Nella sala mensa Sam Fetisher si avvicinò furtivo e sorrise, mettendo in mostra i suoi denti da vecchio. Sedette accanto a Shadow e cominciò a mangiare i maccheroni al formaggio.
«Dobbiamo parlare» disse.
Sam Fetisher era uno degli uomini più neri che Shadow avesse mai visto. Poteva avere sessanta come ottant’anni. E comunque Shadow aveva conosciuto fumatori di crack di trent’anni che sembravano più vecchi di lui.
«Cosa c’è?»
«C’è una tempesta in arrivo» rispose Sam.
«Sembrerebbe. Può darsi che nevichi.»
«Non una tempesta di neve. Più brutta. Ti avverto, ragazzo, quando scoppierà sarai più al sicuro qui dentro che in mezzo a una strada.»
«Ho scontato la mia pena» disse Shadow. «Venerdì esco.»
Sam Fetisher lo fissò. «Di dove sei?» chiese.
«Eagle Point. Nell’Indiana.»
«Sei un bugiardo di merda. Voglio dire di che origini sei. I tuoi da dove vengono?»
«Da Chicago» rispose Shadow. Sua madre aveva vissuto a Chicago, da ragazza, e lì era morta, una mezza eternità prima.
«Io ti ho avvertito. Ne sta arrivando una di quelle brutte. Sta’ alla larga dai guai, ragazzo-ombra. È come… come si chiamano quelle cose su cui vanno in giro i continenti? Placche qualcosa?»
«Placche tettoniche?» buttò lì Shadow.
«Quelle. Placche tettoniche. È come quando si spostano, quando l’America settentrionale va a sbattere contro quella meridionale, non è che ti ci vorresti trovare in mezzo. Afferri il concetto?»
«Nemmeno un po’.»
L’altro strizzò lentamente un occhio scuro. «Cazzo, dopo non venirmi a dire che non ti avevo avvertito» disse infilandosi in bocca una cucchiaiata di tremolante gelatina arancione.
«Non lo farò.»
Shadow trascorse la notte semisveglio, l’orecchio teso ai grugniti e al russare del nuovo compagno di cella che dormiva nella branda sotto la sua. A qualche cella di distanza un detenuto gemeva e ululava singhiozzando come una bestia ferita e di tanto in tanto qualcuno gli gridava di darci un taglio. Shadow si sforzò di non sentirli più, si lasciò sommergere dai minuti vuoti che passavano lentamente.
Ancora due giorni. Quarantotto ore, cominciando con la colazione a base di fiocchi d’avena e caffè della prigione e un secondino di nome Wilson che gli batte un colpo sulla spalla più forte del necessario: «Shadow? Vieni con me».
Shadow si fece un esame di coscienza. Era a posto, il che, aveva avuto occasione di osservare, in una prigione non vuol dire che non si è nei guai fino al collo. Camminavano fianco a fianco, detenuto e secondino, i passi che risuonavano sul pavimento di metallo e cemento.
Shadow sentiva in gola il sapore della paura, amaro come caffè freddo e stantio. La cosa tremenda stava per succedere…
Una voce in un angolo del cervello gli sussurrava che volevano affibbiargli un altro anno, o schiaffarlo in isolamento, oppure tagliargli le mani, o la testa. Si diede dello stupido, però il suo cuore continuava a battere come se dovesse esplodere.
«Io non ti capisco, Shadow» disse Wilson senza fermarsi.
«Che cosa non capisce, signore?»
«Non capisco te. Sei troppo quieto, cazzo. Troppo educato. Ti comporti come i vecchi, invece hai… Quanti anni hai? Venticinque, ventotto?»
«Trentadue, signore.»
«E cosa saresti? Un ispanico? Uno zingaro?»
«Non che io sappia, signore. È possibile.»
«Magari hai un po’ di sangue negro. Sei di sangue negro, Shadow?»
«Non è escluso, signore.» Shadow si teneva dritto e guardava davanti a sé, concentrato a non farsi saltare i nervi dal secondino.
«Ah sì, eh? Be’, quello che so è che mi fai senso.» Wilson aveva i capelli di un biondo rossiccio, la carnagione rossiccia e il sorriso rossiccio. «Tra poco sarai fuori di qui.»
«Spero di sì, signore.»
Superarono un paio di posti di controllo dove Wilson mostrò il tesserino di identificazione. Percorsa una rampa di scale si trovarono davanti alla porta dell’ufficio del direttore. C’era scritto il suo nome — G. Patterson — in caratteri neri, e accanto al battente c’era un semaforo in miniatura.
