pareti color sangue che ospitava vecchi organi con canne enormi e tini giganteschi, per la fermentazione della birra, si sarebbe detto, presi da chissà quale fabbrica.
«Dove stiamo andando?» chiese Shadow.
«Alla giostra» disse Chernobog.
«Ma siamo già passati davanti al cartello che indicava la giostra almeno dieci volte.»
«Lui va da questa parte. Seguiamo una spirale. Qualche volta la strada più breve è la più lunga.»
A Shadow cominciavano a far male i piedi e trovava la sensazione estremamente inverosimile.
In una stanza che si sviluppava verso l’alto per molti piani un meccanismo suonava Octopus’s Garden; il centro era completamente occupato da una copia di un’enorme balena nera che nella gigantesca bocca di vetroresina aveva fagocitato una barca a grandezza naturale. Da questa stanza passarono nella Sala del Viaggio, dove videro un’automobile coperta di piastrelle, la realizzazione, funzionante, dell’attrezzo inventato da Rube Goldberg per tirare il collo ai polli, e alle pareti i cartelloni pubblicitari arrugginiti di Burma Shave.
È dura la vita
Quanta pena e fatica
E la barba sempre da fare
Burma Shave
diceva un cartellone, e l’altro:
Gli prese la mania di sorpassare
Ma la strada era tutta curve
Così adesso il suo unico vicino
è il becchino…
Burma Shave
e adesso erano in fondo a una rampa e davanti a loro c’era una gelateria. Era aperta, in teoria, ma la ragazza che stava lavando i ripiani aveva un’espressione chiusa, quindi passarono oltre ed entrarono in un bar pizzeria deserto, con un unico avventore, un anziano uomo di colore con un completo a vistosi quadretti e un paio di guanti giallo canarino. Era piccolo e magro, il tipo di ometto che con il passare degli anni sembra rinsecchirsi, però stava mangiando un’enorme coppa di gelato tuttigusti accompagnata da una tazza di caffè di proporzioni gigantesche. Nel portacenere sul tavolo bruciava un sigarette nero.
Wednesday disse a Shadow: «Tre caffè» e andò in bagno.
Shadow prese i caffè e li portò dove si era seduto Chernobog, cioè al tavolo con il vecchietto. Chernobog stava fumando con aria furtiva una sigaretta, come se temesse di essere colto sul fatto. L’altro mangiava felice il gelato, ignorando il suo sigaretto nel portacenere, ma quando Shadow si avvicinò lo prese, fece un tiro profondo e soffiò due anelli di fumo — uno grande, e un altro, più piccolo, che si infilò perfettamente nel primo — e sorrise come se fosse eccezionalmente soddisfatto di sé.
«Shadow, questo è il signor Nancy» disse Chernobog.
Il vecchio si alzò e tese la mano destra guantata di giallo. «Piacere di conoscerti» disse con un sorriso smagliante. «Credo di sapere chi sei. Lavori per il vecchio bastardo Monocolo, vero?» Nella sua voce c’era un leggero accento, una cantilena che avrebbe potuto essere delle Indie Occidentali.
«Lavoro per il signor Wednesday, sì» rispose Shadow. «Stia pure comodo.»
Chernobog fumava la sua sigaretta.
«Penso» annunciò con voce tetra «che a quelli come noi piace fumare perché ci ricorda le offerte che una volta bruciavano in nostro onore, il fumo che saliva quando venivano a chiedere la nostra approvazione o il nostro favore.»
«A me non hanno mai offerto niente del genere» disse Nancy. «Al massimo potevo sperare in un cesto di frutta, o magari un po’ di capra al curry, un bicchierone di qualcosa di freddo da bere, e una donnina con due tette belle sode che mi tenesse compagnia.» Sorrise con i suoi denti candidi e strizzò l’occhio a Shadow.
«Di questi tempi» riprese Chernobog senza cambiare espressione «non abbiamo niente.»
«Be’, non mi portano nemmeno metà della frutta che mi portavano una volta» disse il signor Nancy con gli occhi che brillavano. «Però nel mondo non hanno ancora inventato niente che valga una bella donnina con le tette sode. C’è chi dice che è il sedere che va esaminato per primo, ma per me sono sempre le tette che riescono a mettermi in moto in una mattina fredda.» Nancy cominciò a ridere, una risata genuina, secca e sibilante, e Shadow, suo malgrado, lo trovò simpatico.
Wednesday tornò dal bagno e strinse la mano a Nancy. «Vuoi qualcosa da mangiare, Shadow? Una fetta di pizza? Un panino?»
«Non ho fame.»
«Lascia che ti dica una cosa» si intromise il signor Nancy. «Può passare molto tempo tra il pranzo e la cena, perciò quando qualcuno ti offre del cibo devi dire di sì. Io non sono più un giovanotto, eppure ti assicuro che non dico mai di no alla possibilità di pisciare, mangiare o schiacciare un pisolino di mezz’ora. Mi segui?»
«Sì. Ma non ho fame, davvero.»
«Sei grande e grosso» disse Nancy fissando con i suoi vecchi occhi color mogano quelli grigio chiaro di Shadow, «grande e scemo, devo dire, non mi sembri per niente sveglio. Ho un figlio, stupido che più stupido non si può, e tu me lo ricordi.»
«Se non le dispiace lo prendo come un complimento» disse Shadow.
«Ti sembra un complimento essere chiamato scemo come chi è rimasto a dormire il giorno in cui distribuivano l’intelligenza?»
«Pensavo di più al fatto di essere paragonato a un membro della sua famiglia.»
