Cinque giorni dopo Shadow era a bordo di un’auto a noleggio quando Wednesday uscì corrucciato da un ufficio di Dallas. Sbatté la portiera e rimase seduto in silenzio, rosso di rabbia. «Metti in moto» disse. Poi aggiunse: «Albanesi di merda. Come se a qualcuno gliene fregasse di loro».
Tre giorni più tardi volarono a Boulder, dove pranzarono piacevolmente con cinque giovani donne giapponesi. Fu un pasto improntato alla più grande cortesia e Shadow non capì se alla fine fossero arrivati a un accordo o a una decisione. Comunque Wednesday sembrava abbastanza contento.
Shadow aveva voglia di tornare a Lakeside, dove c’era una pace, un’atmosfera accogliente che apprezzava.
Ogni mattina, se non era in viaggio, attraversava il ponte e arrivava in piazza. Comperava due pasty da Mabel’s; ne mangiava una sul posto, bevendo un caffè. Se qualcuno aveva dimenticato il giornale lo leggeva, benché non fosse così interessato alle notizie da comperarsene uno personalmente.
Si infilava la seconda pasty in tasca, avvolta in un sacchetto di carta, e la mangiava a pranzo.
Un mattino stava leggendo "Usa Today" quando Mabel gli chiese: «Ehi Mike, dove vai oggi?».
Il cielo era di un pallido azzurro, la foschia mattutina aveva coperto gli alberi di brina. «Non so» rispose lui. «Forse torno sulla pista.»
La donna gli riempì di nuovo la tazza di caffè. «Non sei mai stato a County Q? È piuttosto bello. Prendi la stradina che parte dal negozio di tappeti sulla Twentieth Avenue.»
«No. Non ci sono mai stato.»
«Be’. È proprio bello.»
Era straordinariamente bello. Shadow parcheggiò l’auto in periferia e camminò sul ciglio della strada, una strada di campagna che serpeggiava intorno alle colline a est della città coperte di aceri brulli, betulle candide, abeti scuri.
A un certo punto un gattino si mise a camminare al suo fianco. Aveva il colore della polvere, con le zampette bianche. Shadow gli si avvicinò e l’animale non fuggì.
«Ehi gatto» lo chiamò senza imbarazzo.
Il gatto piegò la testa e lo guardò con gli occhi smeraldini. Poi soffiò, non contro di lui, ma contro qualcosa sul bordo della strada, qualcosa che Shadow non poteva vedere.
«Tranquillo» gli disse. Il gatto attraversò e scomparve in un campo di granturco che non era stato raccolto.
Dopo la curva successiva c’era un minuscolo cimitero con vecchie lastre tombali levigate dal tempo, anche se su alcune erano posati dei fiori freschi. Non c’era un muro di cinta, nessuna palizzata, soltanto rovi piegati dal ghiaccio e dagli anni. Shadow superò il cumulo di ghiaccio e fanghiglia sul ciglio della strada. C’erano due montanti di pietra all’ingresso del camposanto, ma il cancello mancava. Entrò.
Si aggirò osservando le pietre tombali: non c’erano iscrizioni successive al 1969. Spazzò via la neve da un angelo di granito dall’aria solida e vi si appoggiò.
Dalla tasca tirò fuori il sacchetto di carta con la pasty. Quando lo aprì un filo di vapore si disperse nell’aria fredda. Aveva un buon profumo. L’addentò.
Alle sue spalle sentì scricchiolare qualcosa. Per un attimo pensò che fosse il gatto, poi riconobbe il profumo e, sotto il profumo, l’odore di decomposizione.
«Non guardarmi, ti prego» disse lei da dietro.
«Ciao, Laura.»
Lei rispose con voce esitante, forse, gli sembrò, addirittura impaurita. «Ciao, cucciolo.»
Lui staccò un pezzo di pasty. «Vuoi assaggiarne un po’?» le chiese.
Adesso Laura era in piedi proprio alle sue spalle. «No. Mangiala tu. Io non mangio più queste cose.»
Shadow addentò la sua pasty. Era ottima. «Vorrei vederti» disse.
«Non ti piacerebbe» rispose lei.
«Ti prego.»
Laura aggirò l’angelo di granito e Shadow la guardò alla luce del sole. C’erano alcune cose diverse e altre che erano rimaste uguali. Gli occhi non erano cambiati, né il sorriso fiducioso. Ovviamente sembrava molto morta. Shadow finì di mangiare, si alzò e rovesciò le briciole nel sacchetto di carta che poi piegò e si infilò in tasca.
