Lo riaccompagnarono su per le scale fin dentro l’appartamento. In un angolo della camera da letto c’era un piccolo televisore acceso. Passando, Shadow vide che lo speaker del telegiornale sorrideva e gli faceva l’occhiolino. Dopo essersi assicurato che nessuno lo stesse osservando si girò verso lo schermo e gli fece un gesto osceno.
«Soldi non ne hanno» disse Jacquel quando furono tornati sul carro funebre. «Domani verrà a parlare con Ibis. Sceglierà il tipo di funerale più economico. Le amiche di lei lo convinceranno a fare una cosa ben fatta per darle un addio nella sala principale, immagino. Lui brontolerà. Non ha soldi. Oggigiorno nessuno ne ha, da queste parti. Comunque nel giro di sei mesi sarà morto anche lui. Un anno al massimo.»
Nella luce dei fanali i fiocchi di neve cadevano volteggiando. Il maltempo era arrivato al Sud. «È malato?»
«Non c’entra, questo. Le donne sopravvivono ai mariti. Gli uomini — quelli come lui — quando le mogli li lasciano non tirano avanti molto. Vedrai… comincerà a vaneggiare, tutte le cose familiari gli sembreranno estranee senza di lei. Si stancherà, si spegnerà lentamente e quando smetterà di lottare sarà finita. Magari se lo porterà via una polmonite o magari un cancro, oppure gli si fermerà il cuore. È la vecchiaia, quando tutte le forze ti abbandonano. E allora muori.»
Shadow rifletté per qualche istante. «Ehi, Jacquel?»
«Sì?»
«Lei ci crede all’anima?» Non era quella, la domanda che aveva pensato di fare, e lo sorprese sentire la propria voce che la formulava. Voleva chiedere qualcosa di meno diretto, ma in fondo non c’era niente di meno diretto di così.
«Dipende. Ai miei tempi era tutto organizzato. Quando morivi ti mettevi in fila e rispondevi per le buone e le cattive azioni, e se il peso delle cattive azioni superava di una piuma il peso di quelle buone gettavamo la tua anima e il tuo cuore in pasto ad Ammet, il Mangiatore di Anime.»
«Deve aver mangiato un sacco.»
«Non tanto come potresti pensare. Era una piuma molto pesante. Ce l’eravamo fatta fare apposta. Dovevi essere davvero malvagio per far muovere quella bilancia. Fermati qui dal benzinaio. Riempiamo il serbatoio.»
Le strade erano tranquille, come sono tranquille le strade quando cade la prima neve. «Sarà un bianco Natale» disse Shadow mentre faceva benzina.
«Già. Accidenti. Quel ragazzo era un fortunato figlio di vergine.»
«Gesù?»
«Un ragazzo molto fortunato. Capace di cadere in un pozzo nero e uscirne profumato come una rosa. Diavolo, lo sapevi che non è neanche il suo vero compleanno? L’ha preso da Mitra. Hai già incontrato Mitra? Con il berretto rosso? Simpatico?»
«No, non mi pare.»
«In effetti… da queste parti non l’ho mai visto. Era un tipaccio da esercito. Forse è tornato in Medio Oriente a spassarsela, anche se temo che a questo punto non ci sia più. Succede. Un giorno tutti i soldati dell’impero devono bagnarsi nel sangue del toro sacrificale. L’indomani non si ricordano neanche quand’è il tuo compleanno.»
Squisc facevano i tergicristalli respingendo la neve sui bordi del parabrezza, ammucchiandola in grovigli e ghirigori di ghiaccio.
Un semaforo giallo si trasformò rapidamente in rosso e Shadow frenò di colpo. Il carro funebre sbandò, fermandosi con un testacoda.
Verde. Shadow ripartì e si mantenne sui quindici chilometri orari, più che sufficienti su una strada così scivolosa. In seconda il motore girava bello morbido: Shadow pensò che doveva aver passato molto tempo in quella marcia e a quella velocità, bloccando il traffico.
«Molto bene» disse Jacquel. «Dunque, sì, dicevamo, Gesù se la passa piuttosto bene da queste parti. Ma ho incontrato un tale che mi ha detto di averlo visto fare l’autostop in Afghanistan e nessuno si fermava a tirarlo su. Sai com’è, tutto dipende dal contesto.»
«Penso che stia per arrivare una vera tempesta» disse Shadow. Si riferiva al tempo atmosferico.