La luce era rossa.
Wilson premette un pulsante sotto il semaforo.
Rimasero ad aspettare in silenzio per un paio di minuti. Shadow continuava a ripetersi che era tutto a posto, che venerdì mattina avrebbe preso l’aereo per Eagle Point, ma non riusciva a crederci.
La luce rossa si spense e si accese il verde. Wilson aprì la porta. Entrarono.
In quei tre anni Shadow aveva avuto poche occasioni di vedere il direttore. La prima volta Patterson stava facendo visitare il penitenziario a un uomo politico. In un’altra occasione, durante una consegna generale, aveva fatto un discorso ai detenuti a gruppi di cento: la prigione era sovraffollata, aveva detto, e siccome sarebbe rimasta sovraffollata, avrebbero fatto meglio a farci l’abitudine.
Visto da vicino, Patterson era ancora più brutto. Aveva una faccia troppo lunga, e portava i capelli grigi tagliati a spazzola. Puzzava di Old Spice. Alle sue spalle c’era uno scaffale pieno di libri, tutti con la parola "carcere" nel titolo sulla costa; la scrivania era immacolata e vuota, fatta eccezione per un telefono e un calendario con le vignette di "Far Side", di quelli a cui si strappa la pagina giorno per giorno. All’orecchio sinistro portava un apparecchio acustico.
«Siediti, prego.»
Shadow sedette. Wilson rimase in piedi dietro di lui.
Il direttore aprì un cassetto e ne estrasse una pratica che appoggiò sulla scrivania.
«Qui c’è scritto che sei stato condannato a sei anni per aggressione e lesioni personali con le aggravanti. Ne hai scontati tre. Venerdì dovresti essere rilasciato.»
Dovrei? Lo stomaco di Shadow si contrasse. Quanti anni gli avrebbero fatto fare ancora… uno? Due? Tutti e tre? Si limitò a dire: «Sì, signore».
Il direttore si passò la lingua sulle labbra. «Cos’hai detto?»
«Ho detto "Sissignore."»
«Shadow, ti rilasciamo questo pomeriggio. Un paio di giorni prima della data prevista.» Shadow annuì, aspettando il colpo basso. Il direttore guardò il foglio aperto sulla scrivania. «Questo è arrivato dal Johnson Memorial Hospital di Eagle Point… Tua moglie. È morta questa mattina all’alba. Un incidente automobilistico. Mi dispiace.»
Shadow annuì.
Wilson lo riaccompagnò in cella senza parlare. Aprì la porta e lo fece entrare. Poi disse: «È come lo scherzo della notizia buona e di quella cattiva, no? La buona notizia è che ti facciamo uscire prima, quella cattiva è che tua moglie è morta». Rise, come se lo trovasse davvero divertente.
Shadow non aprì bocca.
Raccolse le sue cose come inebetito, regalò quasi tutto. Lasciò l’Erodoto di Low Key e il manuale dei giochi di prestigio e, con uno spasimo momentaneo, abbandonò anche i dischetti di metallo che aveva trafugato dal laboratorio. Non gli sarebbero serviti più, perché c’erano le monete vere, fuori. Si fece la barba. Indossò vestiti civili. Attraversò una fila interminabile di porte, consapevole del fatto che non avrebbe mai più varcato quelle soglie, sentendosi vuoto, dentro.
La pioggia scendeva a raffiche violente dal cielo grigio, una pioggia gelata che lo pungeva in faccia, e il soprabito leggero era già inzuppato mentre si avvicinavano all’ex pulmino scolastico che li avrebbe portati nella città più vicina.
Quando arrivarono al pulmino erano bagnati fradici. Erano in otto a lasciare il carcere. Dentro ne rimanevano mille e cinquecento. Shadow prese posto e rabbrividì fino a quando non cominciò a funzionare il riscaldamento, chiedendosi che cosa avrebbe fatto, adesso, e dove sarebbe andato.
Figure spettrali gli affollavano la mente, non invitate. Con l’immaginazione stava lasciando una prigione diversa in un altro tempo, un tempo molto lontano.