I giorni passati nell’impresa di pompe funebri a Cairo in un certo senso gli rendevano più facile stare con lei. Non sapeva che cosa dirle.
La mano fredda di Laura cercò la sua e la strinse leggermente. Gli batteva forte il cuore. Aveva paura, e ciò che lo spaventava era la normalità di quel momento. Stava talmente bene accanto a lei che sarebbe rimasto lì per sempre.
«Mi manchi» ammise.
«Sono qui» disse lei.
«È quando ci sei che mi manchi di più. Quando siamo insieme. Quando non ci sei, quando sei soltanto un fantasma del passato o un sogno di un’altra vita, allora è più facile.»
Gli strinse la mano.
«Dunque» domandò lui, «com’è la morte?»
«È dura. Non finisce mai.»
Gli appoggiò la testa su una spalla e lui quasi si sciolse. Disse: «Vuoi fare due passi?».
«Volentieri.» Gli sorrise, un sorriso sbilenco e un po’ nervoso nel viso morto.
Uscirono dal camposanto e tenendosi per mano ripresero la strada che portava in città. «Dove sei stato?» gli chiese Laura.
«Quasi sempre qui.»
«Ti ho un po’ perso, da Natale. A volte sapevo dov’eri per qualche ora, o qualche giorno. Sembravi dappertutto. Poi scomparivi.»
«Ero qui a Lakeside. È una bella cittadina.»
«Oh.»
Laura non indossava più il tailleur blu con cui era stata seppellita. Adesso portava una gonna lunga e scura, uno strato di maglioni e un paio di stivali rosso borgogna. Shadow le fece i complimenti per gli stivali.
Lei piegò la testa. Sorrise. «Non sono belli? Li ho trovati in questo negozio fantastico a Chicago.»
«Che cosa ti ha fatto venire fin qui da Chicago?»
«Oh, è da un pezzo che me ne sono andata, cucciolo. Ero diretta a sud perché il freddo non mi piace. Una volta mi piaceva, dirai, ma adesso no, deve dipendere dal fatto che sono morta. Più che come freddo lo percepisci come una specie di nulla; e quando sei morto è proprio il nulla che ti fa paura. Stavo andando in Texas con l’idea di passare l’inverno a Galveston. Mi piaceva, da bambina.»
«Strano» disse Shadow, «è la prima volta che te ne sento parlare.»
«Ah sì? Allora era qualcun altro che ci passava l’inverno. Non saprei. Ricordo i gabbiani: il pane lanciato in aria per i gabbiani, erano centinaia, il cielo coperto di gabbiani che battevano le ali e acchiappavano il pane al volo.» Si interruppe. «Se questa scena non l’ho vista io deve averla vista qualcun altro.»
Un’automobile svoltò alla curva e il conducente salutò con la mano. Shadow ricambiò il saluto. Camminare con sua moglie era meravigliosamente normale.
«Si sta bene» disse lei, come se gli avese letto nel pensiero.
«Sì.»
«Quando ho sentito la chiamata sono tornata indietro di corsa. Ero appena arrivata in Texas.
«La chiamata?»
Lei alzò gli occhi. Al collo le brillava la moneta d’oro. «Sembrava una chiamata. Ho cominciato a pensare a te. A quanto avevo bisogno di vederti. Era una specie di fame.»
«Sapevi che ero qui?»
«Sì.» Aggrottò la fronte e affondò gli incisivi superiori nel labbro inferiore bluastro, mordendolo delicatamente. Piegò la testa di lato e disse: «Lo sapevo. All’improvviso lo sapevo. Sembrava che mi stessi chiamando, invece non eri tu, vero?».
«No.»
«Non volevi vedermi.»
«Non è quello.» Esitò. «Sì. Non volevo vederti. Mi fa troppo male.»
La neve scricchiolava sotto le scarpe scintillando al sole come una coltre di diamanti.
«Dev’essere difficile» disse lei «non vivere.»
«Vuoi dire essere morta? Senti, sto ancora cercando la maniera di riportarti indietro. Credo di essere sulla buona strada…»
«No» disse lei, «cioè, ti sono grata. E spero proprio che tu ci riesca. Ho fatto un sacco di cose sbagliate…» Scosse la testa. «Ma adesso parlavo di te.»
«Io sono vivo. Non sono morto, non ti ricordi?»
«Non sei morto, però non sono sicura che tu sia davvero vivo.»