Quando, parecchi minuti dopo, Jacquel si decise a rispondere non parlò affatto del tempo. «Guarda noi due, me e Ibis» disse. «Nel giro di pochi anni saremo senza lavoro. Abbiamo messo qualcosa da parte per gli anni di magra, ma gli anni di magra sono già arrivati da un pezzo, e ogni anno sembra, se possibile, addirittura più magro del precedente. Horus è pazzo, un pazzo fuori di testa, passa il suo tempo sotto le sembianze di un rapace e mangia tutto quello che viene investito in autostrada. Che razza di vita è? Bast l’hai vista. E noi ce la caviamo meglio di tutti, quasi. Perlomeno un filino di fede c’è ancora. La maggior parte dei poveracci in giro per il mondo non ha neanche quella. È come l’impresa di pompe funebri: un giorno o l’altro le grosse compagnie ci compreranno, che tu lo voglia o no, perché sono più grandi ed efficienti e perché funzionano. Lottare non cambierà un bel niente perché la battaglia l’abbiamo perduta venendo in questa terra verdeggiante cento, mille o diecimila anni fa. Noi siamo arrivati e all’America non glien’è importato niente. Veniamo svenduti, o ignorati, oppure finiamo su una strada. Quindi sì, hai ragione. C’è tempesta in arrivo.»
Shadow svoltò sulla strada dove tutte le case, salvo una, avevano le finestre sprangate, case vuote, chiuse per sempre. «Prendi il vicolo sul retro» disse Jacquel.
Shadow manovrò in retromarcia in modo da accostare all’ingresso. Ibis aprì il carro funebre e le porte dell’obitorio, Shadow sganciò la barella e la tirò fuori. I supporti con le rotelle si aprirono appena superato il paraurti. La spinse fino al tavolo dell’imbalsamazione. Sollevò Lila Goodchild, tenendola tra le braccia nel suo opaco sacco azzurro come una bambina addormentata, con attenzione, quasi avesse paura di svegliarla, e l’appoggiò sul tavolo di quella stanza gelida.
«Abbiamo il lettino per trasferirla» disse Jacquel. «Non è necessario portarla a braccia.»
«Non è gran cosa» rispose Shadow. Cominciava a parlare come Jacquel. «Sono grande e grosso. Non mi costa fatica.»
Era stato un bambino piccolo e magro, tutto pelle e ossa. L’unica sua foto che Laura aveva trovato abbastanza bella da incorniciarla mostrava un ragazzino dall’aria solenne con i capelli spettinati e gli occhi scuri, in piedi accanto a un tavolo coperto di torte e dolciumi. Doveva essere stata scattata in un’ambasciata a qualche festa di Natale, visto che portava un vestito elegante e il cravattino.
Avevano cambiato troppe case, lui e sua madre, prima in giro per l’Europa, da un’ambasciata all’altra, dove lei lavorava come addetta alle comunicazioni degli Affari esteri, trascrivendo e inviando telegrammi cifrati in tutto il mondo, e quando lui aveva otto anni erano tornati negli Stati Uniti. La madre, ormai troppo spesso ammalata per riuscire a conservare un lavoro fisso, aveva continuato a trasferirsi da una città all’altra, senza pace, un anno qua e uno là, accettando impieghi temporanei, quando la salute glielo permetteva. Non si fermavano mai abbastanza per permettere a Shadow di farsi degli amici, di sentirsi a casa, di rilassarsi. Ed era un bambino gracile…
Era cresciuto di colpo. Nella primavera del suo tredicesimo compleanno i ragazzi lo tormentavano, coinvolgendolo in risse che erano sicuri di vincere e dalle quali Shadow finiva per scappare via arrabbiato e spesso in lacrime, chiudendosi in bagno a lavarsi il fango o il sangue dalla faccia, prima che qualcuno se ne accorgesse. Poi era arrivata l’estate, la sua lunga magica tredicesima estate, che Shadow trascorse cercando di stare lontano dai ragazzi più grandi, nuotando in piscina e leggendo i libri presi in prestito dalla biblioteca. All’inizio dell’estate sapeva nuotare appena. Alla fine d’agosto era in grado di farsi una vasca dopo l’altra con un bel crawl, di tuffarsi dal trampolino più alto, e la sua pelle esposta al sole e all’acqua aveva preso una bella abbronzatura dorata. A settembre, tornato a scuola, aveva scoperto che i ragazzi che lo avevano reso tanto infelice erano piccole creature flaccide che ormai non lo preoccupavano più. I due che ci provarono ricevettero una lezione succinta ma molto dolorosa e cambiarono subito atteggiamento. Shadow trovò una nuova definizione di se stesso: non poteva più essere il ragazzino tranquillo che faceva del suo meglio per restarsene in disparte senza dare nell’occhio. Era troppo alto ormai, troppo visibile. Alla fine dell’anno faceva parte della squadra di nuoto e di sollevamento pesi, e l’allenatore di triathlon lo voleva a tutti i costi nella sua squadra. Essere grande e forte gli piaceva. Gli dava un’identità. Era stato un bambino timido e tranquillo, dedito alla lettura, e si era rivelata un’esperienza penosa; adesso era un ragazzone sciocco e nessuno si aspettava da lui altro che di vedergli spostare da solo il divano da una stanza all’altra.
