«Sì» rispose Shadow, «però se mi batte un’altra volta sulla fronte le spezzo la mano.»
Chernobog sbuffò. Poi disse: «Dovrebbero essere grati, quelli di qui. È diventato un posto molto potente. Già trent’anni dopo aver scacciato i miei, questa terra dava i natali alla più grande attrice del cinema che ci sia mai stata. La più grande».
«Judy Garland?» chiese Shadow.
Chernobog fece seccamente segno di no con la testa.
«Sta parlando di Louise Brooks» spiegò il signor Nancy.
Shadow decise di non indagare su chi fosse Louise Brooks. Invece disse: «Sentite un po’, quando Wednesday è andato a incontrarli avevano patteggiato una tregua».
«Sì.»
«E adesso noi stiamo andando a ritirare il suo corpo avendo patteggiato una tregua.»
«Sì.»
«E sappiamo che mi vogliono morto o comunque fuori gioco.»
«Ci vogliono tutti morti» disse Nancy.
«Quello che non capisco è perché riteniamo che oggi giocheranno pulito, se con Wednesday non l’hanno fatto.»
«Perché ci incontriamo al centro. È…» disse Chernobog. Aggrottò la fronte e poi continuò: «Come si dice il contrario di sacro?».
«Profano» rispose Shadow senza riflettere.
«No» disse Chernobog. «Voglio dire un posto che è meno sacro di qualsiasi altro posto al mondo. Con una sacralità negativa. Posti dove non si può costruire nessun tempio. Dove la gente non vuole andare e se ci va scappa appena può. Posti dove gli dèi mettono piede soltanto se ci sono costretti.»
«Non saprei» disse Shadow. «Non mi sembra che ci sia una parola per dirlo.»
«Tutta l’America è un po’ così» continuò Chernobog. «Per questo non siamo benvenuti. Però il centro è il punto peggiore. È come un campo minato dove tutti ci muoviamo con troppa circospezione per osare rompere la tregua.»
Avevano raggiunto il pulmino. Chernobog diede a Shadow una pacca affettuosa sul braccio. «Sta’ tranquillo» gli disse in tono cupo ma rassicurante. «Nessuno ti ucciderà. Nessuno oltre a me.»
Quella sera stessa, prima che facesse completamente buio, Shadow trovò il centro dell’America su un’insignificante collina a nordovest di Lebanon. Fece il giro della chiesetta su ruote e del monumento di pietra e alla vista del motel anni Cinquanta costruito al limitare del parco ebbe un tuffo al cuore. Davanti al motel era parcheggiata una Humvee nera, sembrava una jeep riflessa in uno specchio deformante, tarchiata e insulsa, brutta come un’autoblindo. Dentro l’edificio non c’era nemmeno una luce accesa.
Parcheggiarono anche loro e in quel momento un uomo con uniforme e berretto da autista uscì dal motel illuminato dai fari del pulmino. Si portò una mano alla visiera per salutarli, salì sulla Humvee e partì.
«Macchina grossa, cazzo piccolo» disse il signor Nancy.
«Credete che ci siano i letti, in questo posto?» chiese Shadow. «Non so da quanto non dormo in un letto. Qui sembra che aspettino solo la squadra dei demolitori.»
«Il motel appartiene ad alcuni cacciatori texani» spiegò il signor Nancy. «Ci vengono una volta all’anno non si sa a cacciare cosa. E impediscono che venga raso tutto al suolo.»
Scesero. Davanti al motel li aspettava una donna che Shadow non aveva mai visto. Era perfettamente truccata, perfettamente pettinata. Gli fece venire in mente quelle giornaliste dei programmi televisivi mattutini che passano il tempo sedute in studi che non assomigliano neanche lontanamente a un vero soggiorno.
«Lieta di conoscervi» disse. «Dunque… lei dev’essere Chernobog. Ho sentito molto parlare di lei. E lei è Anansi, sempre pronto a combinarne una, eh? Vecchio buontempone. E tu sei Shadow. Ci hai fatto fare una bella corsa, vero?» Gli strinse la mano con una presa decisa e lo guardò negli occhi. «Io sono Media. Molto piacere. Mi auguro di poter concludere la faccenda che ci attende nel modo migliore possibile.»
Le porte d’ingresso si spalancarono. «Non so perché, Toto» disse il ragazzo grasso che Shadow aveva conosciuto sulla limousine, «ma credo che questo non sia più il Kansas.»
«Invece lo è» ribatté il signor Nancy. «Anzi, oggi l’abbiamo attraversato praticamente tutto. Accidenti se è piatto.»