Che brutta piega ha preso questa conversazione, pensò lui. Che brutta piega ha preso tutto quanto.
«Io ti amo» disse lei in tono distaccato. «Tu sei il mio cucciolo. Ma da morti si vedono le cose con più chiarezza. È come se tu non ci fossi, capisci? Sei come un grosso, solido buco a forma di uomo.» Aggrottò le sopracciglia. «Anche quando stavamo insieme. Mi piaceva stare con te. Tu mi adoravi e avresti fatto qualsiasi cosa per me. Però a volte mi capitava di entrare in una stanza credendo che fosse vuota. Accendevo la luce, la spegnevo, e mi rendevo conto che tu eri lì seduto; non leggevi, non guardavi la tv, non facevi niente.»
A quel punto lo abbracciò, come per mitigare l’asprezza delle proprie parole, e aggiunse: «La cosa più bella di Robbie è che lui era vero. Uno stronzo, a volte, oppure divertente, e quando facevamo l’amore gli piaceva avere gli specchi intorno perché così poteva vedersi mentre mi scopava, ma era vivo, cucciolo. Voleva veramente le cose. Riempiva lo spazio». Si interruppe e lo guardò piegando leggermente la testa. «Scusa. Ti ho ferito?»
Siccome la voce avrebbe potuto tradirlo, Shadow si limitò a fare segno di no con la testa.
«Bene» disse lei. «Molto bene.»
Stavano arrivando alla piazzola di sosta dove aveva parcheggiato la macchina. A Shadow sembrava che a quel punto fosse necessario dire qualcosa: Ti amo, oppure non andartene, ti prego, oppure ancora mi dispiace. Il tipo di frase che si usa per rappezzare una conversazione che imprevedibilmente è scivolata in zone buie. Invece disse: «Io non sono morto».
«Forse no» rispose lei. «Ma sei sicuro di essere vivo?»
«Guardami.»
«Questa non è una risposta» ribatté la sua defunta moglie. «Quando sarai vivo lo capirai.»
«E adesso?»
«Be’, ti ho rivisto. Adesso torno a sud.»
«In Texas?»
«In qualche posto caldo. Non mi interessa quale.»
«Io devo stare qui ad aspettare. Fino a quando il mio capo non mi chiama.»
«Questa non è vita» disse Laura. Sospirò, e poi sorrise, quel sorriso che dopo mille volte riusciva a commuoverlo ancora. Come se ogni volta fosse la prima.
Si avvicinò per stringerla a sé ma lei scosse la testa e si sottrasse all’abbraccio. Seduta sull’angolo di un tavolo da picnic coperto di neve rimase a guardarlo allontanarsi in macchina.
Interludio
Era cominciata la guerra e non se ne accorgeva nessuno. La tempesta era vicina e nessuno se ne rendeva conto.
A Manhattan la caduta di una trave provocò la chiusura di una strada per due giorni: uccise due pedoni, un tassista arabo e il suo passeggero.
Un camionista di Denver fu trovato ucciso in casa. Il corpo contundente, un martello a granchio con l’impugnatura in plastica, era stato abbandonato sul pavimento accanto al cadavere. Il volto non era stato toccato ma il cranio era sfondato e sullo specchio del bagno qualcuno aveva scritto con un rossetto scuro alcune parole in un alfabeto sconosciuto.
In un ufficio di smistamento della corrispondenza di Phoenix, in Arizona, un uomo impazzì, diede i numeri, come dissero al telegiornale quella sera, e sparò a Terry "Il Troll" Evensen, uno strano individuo morbosamente obeso che viveva da solo in una roulotte. I feriti erano stati parecchi ma rimase ucciso soltanto Evensen. L’omicida — un dipendente delle poste insoddisfatto, si pensò a tutta prima — non fu né catturato né, tantomeno, identificato.
«Onestamente» dichiarò il direttore dell’ufficio di Terry "Il Troll" Evensen, al telegiornale delle cinque, «tutti immaginavano che sarebbe stato proprio il Troll a dare i numeri per primo. Bravo lavoratore, ma uno strano tipo. Non si può mai dire nella vita, eh?»
Più tardi la sera, quando rimandarono in onda il servizio, l’intervista al direttore dell’ufficio postale fu tagliata.
In Montana vennero trovati morti i nove membri di una comunità dì anacoreti. I giornalisti avanzarono l’ipotesi che si fosse trattato di un suicidio collettivo, ma presto si seppe che la causa del decesso era imputabile all’avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una vecchia caldaia.