Nessuno fino a Laura, perlomeno.
Il signor Ibis aveva preparato la cena: riso e verdure bollite per sé e Jacquel. «Non mangio carne» spiegò «e Jacquel si procura il suo fabbisogno di proteine durante il lavoro.» Accanto al piatto di Shadow c’era una confezione di pollo fritto KFC e una bottiglia di birra.
Nel cartone c’era più pollo di quanto Shadow potesse mangiare e alla fine, dopo aver tolto la pelle e l’impanatura e ridotto la carne a pezzettini, diede quel che restava alla gatta.
«In prigione c’era un tizio che si chiamava Jackson» disse mentre mangiava, «lavorava nella biblioteca. Mi ha raccontato che hanno cambiato in KFC il nome Kentucky Fried Chicken perché quello che cucinano non è vero pollo. È una specie di mutante geneticamente modificato, una gigantesco millepiedi senza testa, un’infinità di segmenti composti da zampe, petto e ali che viene nutrito attraverso tubicini. Secondo Jackson è per questo che il governo non gli ha più fatto usare la parola pollo.»
Il signor Ibis inarcò un sopracciglio. «Credi che sia vero?»
«No. Secondo il mio vecchio compagno di cella, Low Key, hanno cambiato nome perché la parola fried, fritto, era diventata pericolosa. Forse vogliono che la gente creda che il pollo si sia cucinato da solo.»
Dopo cena Jacquel si ritirò per scendere all’obitorio. Ibis andò nello studio a scrivere e Shadow si trattenne ancora un po’ in cucina sorseggiando birra e nutrendo la gattina scura con i pezzetti di pollo. Finiti la birra e il pollo lavò piatti e posate, li mise sullo scolapiatti ad asciugare e salì di sopra.
Quando entrò nella stanza la gattina stava già dormendo acciambellata ai piedi del letto come una mezza luna pelosa. Nel cassetto di mezzo della toletta trovò alcuni pigiama a righe di cotone. Sembravano vecchi di almeno settant’anni ma profumavano di fresco e pulito: ne indossò uno che gli calzava, come l’abito nero, alla perfezione.
Sul tavolino accanto al letto c’era una pila di "Reader’s Digest", tutti antecedenti il marzo del 1960. Il carcerato addetto alla bilioteca, Jackson, lo stesso che spacciava per vera la storia del pollo mutante del Kentucky Fried Chicken, e che gli aveva raccontato che il governo trasferiva i prigionieri politici nei campi di concentramento nel nord della California su treni merci con i vagoni tutti neri nel cuore della notte, gli aveva anche detto che la Cia usava le redazioni del "Reader’s Digest" come copertura delle loro filiali sparse in tutto il mondo. Secondo lui le redazioni del "Reader’s Digest" erano in realtà tutti uffici della Cia.
"Ho sentito una barzelletta" disse la voce del defunto Wood nel ricordo. "Come facciamo a essere sicuri che la Cia non fosse coinvolta nell’assassinio di Kennedy?"
Shadow socchiuse la finestra abbastanza per far entrare un po’ d’aria e dare la possibilità alla gatta di uscire sul balcone.
Accese la lampada sul comodino e, per distogliere la mente dai fatti accaduti negli ultimi giorni, decise di leggere, scegliendo a questo scopo gli articoli più noiosi. A metà di Io sono il pancreas di John, si accorse che si stava addormentando. Fece appena in tempo a spegnere la luce e ad appoggiare la testa sul cuscino che era già crollato nel sonno.
In seguito non fu più in grado di ricostruire la sequenza e i dettagli del sogno: qualsiasi tentativo di ricordare ebbe soltanto l’effetto di produrre un groviglio intricato di immagini. C’era una ragazza. L’aveva incontrata chissà dove, e adesso stavano attraversando un ponte sopra un piccolo lago nel centro di una città. Il vento increspava la superficie dell’acqua formando ondine bordate di bianco che a Shadow sembravano minuscole mani protese verso di lui.