«Qui manca l’energia elettrica e non c’è acqua calda» disse il ragazzo grasso. «E voi tre avete bisogno di un bel bagno, senza offesa. Puzzate come se foste stati su quel pulmino per una settimana.»
«Non vedo la necessità di dire certe cose» intervenne la donna con garbo. «Siamo tra amici. Entrate, vi mostrerò dove si trovano le vostre stanze. Noi abbiamo occupato le prime quattro. Il vostro defunto amico è nella quinta. Tutte le altre sono vuote… potete scegliere quelle che preferite. Temo che non sia esattamente il Four Seasons, ma del resto che cosa lo è?»
Tenne aperta la porta per farli passare. Nell’ingresso c’era odore di muffa, polvere e decomposizione.
C’era anche un uomo, seduto nella penombra. «Avete fame?» chiese.
«Io ho sempre fame» rispose il signor Nancy.
«L’autista è andato a prendere hamburger per tutti» disse l’uomo. «Torna tra poco.» Alzò gli occhi. Faceva troppo buio per guardarsi in faccia, però disse ugualmente: «Tu sei Shadow, eh? Lo stronzo che ha ammazzato Woody e Stone?».
«No» rispose Shadow. «Li ha uccisi qualcun altro. Io ti conosco.» Era vero. Era stato dentro la sua testa. «Devi essere Town. Sei poi riuscito a scoparti la vedova di Wood?»
Town cadde dalla sedia. In un film sarebbe stata una scenetta divertente, nella vita reale fu soltanto una penosa goffaggine. Si rialzò di scatto e si avvicinò a Shadow che lo guardò dall’alto in basso. «Non cominciare niente se non sei pronto ad arrivare fino in fondo.»
Il signor Nancy gli mise una mano sul braccio. «La tregua, ricordi? Siamo nel centro.»
Town si allontanò e andò ad appoggiarsi al banco da cui prese tre chiavi. «In fondo al corridoio» disse. «Prendete.»
Consegnò le chiavi al signor Nancy e sparì tra le ombre del corridoio. Si sentì il rumore di una porta aperta e richiusa con un tonfo.
Nancy diede una chiave a Shadow e una a Chernobog. «Abbiamo una torcia, sul pulmino?» chiese Shadow.
«No» rispose Nancy. «È soltanto buio. Non devi aver paura del buio.»
«Non è il buio che mi fa paura, ma la gente che ci si nasconde.»
«Il buio è una bella cosa» disse Chernobog. Non sembrava avere alcuna difficoltà a vedere dove metteva i piedi e li condusse lungo il corridoio immerso nelle tenebre infilando le chiavi nelle toppe senza esitazioni. «Io sono alla dieci» disse. E poi aggiunse: «Media. Mi sembra di aver già sentito questo nome. Non è la donna che ha ucciso i figli?».
«La donna è un’altra» rispose il signor Nancy. «Il movente lo stesso.»
Nancy era nella stanza numero otto e Shadow di fronte, alla nove. La camera puzzava di umidità, era polverosa e abbandonata. C’era una rete e un materasso senza lenzuola. La luce dell’imbrunire che entrava dalla finestra la rischiarava debolmente. Shadow sedette sul materasso, si tolse le scarpe e si sdraiò. Aveva guidato troppo, negli ultimi giorni.
Forse dormì.
Stava camminando.
Un vento freddo gli incollava addosso i vestiti. I minuscoli fiocchi di neve erano quasi cristalli in polvere agitati dal vento.
C’erano alberi spogli, invernali. C’erano alte montagne su ogni lato. Era un tardo pomeriggio d’inverno: cielo e neve avevano raggiunto la stessa tonalità di rosso profondo. Più avanti — stabilire le distanze risultava impossibile in quella luce - guizzavano gialle e arancioni le fiamme di un falò.
Un lupo grigio lo precedeva lentamente.
Shadow si fermò. Anche il lupo sì fermò, e si voltò ad aspettarlo. Aveva un occhio che luccicava, di un verde giallastro. Shadow scrollò le spalle e ripartì in direzione delle fiamme. Il lupo riprese il suo lento incedere.
Il falò bruciava in un boschetto. Dovevano essere almeno duecento alberi, in due filari. Appese agli alberi c’erano delle sagome, e in fondo un edificio che somigliava vagamente a una barca capovolta. Era di legno, coperta di creature e facce lignee — draghi, grifi, troll e cinghiali - che danzavano al bagliore incerto delle fiamme.
Le fiamme erano talmente alte che Shadow non riusciva ad avvicinarsi al falò. Il lupo lo aggirò piano piano.
Al suo posto, sull’altro lato, spuntò un uomo che si appoggiava a un lungo bastone.
