Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva pianto, così tanto tempo che Shadow non ricordava più come si facesse. Non aveva pianto nemmeno quando era morta sua madre.
Ma all’improvviso iniziò a piangere, con singhiozzi aspri e dolorosi, e per la prima volta da quando non era più un bambino pianse tanto da addormentarsi.
L’arrivo in America
823 d.C.
Navigarono le verdi acque facendosi guidare dalle stelle e dalla costa, e quando la costa fu soltanto un ricordo lontano e il cielo notturno coperto di nubi navigarono guidati dalla fede, e invocarono il Padre Universale perché li conducesse ancora una volta al sicuro sulla terraferma.
Fu un viaggio cattivo, avevano le mani intorpidite e un tremito nelle ossa che nessun vino riusciva a placare. Al mattino si svegliavano con la barba coperta di brina e fino a quando il sole non veniva a riscaldarli sembravano vecchi imbiancati anzitempo.
Stavano già perdendo i denti e avevano gli occhi infossati nelle orbite quando trovarono approdo sulla terra verdeggiante di Occidente. Gli uomini dissero: «Siamo lontani, lontani dalle nostre case, dai focolari, lontani dai mari che conosciamo e dalle terre che amiamo. Qui al confine del mondo i nostri dèi ci dimenticheranno».
Il capo si arrampicò in cima a una grande roccia e li schernì per la loro mancanza di fede. «Il Padre Universale ha creato il mondo» gridò. «Lo ha fatto con le sue mani dalle ossa e dalla cenere di Ymir, suo nonno. Ha messo il cervello di Ymir nel cielo per farne nubi, e il suo sangue salato è diventato il mare che abbiamo attraversato. Non vi rendete conto che se ha creato il mondo ha creato anche questa terra? E che se in questa terra moriremo da uomini verremo accolti nella sua dimora?»
E gli uomini lo acclamarono ed esultarono. Con tronchi e fango si dedicarono volonterosamente alla costruzione di una sala circondata da una palizzata di legni appuntiti, anche se, a quanto ne sapevano, erano i soli ad abitare la nuova terra.
Il giorno in cui finirono di costruirla scoppiò un temporale: a mezzogiorno il cielo divenne nero come la notte, squarciato da saette di fuoco bianco, e i tuoni erano tanto fragorosi da assordare, e il gatto di bordo che avevano portato per attirare la fortuna andò a nascondersi sotto la nave arenata sulla spiaggia. Il temporale era così violento che gli uomini scoppiarono a ridere, e battendosi gran pacche sulle spalle l’un l’altro dissero: «Il signore del tuono è con noi, in questa terra lontana» e levarono grazie, e si rallegrarono e bevettero fino a ubriacarsi.
Nella dimora fumosa quella notte il bardo cantò le canzoni antiche. Cantò di Odino, Padre Universale, che si era sacrificato a se stesso con il coraggio e la nobiltà con cui gli altri venivano sacrificati a lui. Cantò dei nove giorni che il Padre Universale trascorse appeso all’albero del mondo, il sangue grondante dalla ferita nel fianco provocata dalla punta della lancia, e cantò per loro tutto ciò che il Padre Universale aveva imparato durante l’agonia: nove nomi, nove rune, e incantesimi per due volte nove. Quando narrò della lancia che ferì Odino nel fianco, il bardo gridò di dolore insieme a lui e gli uomini tutti rabbrividirono, nell’immaginare la sua pena.
L’indomani, che era il giorno dedicato al Padre Universale, trovarono lo scraeling. Era un uomo di bassa statura, con i capelli lunghi e neri come l’ala di un corvo, la pelle del colore dell’argilla grassa. Parlava una lingua che nessuno poteva comprendere, neppure il bardo, che aveva navigato attraverso le colonne d’Ercole e conosceva il gergo che parlano i mercanti in tutto il Mediterraneo. Lo straniero era coperto di piume e pellicce, e nei capelli portava intrecciate piccole ossa.
Lo condussero all’accampamento e gli servirono carne arrostita perché mangiasse in abbondanza e una bevanda forte perché placasse la sete. Risero sfrenatamente quando l’uomo barcollò e cantò, ciondolando la testa, già ubriaco dopo un solo corno di idromele. Gliene versarono ancora, e ben presto l’uomo finì sotto il tavolo con un braccio sopra la testa.