Nel cimitero di Key West venne profanata una cripta.
In Idaho un treno passeggeri della Amtrak si scontrò con un camion della Ups e il conducente del camion rimase ucciso. I passeggeri del treno riportarono soltanto ferite lievi.
A questo stadio era ancora una guerra fredda, una guerra per finta, dove non c’era in gioco niente di davvero importante.
Il vento scuoteva i rami dell’albero. Le fiamme sprigionavano scintille. La tempesta stava arrivando.
La regina di Saba, mezzo demone, si diceva, per parte di padre, la maga, strega e regina che governò su Saba quando Saba era la terra più ricca mai esistita al mondo, con le sue spezie e le gemme e i legni profumati trasportati via nave e a dorso di cammello in ogni angolo della terra, colei che in vita veniva adorata come una divinità, venerata come una dea dai più saggi tra i re, alle due di notte guarda il traffico senza vederlo dal marciapiede di Sunset Boulevard: una sposa di plastica vestita da puttana su una torta nuziale nera e fluorescente. È in piedi, padrona del marciapiede e della notte che l’avvolge.
Quando qualcuno la guarda muove le labbra come se parlasse da sola. Quando gli uomini in macchina le passano vicino stabilisce un contatto d’occhi e sorride.
È stata una lunga notte.
È stata una lunga settimana, e quattromila lunghi anni.
È fiera di non dovere niente a nessuno. Le altre ragazze che battono il marciapiede hanno protettori, abitudini, figli, gente che le sfrutta. Lei no.
Nel mestiere che fa non c’è niente di sacro. Non più.
Una settimana prima a Los Angeles sono cominciate le piogge che hanno trasformato le strade in trappole scivolose e teatri di incidenti, sciogliendo il fango sulle colline e trascinando le case nei canyon, il mondo nelle fogne e nei tombini, facendo annegare i barboni e i senza tetto nel canale. Quando a Los Angeles arrivano le piogge colgono sempre tutti di sorpresa.
Bilqis ha passato tutta la settimana in casa. Non potendo stare sul marciapiede si è rannicchiata sul letto nella stanza color fegato crudo ad ascoltare la pioggia battere sulla scatola di metallo del condizionatore e inviando messaggi personali in rete. Ha lasciato i suoi inviti a adultfinder.com, LA-escorts.com, Classyhollywoodbabes.com, con un anonimo indirizzo e-mail. È orgogliosa di saper esplorare nuovi territori, ma allo stesso tempo inquieta: ha sempre evitato di lasciare qualsiasi cosa possa assomigliare a un indizio. Non si è mai fatta pubblicità sulle ultime pagine del "L.A. Weekly", preferendo invece scegliersi i clienti da sola dopo aver visto, annusato e toccato quelli capaci di adorarla come serve a lei, quelli che si lasceranno portare fino in fondo…
E adesso, mentre rabbrividisce all’angolo della strada (poiché le piogge di fine febbraio sono finite, ma il freddo che hanno portato perdura) le viene in mente che in fondo anche lei ha un vizio, come le puttane che si fanno di eroina o di crack, e la cosa la rattrista e ricomincia a muovere le labbra. Se si fosse abbastanza vicini alla sua bocca dipinta di rosso rubino si sentirebbero queste parole:
«Ora mi leverò e andrò attorno per la città, per le strade e le piazze; cercherò colui che l’anima mia ama». E questo che mormora, e aggiunge: «Sul mio letto, durante la notte, ho cercato colui che l’anima mia ama. Mi baci egli dei baci della sua bocca. Il mio amico è mio e io son sua».
Bilqis spera che la fine delle piogge riporti i clienti. In genere batte lungo due o tre isolati del Sunset Boulevard e si gode l’aria fresca delle notti losangeline. Una volta al mese dà una bustarella all’agente di polizia che ha preso il posto di quello a cui la dava prima, sparito nel nulla. Si chiamava Jerry LeBec e la sua scomparsa rappresenta ancora un mistero per la polizia. Lei era diventata la sua ossessione, la seguiva ovunque. Un pomeriggio Bilqis era stata svegliata da un rumore e aprendo la porta di casa aveva trovato Jerry LeBec in borghese, che si dondolava in ginocchio sul vecchio zerbino, la testa china, aspettando di vederla uscire. Il rumore che l’aveva svegliata era provocato della testa del poliziotto che batteva contro la porta mentre dondolava avanti e indietro.