Era rimasto chiuso in una stanza buia troppo a lungo: la barba era incolta e i capelli un groviglio. I secondini lo avevano accompagnato giù per una scala di pietra grigia e su una piazza piena dei colori accesi di cose e persone. Era giorno di mercato e il rumore e le luci lo frastornavano mentre socchiudeva gli occhi per difendersi dal sole che inondava la piazza; annusava l’aria umida e salmastra e tutti i buoni odori del mercato, e alla sua sinistra il sole scintillava riflesso nell’acqua…
Il pulmino si fermò con un sobbalzo a un semaforo rosso.
Il vento ululava e i tergicristalli si trascinavano pesanti di pioggia, trasformando la città in un’imbrattatura umida, rossa e gialla. Benché fosse primo pomeriggio di là del finestrino sembrava già notte.
«Merda» disse il suo vicino cercando di togliere con la mano la condensa dal vetro per guardare una passante tutta bagnata che correva sul marciapiede. «C’è la figa, là fuori.»
Shadow deglutì. Gli venne in mente che non aveva ancora pianto, che in effetti non aveva provato niente. Niente lacrime. Nessun dolore. Zero.
Si ritrovò a pensare a un certo Johnnie Larch che era stato in cella con lui durante i primi tempi e che gli aveva raccontato di essere uscito, una volta, dopo cinque anni dietro le sbarre, con in tasca cento dollari e un biglietto aereo per Seattle, dove viveva la sorella.
Arrivato all’aeroporto aveva mostrato il biglietto all’impiegata e lei gli aveva chiesto la patente.
Gliel’aveva data. Era una patente scaduta da un paio d’anni. L’impiegata aveva detto che non era valida come documento di identità. Lui le aveva risposto che forse non era valida come patente di guida ma certamente bastava per identificarlo, e comunque chi cazzo credeva che fosse, se non era lui?
Lei gli aveva detto di non alzare la voce.
Lui le aveva ordinato di dargli la carta d’imbarco perché altrimenti se ne sarebbe pentita. Non aveva nessuna intenzione di farsi mancare di rispetto in quel modo. In galera non ti lasci mancare di rispetto.
Allora lei aveva premuto un pulsante e nel giro di pochi secondi gli agenti di sicurezza dell’aeroporto erano intervenuti e l’avevano convinto ad andarsene senza fare storie, e siccome lui non se ne voleva andare era seguito un alterco.
Risultato, a Seattle Johnnie Larch non c’era mai arrivato. Aveva passato due giorni nei bar della città, e una volta finiti i cento dollari aveva rapinato un distributore di benzina con una pistola giocattolo per pagarsi da bere, finché la polizia lo aveva beccato mentre pisciava per strada. Nel giro di poco tempo era tornato dentro a scontare il resto della pena nonché un extra per il lavoretto al distributore.
La morale della storia, secondo Johnnie Larch, era questa: mai far incazzare quelli che lavorano all’aeroporto.
«Sei sicuro che il concetto non sia più tipo: "Il genere di comportamento che funziona in particolari ambienti, come quello carcerario, può non funzionare o rivelarsi addirittura dannoso all’esterno di quell’ambiente?"» aveva domandato Shadow, finito di ascoltarlo.
«No, da’ retta a me, amico: non far incazzare quelle troie dell’aeroporto.»
Shadow quasi sorrise, immaginando la scena. La sua patente era valida ancora per qualche mese.
«Stazione degli autobus! Tutti fuori!»
L’edificio puzzava di piscio e birra rancida. Shadow salì su un taxi e chiese al conducente di portarlo all’aeroporto. Gli disse anche che gli avrebbe dato una mancia di cinque dollari se avesse guidato senza parlare. Arrivarono in venti minuti senza scambiare nemmeno una parola.
Poi attraversò incespicando il terminal troppo illuminato. Il fatto di avere una prenotazione elettronica lo preoccupava. Il suo biglietto era fissato per venerdì, e non sapeva se gli avrebbero potuto spostare la prenotazione. Tutto quello che aveva a che fare con l’elettronica gli sembrava magico e quindi capace di scomparire in qualsiasi momento.
Comunque era tornato in possesso del suo portafoglio, dopo tre anni, con dentro alcune carte di credito scadute e una Visa che, scoprì con piacere, era ancora valida fino alla fine di gennaio. Aveva il numero della prenotazione e la certezza che una volta a casa tutto si sarebbe, chissà come, aggiustato. Laura doveva essere viva. Forse si era trattato di un imbroglio per farlo uscire qualche giorno prima. Oppure di un caso di omonimia: il corpo estratto dai rottami apparteneva a un’altra Laura Moon.