Poi lo presero, un uomo per ogni spalla, un uomo per ogni gamba, e lo trasportarono così, trasformato in un cavallo a otto zampe dai quattro portatori, in processione fino al frassino in cima alla collina che si affacciava sulla baia, gli passarono una fune intorno al collo e lo impiccarono alto nel vento come tributo al Padre Universale, il signore delle forche. Il corpo dello scraeling ondeggiò al vento, la faccia sempre più nera, la lingua di fuori, gli occhi sporgenti, il pene talmente rigido da poterci appendere un elmo di cuoio, mentre gli uomini festeggiavano con urla e risate, orgogliosi di innalzare al cielo il sacrificio.
E il giorno dopo, quando due enormi rapaci si appollaiarono sul cadavere, uno per spalla, e cominciarono a becchettare gli occhi e le guance, gli uomini capirono che il loro sacrificio era stato accettato.
Fu un inverno lungo, e avevano fame, tuttavia li rallegrava il pensiero che a primavera avrebbero fatto vela per le terre nordiche, per ritornare con altri uomini, e con le donne. Via via che il clima si faceva più freddo, e i giorni diventavano più corti, alcuni di loro si spinsero fino al villaggio degli scraeling nella speranza di trovare cibo e donne. Non trovarono che le ceneri degli accampamenti abbandonati in fretta e furia. Nel pieno dell’inverno, quando il sole era freddo e distante come un’opaca moneta d’argento, videro che i resti del corpo dello scraeling non penzolavano più dal frassino. Quel pomeriggio nevicò, fiocchi lenti, enormi.
Gli uomini delle terre scandinave chiusero i cancelli dell’accampamento e si ritirarono dietro le mura di legno.
Gli indiani sul sentiero di guerra attaccarono quella notte, e il villaggio venne bruciato. La nave capovolta sulla spiaggia di ciottoli venne bruciata, nella speranza che quei pallidi stranieri avessero una sola imbarcazione, nella speranza di assicurarsi, bruciandola, che nessun altro nordico approdasse alle loro rive.
Accadeva più di cent’anni prima che Leif il Fortunato, figlio di Erik il Rosso, riscoprisse quella stessa terra che avrebbe chiamato Vinland. I suoi dèi già lo aspettavano: Tyr con una mano sola, e il grigio Odino signore delle forche, e Thor dio dei tuoni.
Erano lì.
In attesa.
4
Shadow e Wednesday fecero colazione al Country Kitchen di fronte al motel. Alle otto del mattino il mondo era freddo e brumoso.
«Sei sempre dell’idea di lasciare Eagle Point?» chiese Wednesday. «Perché se sei pronto devo fare alcune commissioni. È venerdì. Venerdì è un giorno libero. Un giorno da donne. Domani è sabato. Di sabato c’è molto da fare.»
«Sono pronto» rispose Shadow. «Non c’è niente che mi trattenga qui.»
Wednesday si ammucchiò nel piatto molti tipi di salumi e carni. Shadow si servì qualche fetta di melone, un panino e un formaggino. Andarono a sedersi in un angolo.
«Che sogno pazzesco hai fatto ieri notte» disse Wednesday.
«Già. Pazzesco davvero.» Le impronte fangose lasciate da Laura sulla moquette del motel erano ancora ben visibili al suo risveglio, dalla sua camera attraversavano l’atrio e sparivano oltre la porta d’ingresso.
«Allora» riprese Wednesday, «perché ti hanno chiamato Shadow?»
Shadow scrollò le spalle. «È un nome come un altro.» Dall’altra parte della vetrata il mondo avvolto nella nebbia sembrava un disegno a matita eseguito con una decina di sfumature di grigio e, qui e là, una macchia di rosso elettrico o di bianco purissimo. «Come hai perso l’occhio?»
Wednesday si ficcò in bocca cinque o sei fette di pancetta tutte insieme, masticò, si ripulì la bocca con il dorso della mano. «Non l’ho perso» disse. «So esattamente dove si trova.»
«Bene, qual è il programma?»
Wednesday assunse un’aria pensierosa. Mangiò qualche fetta di prosciutto di un bel rosa acceso, staccò un frammento di carne dalla barba e lo mise nel piatto. «Il programma è il seguente: domani sera incontriamo alcune persone di spicco nei loro rispettivi settori… non lasciarti intimidire dal loro atteggiamento. Ci incontreremo in uno dei posti più importanti del paese. Dopo di che offriremo loro da bere e da mangiare. Li devo assoldare nell’impresa.»