«Siamo a Uppsala, in Svezia» gli disse con una voce che gli era familiare. «Un migliaio di anni fa.»
«Wednesday?»
L’uomo continuò a parlare come se Shadow non esistesse. «Ogni anno, prima, e poi quando cominciò la decadenza e divennero indolenti ogni nove, venivano qui a fare i sacrifici. Il sacrificio dei nove. Ogni giorno, per nove giorni, appendevano nove animali agli alberi del boschetto. Uno degli animali era sempre un uomo.»
Si allontanò dal fuoco e Shadow lo seguì in direzione degli alberi. Avvicinandosi vide che le sagome appese ai rami si delineavano: gambe, occhi, lingue sporgenti e teste. Shadow scosse il capo: c’era qualcosa di minacciosamente triste in un toro appeso per il collo, uno spettacolo talmente surreale da risultare ridicolo. Passò davanti a un cervo, un cane lupo, un orso bruno e un baio con la criniera bianca, poco più grande di un pony. Il cane era ancora vivo: a intervalli di pochi secondi scalciava spasmodicamente e, con la corda intorno al collo, emetteva un fievole guaito.
L’uomo che Shadow stava seguendo impugnò il lungo bastone, che in realtà era una lancia, ma se ne rese conto solo quando la vide in movimento, e aprì la pancia del cane con un colpo secco, dall’alto in basso. I visceri fumanti si rovesciarono sulla neve. «Dedico questa morte a Odino» disse l’uomo formalmente.
«Non è che un gesto» spiegò voltandosi verso Shadow. «Ma i gesti significano tutto. La morte di un cane simboleggia la morte di tutti i cani. Mi davano nove uomini, però rappresentavano tutta l’umanità, tutto il sangue, tutto il potere. Non durò. Un giorno il sangue smise di scorrere. La fede senza il sacrificio basta fino a un certo punto. Deve scorrere il sangue.»
«Ti ho visto morire» disse Shadow.
«Quando si tratta di dèi» rispose la figura — adesso Shadow era proprio sicuro che si trattasse di Wednesday, nessun’altro metteva nelle parole quella gioia cinica e irritante — «non è la morte, ciò che conta. Conta la possibilità di risorgere. E quando il sangue scorre…» Indicò gli animali, gli uomini impiccati agli alberi.
Shadow non riusciva a capire se gli esseri umani gli sembravano più spaventosi degli animali: perlomeno gli uomini avevano capito a cosa stavano andando incontro. Puzzavano di alcol, come se fossero stati autorizzati ad anestetizzarsi, prima di pendere dalla forca, mentre gli animali erano stati semplicemente spinti a frustate fino all’albero, appesi ancora vivi e terrorizzati. Gli uomini sembravano giovani: nessuno aveva più di vent’anni.
«Chi sono, io?» domandò Shadow.
«Tu? Tu eri una possibilità. Parte di una grande tradizione. Anche se siamo entrambi troppo coinvolti per non morire, se necessario. Giusto?»
«Tu chi sei?» domandò ancora Shadow.
«La parte più difficile è la mera sopravvivenza» disse l’altro. Con uno strano orrore Shadow si rese conto che le fiamme del falò erano alimentate da ossa: costole e teschi con le orbite svuotate dal fuoco spuntavano qui e là tracciando nella notte scie colorate, verdi, gialle e blu, che crepitavano e si arroventavano. «Tre giorni appeso all’albero, tre nell’aldilà, tre per ritrovare la strada del ritorno.»
Le fiamme bruciavano troppo alte e luminose perché Shadow riuscisse a guardarle. Abbassò gli occhi tra il buio degli alberi.
Un colpo alla porta: adesso era la luce della luna a entrare dalla finestra. Shadow si mise a sedere con un sobbalzo. La voce di Media disse: «La cena è servita».
Si infilò le scarpe e uscì in corridoio. Qualcuno aveva trovato delle candele e la hall era rischiarata da una luce fioca. L’autista della Humvee entrò con un vassoio di cartone e un grosso sacchetto di carta. Indossava una lunga giacca e il berretto con visiera della divisa.
«Scusate per l’attesa» disse con voce roca. «Ho preso lo stesso menu per tutti: due hamburger, un sacchetto grande di patatine, Coca-Cola e apple pie. Io vado a mangiare in macchina.» Appoggiò i contenitori e uscì. La hall si riempì dell’odore di fast food. Shadow prese il sacchetto e distribuì i panini, i tovaglioli, le bustine di ketchup.
Mangiarono in silenzio mentre le fiamme delle candele tremolavano e la cera si consumava sibilando.