Oltre le vetrate dell’aeroporto vedeva i fulmini. Shadow si accorse che tratteneva il respiro, come se aspettasse qualcosa. Il rombo distante del tuono. Espirò.
Una donna bianca lo fissava da dietro il banco con l’aria stanca.
«Buongiorno» le disse. Sei la prima estranea in carne e ossa con la quale parlo da anni. «Ho la prenotazione di un biglietto elettronico. Sarebbe per venerdì, ma devo partire oggi. C’è stato un decesso nella mia famiglia.»
«Mmm. Mi dispiace.» La donna digitò sulla tastiera, fissò lo schermo del monitor e digitò qualcos’altro. «Nessun problema. C’è posto sul volo delle tre e mezzo. Può darsi che parta in ritardo a causa del maltempo, quindi tenga d’occhio il tabellone. Ha bagagli?»
Le mostrò la sacca che portava a tracolla. «Non devo fare il check-in per questa, vero?»
«No. La tenga pure. Ha un documento di identità?»
Shadow le fece vedere la patente. Non era un aeroporto grande, ma lo stupiva la quantità di gente che vi si aggirava senza fare niente. Osservò qualcuno appoggiare i bagagli per terra con disinvoltura, portafogli infilati nelle tasche, borsette incustodite sotto le sedie. Fu soltanto allora che si rese conto di non essere più in prigione.
Trenta minuti all’imbarco. Comperò una fetta di pizza e il formaggio fuso gli bruciò le labbra. Prese il resto e andò verso i telefoni. Chiamò Robbie alla Muscle Farm, ma gli rispose la segreteria telefonica.
«Ciao Robbie» disse. «Dicono che Laura è morta. Mi hanno fatto uscire prima. Sto tornando a casa.»
Poi, visto che ci si può sempre sbagliare, lo sapeva per esperienza diretta, compose il numero di casa e ascoltò la voce registrata di Laura.
"Ciao, non sono in casa oppure non posso rispondere. Lasciate un messaggio e vi richiamerò. Buona giornata."
Shadow non riuscì a lasciare un messaggio.
Rimase seduto su una seggiola di plastica vicino al cancello stringendo la sacca così forte da farsi male alla mano.
Pensò alla prima volta che l’aveva vista. Non sapeva nemmeno il suo nome. Era l’amica di Audrey Burton. Era con Robbie in un séparé del Chi-Chi quando lei era entrata dietro Audrey e lui era rimasto a fissarla. Aveva i capelli lunghi, castani, e gli occhi così azzurri che Shadow aveva erroneamente creduto si trattasse di lenti a contatto colorate. Lei aveva ordinato un daiquiri alla fragola insistendo per farglielo assaggiare, e quando lui l’aveva provato era scoppiata a ridere felice.
A Laura piaceva che gli altri provassero quello che piaceva a lei.
Quando le aveva dato il bacio della buonanotte le sue labbra sapevano di daiquiri alla fragola e da quel momento in poi non aveva più desiderato baciare nessun’altra.
Una voce femminile annunciò che il volo era pronto per l’imbarco e la fila di Shadow fu proprio la prima a essere chiamata. Aveva un posto in coda, con un sedile vuoto accanto. La pioggia batteva incessante contro la fusoliera: Shadow immaginò un gruppo di bambinetti che lanciavano giù dal cielo manciate di piselli secchi.
Quando cominciò il decollo si addormentò.
Era in un luogo buio, e la cosa che lo stava fissando aveva una testa di bufalo orribilmente pelosa, ed enormi occhi acquosi. Il corpo era quello di un uomo, lucido d’olio.
«Cambiamenti in vista» disse il bufalo senza muovere le labbra. «Vi sono alcune decisioni da prendere.»
Il bagliore delle fiamme si rifletteva sulle pareti umide della caverna.
«Dove mi trovo?»
«Nella terra e sottoterra» rispose l’uomo-bufalo. «Sei dove attendono coloro che sono stati dimenticati.» I suoi occhi erano liquide biglie nere, e la voce un rombo dall’altro mondo. Puzzava come una vacca bagnata. «Credi» disse la voce tonante, «se vuoi sopravvivere devi credere.»
«Credere? A cosa?»
L’uomo-bufalo fissò Shadow e si issò, enorme, con occhi di bragia. Aprì la bocca maculata che all’interno era rossa per via del fuoco che bruciava dentro, sottoterra.
«A tutto» ruggì.