«E dove si trova questo posto così importante?»
«Vedrai, ragazzo mio. Ho detto che è uno dei più importanti. Le opinioni in merito divergono, com’è comprensibile. Ho avvisato i colleghi. Sulla strada ci fermiamo a Chicago perché ho bisogno di procurarmi dei soldi. Ospitare come dobbiamo ospitare noi richiederà più contanti di quanti io ne disponga al momento. Poi andiamo a Madison.» Pagò e uscirono per tornare al parcheggio del motel dall’altra parte della strada. Wednesday lanciò le chiavi a Shadow.
Arrivati alla superstrada lasciarono la città.
«Ti mancherà?» domandò Wednesday. Stava rovistando in una cartelletta piena di carte geografiche.
«La città? No. Non ci ho mai vissuto veramente. Da bambino non vivevo mai a lungo nello stesso posto, e quando sono arrivato a Eagle Point avevo vent’anni. È la città di Laura.»
«Speriamo che ci rimanga» disse Wednesday.
«Era un sogno» rispose Shadow. «Non dimenticarlo.»
«Ben detto. Un atteggiamento sano, il tuo. Te la sei chiavata, ieri notte?»
Shadow trattenne il respiro. Poi: «Non sono affari tuoi. Comunque no».
«Avresti voluto?»
Shadow non rispose e continuò a guidare verso nord, in direzione di Chicago. Wednesday ridacchiò e cominciò a tirare fuori le carte geografiche, ad aprirle e ripiegarle, prendendo ogni tanto un appunto su un blocco di carta gialla con una grossa penna a sfera d’argento.
A un certo punto finì. Ripose la penna e appoggiò la cartelletta sul sedile posteriore. «La cosa buona degli stati verso cui stiamo andando» disse, «Minnesota, Wisconsin e paraggi, è che c’è il tipo di donna che mi piaceva da giovane. Con la pelle chiara e gli occhi azzurri, i capelli quasi bianchi, le labbra color vinaccia e i seni tondi e pieni sotto la cui pelle si vedono scorrere le vene come in un buon formaggio.»
«Ti piacevano solo da giovane?» domandò Shadow. «Mi sembrava che te la stessi spassando, ieri notte.»
«Sì.» Wednesday sorrise. «Ti piacerebbe conoscere il segreto del mio successo?»
«Le paghi?»
«Niente di così volgare. No, il segreto risiede nel fascino. Nella pura e semplice magia del fascino.»
«Fascino, eh? Be’, dicono che o ce l’hai o non ce l’hai.»
«La magia si impara» rispose Wednesday.
Shadow sintonizzò la radio su un canale che trasmetteva vecchi successi e ascoltò canzoni che erano famose ancora prima che nascesse. Bob Dylan cantò di una pioggia molto forte che stava per cadere e Shadow si chiese se fosse caduta, a quel punto, o se si trattasse di un evento non ancora compiuto. La strada davanti a loro era deserta e sotto il sole del mattino i cristalli di ghiaccio sull’asfalto scintillavano come diamanti.
Chicago arrivò piano piano, come un’emicrania. Stavano ancora attraversando l’aperta campagna quando una cittadina qualsiasi si trasformò impercettibilmente in una disordinata propaggine di periferia, e la periferia diventò città.
Parcheggiarono davanti a un tozzo edificio con la facciata di arenaria nera. Avevano ripulito il marciapiede dalla neve. Entrarono nell’atrio del palazzo e Wednesday schiacciò il primo pulsante sul citofono di metallo. Niente. Schiacciò ancora. Poi provò a premere anche gli altri pulsanti, che corrispondevano alle case di altri inquilini, senza ottenere risposta.
«È scassato» disse desolata una vecchia che stava scendendo le scale. «Non funziona. Abbiamo chiamato l’amministratore per chiedergli quando viene ad aggiustarlo, e quando viene a sistemare l’impianto di riscaldamento, ma lui non se ne interessa, va a svernare in Arizona perché ha i polmoni delicati.» Sembrò a Shadow che la donna avesse un forte accento dell’Europa dell’Est.
Wednesday fece un profondo inchino. «Zarja, mia cara, posso dirti che trovo il tuo aspetto indicibilmente bello? Radioso, direi. Il tempo non passa, per te.»