Shadow vide che Town lo guardava storto e sistemò la sedia in modo da dare le spalle al muro. Media mangiava il suo hamburger tenendo affettatamente il tovagliolo vicino alla bocca per non sporcarsi.
«Oh, fantastico» disse il ragazzo grasso. «Sono praticamente freddi.» Portava ancora gli occhiali da sole, una cosa inutile e sciocca, pensò Shadow, data l’oscurità.
«Mi dispiace» disse Town, «il McDonald’s più vicino è in Nebraska.»
Finirono i panini e le patatine tiepidi. Il ragazzo grasso addentò l’apple pie e il ripieno gli colò sul mento. Sorprendentemente era ancora caldo. «Ahi» esclamò. Si pulì con una mano leccandosi le dita. «Brucia! Bisognerebbe fargli una mega causa, per questo ripieno.»
Shadow gli avrebbe dato volentieri un pugno. Ne aveva voglia fin da quando l’altro l’aveva fatto colpire dal suo scagnozzo sulla limousine, dopo il funerale di Laura. Cercò di non pensarci. «Perché non prendiamo il corpo di Wednesday e ce ne andiamo?» chiese.
«A mezzanotte» risposero insieme il signor Nancy e il ragazzo grasso.
«Bisogna fare le cose secondo le regole» aggiunse Chernobog.
«Già» ribatté Shadow. «Peccato che nessuno me le spieghi. Non fate che parlarmi di queste cazzo di regole ma io non so neanche a che gioco state giocando.»
«Così abbiamo un asso nella manica» disse Media in tono brioso, «un vantaggio.»
«Secondo me è tutta una stronzata» disse Town. «Però se le regole li fanno contenti, bene, allora il mio dipartimento è contento e siamo contenti tutti.» Trangugiò rumorosamente la sua Coca-Cola. «Aspettiamo mezzanotte. Voi vi prendete il corpo e ve ne andate. Siamo tutti pappa e ciccia e vi facciamo anche ciao con la manina. Poi ricominciamo a darvi la caccia come ai topi, perché altro non siete.»
«Ehi» disse il ragazzo grasso rivolgendosi a Shadow, «mi è venuta in mente una cosa. Ti avevo detto di dire al tuo capo che ormai era superato, che apparteneva al passato. L’hai fatto?»
«Sì» disse Shadow. «E sai che cosa mi ha risposto? Mi ha risposto di dire a quel moccioso, se l’avessi rivisto, di ricordarsi che il futuro di oggi è il passato di domani.» Wednesday non aveva mai detto niente del genere, però a quella gente piacevano i cliché. Le lenti scure degli occhiali riflettevano i bagliori delle candele, come sguardi.
Il ragazzo grasso disse: «Questo posto è una vera fogna. Non c’è nessun potere. Non c’è campo. Voglio dire che se ti devi ricaricare, qui è come essere all’età della pietra». Finì di bere la bibita con la cannuccia, lasciò cadere il bicchiere sul tavolo e se ne andò.
Shadow si protese a raccogliere i rifiuti del ragazzo grasso per metterli nel sacchetto di carta. «Vado a vedere il centro dell’America» annunciò. Si alzò e uscì nella notte. Il signor Nancy lo seguì. Passeggiarono insieme senza parlare nel piccolo parco fino al monumento di pietra. Il vento soffiava a raffiche discontinue in tutte le direzioni. «Allora» disse Shadow, «adesso cosa succede?»
Una mezzaluna pallida li osservava sospesa nel cielo.
«Adesso faresti meglio a tornare in camera tua» rispose Nancy. «Chiudi la porta a chiave e cerca di dormire un po’. A mezzanotte ci consegnano il corpo. Poi leviamo le tende. Il centro non è stabile per nessuno.»
«Se lo dice lei.»
Nancy prese una boccata del suo sigaretto. «Non doveva andare così. Non doveva succedere niente di tutto ciò. Quelli come noi, sono…» Gesticolò con il sigaretto, come se gli servisse per trovare la parola giusta, poi lo usò per colpirla con un affondo «… elitari. Non siamo esseri socievoli. Neanch’io. Nemmeno Bacco. Non a lungo. Stiamo bene da soli, o nei nostri circoli esclusivi. Non ci troviamo bene con gli altri. Ci piace essere rispettati e venerati, a me piace che raccontino storie sul mio conto, storie in cui risalti la mia intelligenza. E una debolezza, lo so, sono fatto così. Ci piace essere importanti. In questi tempi bui invece non contiamo niente. Si assisterà alla nascita e alla caduta di altri dèi. Comunque questo rimane un paese che non tollera a lungo il divino. Brahma crea, Vishnu conserva, Shiva distrugge, e il terreno è sgombro perché Brahma possa ricominciare daccapo.»