«Laggiù» disse la donna. Indossava una gonna leopardata che si alzava al vento lasciando scoperta la zona di pelle sopra le calze che era chiara e morbida e nel sogno sul ponte, davanti a Dio e al mondo, Shadow si mise in ginocchio e affondò la testa nel suo inguine inspirando l’intossicante afrore femminile. Si rese conto di avere un’erezione anche nella vita reale, un’erezione pulsante e mostruosa come quelle che gli capitavano durante la pubertà.
Si ritrasse e guardò in alto senza tuttavia riuscire a vedere la ragazza in faccia. Ma la sua bocca cercava quella di lei e le sue labbra erano morbide e le aveva preso i seni nelle mani e accarezzava la sua soffice pelle serica, scostando la pelliccia che le copriva i fianchi, scivolando dentro quella meravigliosa fenditura che era calda e bagnata, aperta per lui, come un fiore che gli sbocciava in mano.
La donna si strinse a lui facendo le fusa estatica, allungando una mano sul suo pene, stringendoglielo. Lui allontanò le lenzuola e le fu sopra, aprendole con una mano le cosce, mentre lei lo guidava dentro di sé con una sola magica spinta…
Adesso era insieme a lei nella sua cella in prigione, e la stava baciando con desiderio. Lei lo stringeva tra le braccia, lo avvinghiava con le gambe perché non si potesse allontanare, non potesse scivolare fuori nemmeno se l’avesse voluto.
Non aveva mai baciato labbra così morbide. Non aveva mai immaginato che esistesse, una simile morbidezza. La lingua, però, era come carta vetrata contro la sua.
«Chi sei?» le chiese.
Lei non rispose, lo respinse sul letto e con un movimento flessuoso gli si sedette sopra e cominciò a cavalcarlo. No, non a cavalcarlo, a insinuarsi in lui con una serie di morbidi movimenti ondulatori, via via sempre più potenti, colpi e spinte e ritmi che si frangevano contro il corpo e la mente come sulla riva del lago si frangono le onde mosse dal vento. Le sue unghie erano come aghi quando affondarono nei fianchi e lo graffiarono; non provò dolore ma soltanto piacere, ogni sensazione veniva trasformata da un processo alchemico in attimi di puro piacere.
Lottò per ritrovare se stesso, lottò per parlare, la testa spazzata dai venti del deserto sulle dune.
«Chi sei?» ripeté, annaspando nel tentativo di tirar fuori la voce.
Lei lo fissò con i suoi occhi color ambra scura, poi si abbassò e lo baciò sulla bocca con passione, con una profondità e un abbandono tali che quasi quasi, lì sul ponte sul lago, nella sua cella in prigione, nel letto di un’impresa di pompe funebri di Cairo, Shadow fu sul punto di venire. Si abbandonò alla sensazione come un aquilone si lascia portare dall’uragano, cavalcandolo, nella speranza che non arrivi al culmine, nella speranza che non esploda, nella speranza che non finisca mai. Riuscì a riprendere il controllo. Doveva mettere in guardia quella donna.
«Mia moglie Laura. Ti ammazzerà.»
«Non può ammazzarmi» disse lei.
Da un angolo del cervello affiorò un ricordo assurdo: nel Medioevo si diceva che una donna sopra l’uomo, durante il coito, avrebbe concepito un papa. Così veniva detta quella posizione: cercare il papa…
Avrebbe voluto sapere come si chiamava, ma non osava chiederglielo una terza volta, e la strinse a sé sentendo i capezzoli duri e sporgenti e lei ricambiò l’abbraccio attirandolo sempre più dentro di sé e questa volta lui non riusciva né a cavalcare l’onda né a farcisi portare, questa volta l’ondata lo travolse mandandolo a capitombolare e mentre si inarcava per riaffiorare affondava più profondamente di quanto avrebbe mai immaginato possibile, come se lui e la donna fossero tutt’uno, un’unica creatura che assaporava, beveva, abbracciava, desiderava…
«Lascia che sia» gli disse con un sordo ruggito. «Abbandonati a me. Lascia che sia.»
E Shadow venne, sciogliendosi tra spasmi, la mente stessa prima dissolta, poi, attraverso la fase di sublimazione, piano piano dallo stato liquido a quello gassoso.
Chissà dove, in fondo in fondo, prese un respiro, una limpida boccata d’aria che scese nei polmoni, e allora capì che aveva trattenuto il fiato per troppo tempo. Tre anni, almeno. Forse di più.