La vecchia signora lo guardò con occhi fiammeggianti. «Non ti vuole vedere. Neanch’io ti voglio vedere. Tu porti guai.»
«Per questo non vengo mai, a meno che non sia di estrema importanza.»
La donna sbuffò. Portava una sporta di corda e indossava un vecchio cappotto rosso chiuso fino al mento. Guardò Shadow con aria sospettosa.
«L’omone chi è?» chiese. «Un altro dei tuoi sgherri?»
«Tu mi fai un cattivo servizio, buona signora. Questo gentiluomo si chiama Shadow. Lavora per me, sì, ma nel tuo interesse. Shadow, ti posso presentare l’adorabile signorina Vechernjaja Zarja?»
«Molto piacere» disse Shadow.
La donna guardò in su come un uccellino. «Shadow» disse. «Un buon nome. Quando le ombre si allungano, quello è il mio tempo. E tu sei un’ombra lunga.» Lo squadrò da sotto in su, poi gli sorrise. «Mi puoi baciare la mano» disse, e gli tese la mano fredda.
Shadow si piegò per sfiorare quelle dita sottili. Sul medio c’era un grosso anello d’ambra.
«Bravo ragazzo» disse. «Stavo andando dal droghiere. Vedi, sono l’unica a portare a casa dei soldi. Le altre due non sono capaci di predire la sorte. Non sono capaci perché dicono sempre la verità, e non è la verità ciò che la gente vuole sentire. È brutta, la verità, e rende la gente infelice, perciò non tornano. Invece io sono capace di mentire, dico quello che vogliono sentire. Perciò guadagno. Rimanete a cena?»
«Mi piacerebbe» rispose Wednesday.
«Allora dammi qualche soldo per comperare da mangiare» disse lei. «Sono una donna orgogliosa ma non sono stupida. Le altre sono più orgogliose di me e lui poi è il più orgoglioso di tutti. Perciò dammi i soldi e non dire che me li hai dati.»
Wednesday aprì il portafoglio e tirò fuori una banconota da venti dollari. Vechernjaja Zarja gliela sfilò dalle dita ma rimase in attesa. Wednesday prese altri venti dollari e glieli diede.
«Bene. Vi nutriremo come principi. Adesso andate su. Utrennjaja Zarja è sveglia, l’altra sorella invece dorme ancora, perciò non fate troppo baccano.»
Shadow e Wednesday salirono le scale buie. Il pianerottolo del secondo piano era ingombro di sacchi dell’immondizia e puzzava di verdura marcia.
«Sono zingari?» domandò Shadow.
«Zarja e la sua famiglia? Neanche per sogno. Non sono rom. Sono russi. Slavi, direi.»
«Ma legge il futuro.»
«Un sacco di gente lo fa. Mi ci diletto perfino io.» All’ultima rampa di scale Wednesday ansimava. «Sono fuori esercizio.»
Sul pianerottolo dell’ultimo piano si affacciava un’unica porta dipinta di rosso e dotata di occhio magico.
Wednesday bussò. Nessuno rispose. Bussò di nuovo, più forte.
«Va bene! Va bene! Ho sentito! Ho sentito!» Rumore di chiavi girate nella toppa, di catenacci tirati, di una catena sganciata. La porta rossa venne socchiusa.
«Chi è?» Era una voce di uomo, vecchia e arrochita dalle sigarette.
«Un vecchio amico, Chernobog. Con un socio.»
La porta si aprì soltanto fin dove lo consentiva la catena. Shadow intravide una faccia grigia che scrutava dall’ombra. «Che cosa vuoi, Votan?»
«Il piacere della tua compagnia, per cominciare. Poi ho delle informazioni da passarti. Com’è che si dice?… Ah sì… che potrebbero tornarti utili.»
La porta si spalancò. L’uomo era di bassa statura, aveva i capelli color grigio ferro e i tratti scabri. Portava un vecchio accappatoio e un paio di pantaloni grigi a righe, lucidi sulle ginocchia, e le pantofole. Aveva una sigaretta senza filtro tra le dita tozze, e la fumava tenendola a coppa nel palmo, come un carcerato, pensò Shadow, o un soldato. Tese la mano sinistra a Wednesday. «Allora che tu sia benvenuto, Votan.»