Il signor Nancy spense il sigaretto, poi scacciò un immaginario puntolino di cenere da un guanto. «Forse ripensandoci non sei il tipo peggiore che il vecchio Monocolo si potesse procurare.» Guardò Wednesday. «Hai qualche idea di quanti saremo, stasera?»
«Ho mandato il messaggio a quelli che sono riuscito a contattare» rispose l’altro. «Ovviamente non ce la faranno tutti. E qualcuno» indicò Chernobog con un’occhiata «magari non vuole venire. Penso che ce ne potremmo aspettare qualche decina senza problemi. E ci sarà un passaparola.»
Superarono una mostra di armature («falsi vittoriani» dichiarò Wednesday davanti alle bacheche, «falsi moderni, elmo del dodicesimo secolo sopra una riproduzione del diciassettesimo, lungo guanto sinistro di ferro del quindicesimo…») e poi Wednesday aprì una porta con la scritta "Uscita" e fece fare a tutti il giro dell’edificio («Io non mi ci raccapezzo con tutti questi fuori e dentro» disse Nancy, «non sono più giovane come una volta e poi vengo da climi più miti»), percorsero una passerella coperta, uscirono da un’altra porta e arrivarono nella Sala del Carosello.
La musica proveniva da un organetto, un’esecuzione commovente e ogni tanto dissonante di un valzer di Strauss. Sul muro appena dentro la sala erano appesi antichi cavalli delle giostre, centinaia di cavalli, alcuni bisognosi di una mano di vernice, altri di una bella ripulita; sopra i cavalli pendevano decine di angeli, con tanto d’ali, ricavati evidentemente da manichini; alcuni mostravano il petto asessuato, altri avevano perso la parrucca e fissavano, calvi e ciechi, dal buio.
E poi c’era il carosello.
Un cartello spiegava che si trattava della più grande giostra del genere al mondo, ne specificava il peso e il numero delle lampadine che scendevano in gotica profusione dal lampadario centrale, e proibiva a chiunque di salire o montare gli animali.
E che animali! Shadow rimase a fissare sbalordito lo spettacolo di centinaia di creature a grandezza naturale che occupavano la piattaforma della giostra. Creature reali, creature immaginarie, e trasformazioni delle due categorie: ognuna diversa dall’altra. Vide una sirena e un tritone, un centauro e un unicorno, elefanti (uno enorme e uno minuscolo), un bulldog, una rana e una fenice, una zebra, una tigre, manticora e basilisco, cigni che trainavano una carrozza, un bue bianco, una volpe, due trichechi gemelli, anche un serpente marino, tutti dipinti con colori vivaci e più che realistici: e tutti giravano sulla piattaforma mentre un valzer finiva e un altro ricominciava. La giostra non rallentava nemmeno.
«Ma che senso ha?» chiese Shadow. «D’accordo, voglio dire, è la più grande del mondo, ci sono centinaia di animali, migliaia di lampadine, e continua a girare, però nessuno ci può salire.»
«Non è qui perché qualcuno ci salga, perlomeno non la gente comune» rispose Wednesday. «È qui per essere ammirata. E qui per essere.»
«Come la ruota della preghiera che gira all’infinito» aggiunse il signor Nancy. «Accumulando potere.»
«Dov’è che dobbiamo incontrare gli altri?» domandò Shadow. «Credevo che avessi detto che li avremmo incontrati qui. Invece non c’è nessuno.»
Wednesday gli fece il suo sorriso terrificante. «Fai troppe domande» disse. «Non sei pagato per fare domande.»
«Scusa.»
«Adesso mettiti lì e aiutaci a salire» continuò Wednesday avvicinandosi alla piattaforma dove c’era un altro cartello con la descrizione della giostra e il divieto di salire.
Shadow fu sul punto di obiettare; invece si limitò ad aiutarli ad arrampicarsi, uno dopo l’altro. Wednesday era incredibilmente pesante, Chernobog se la cavò da solo usando una spalla di Shadow per appoggio e Nancy sembrava non pesare niente. Una volta sul bordo i tre uomini passarono con un saltino sulla piattaforma rotante.
«Allora» abbaiò Wednesday. «Non vieni?»
Non senza una certa esitazione, e solo dopo aver gettato rapidamente un’occhiata in giro per vedere se qualcuno dei guardiani della casa non li stesse osservando, Shadow salì sul bordo del più grande carosello del mondo. Lo divertì e lo stupì scoprire che l’idea di contravvenire al divieto di salire sulla giostra lo preoccupava molto più di quanto non lo avesse preoccupato rapinare la banca, quel pomeriggio.
I tre vecchi scelsero ciascuno un animale. Wednesday montò un lupo dorato. Chernobog cavalcò un centauro con l’armatura e la testa nascosta da un elmo di metallo. Ridacchiando Nancy scivolò sopra un leone rampante fermato dal suo autore nel momento del ruggito. Gli accarezzò un fianco. Il valzer di Strauss li trasportò grandiosamente lontano.
Wednesday sorrideva e Nancy rideva contento, una risata chioccia da vecchio, e perfino il lugubre Chernobog sembrava godersela. Shadow ebbe l’impressione di togliersi di colpo un peso dalle spalle: tre vecchi si stavano divertendo in groppa agli animali della più grande giostra del mondo. Che importanza aveva se di lì a poco sarebbero stati buttati fuori tutti quanti? Non ne valeva la pena, forse? Non valeva la pena di pagare qualcosa per poter dire di essere salito sulla giostra più grande del mondo? Per poter dire di aver viaggiato su uno di quei mostri gloriosi?