Il giorno del perdono - Le guin Ursula Kroeber 2 стр.


La fantascienza della LeGuin, perdendo ogni connotato di estrapolazione futuristica, riafferma ne Il Giorno del perdono, una precisa funzione fabulatoria femminista – per riprendere una definizione di Marleen Barr – assieme alla volontà dell'autrice di essere anche lei "storica" e plasmatrice di nuove coscienze. E infatti, le ultime parole di Radosse Rakam, che ha trovato assieme alla libertà il linguaggio della sua autobiografia, ribadiscono il significato "politico" del libro, ma sono anche un fervido messaggio d'amore. Rileggiamole assieme.

Oriana Palusci

TRADIMENTI

«Sul pianeta O non scoppia una guerra da cinquemila anni,» lesse, «e Gethen non ha mai conosciuto guerre.» Interruppe la lettura, per far riposare gli occhi e anche perché stava cercando di abituarsi a leggere lentamente, a non divorare le frasi a bocconi interi come Tikuli ingurgitava il cibo. «Non ha mai conosciuto guerre»: nella sua mente quelle parole si stagliavano chiare e distinte, circondate da un alone di incredulità infinita, oscura e soffice in cui poi affondavano. Ma che mondo può essere, quello senza guerre? Sarebbe un mondo vero. La pace era la vita vera, una vita di lavoro e sapere ed educazione dei figli al lavoro e al sapere. La guerra, che divorava lavoro, sapere e figli, era la negazione della realtà. Ma la mia gente, pensò, sa soltanto negare. Nati nelle tenebre fitte di un potere mal utilizzato, releghiamo la pace fuori dal nostro mondo, come un faro irraggiungibile. Sappiamo soltanto combattere. Quel po' di pace che qualcuno di noi riesce a trovare in vita sua è soltanto la negazione della guerra in corso, un fantasma di un fantasma, un'incredulità al quadrato.

Così, mentre le ombre delle nuvole scivolavano sugli acquitrini e sulla pagina del libro che teneva aperto in grembo, si lasciò sfuggire un sospiro e chiuse gli occhi, immersa nelle sue riflessioni. «Sono una bugiarda.» Poi riaprì gli occhi e lesse ancora su quegli altri mondi, su quelle realtà lontane.

Tikuli, che dormiva acciambellato attorno alla coda nella scialba luce del sole, sospirò quasi la stesse imitando, e si grattò una pulce nel sogno. Gubu era a caccia nel canneto. Non riusciva a vederlo, ma ogni tanto il pennacchio di una canna tremolava, e a un certo punto un gallinaccio di palude spiccò il volo, chiocciando indignato.

Immersa nella descrizione dei bizzarri costumi sociali degli Ithsh, non vide Wada finché questi non entrò dal cancelletto. «Oh, sei già qua,» gli disse, còlta di sorpresa, sentendosi impreparata, incompetente, vecchia come sempre si sentiva in presenza di altre persone. Quand'era sola, si sentiva vecchia soltanto quando era sfinita o ammalata. Forse vivere da sola era la cosa migliore da fare, dopo tutto. «Entra pure,» disse, alzandosi. Lasciò cadere il libro, e quando lo raccolse sentì la crocchia di capelli che si scioglieva. «Allora, prendo la borsa e vado.»

«Non c'è fretta,» disse il giovane con la sua voce dolce. «Eyid deve ancora arrivare.»

Molto gentile da parte tua ricordarmi che non mi devo affrettare a lasciare casa mia, pensò Yoss, ma non disse nulla, obbedendo all'egoismo intollerabile e delizioso del ragazzo. Entrò a prendere la sua borsa per la spesa, si sistemò i capelli, si legò una sciarpa in testa, poi tornò sotto il piccolo porticato. Wada s'era accomodato sulla sua seggiola, ma balzò in piedi appena lei uscì. Era un ragazzo timido, il più gentile tra i due amanti. «Divertiti,» gli disse con un sorriso, capendo che lo stava mettendo in imbarazzo. «Io torno tra un paio d'ore… prima del tramonto.» Andò al cancelletto, uscì e si avviò per la strada da cui era venuto Wada, lungo il sentiero che portava alla passerella di legno che serpeggiava attraverso le paludi fino al villaggio.

Non avrebbe incontrato Eyid per strada. La ragazza sarebbe arrivata da nord, per un sentiero di palude, dopo aver lasciato il villaggio a un'ora diversa e prendendo una direzione differente da quella di Wada, in modo che nessuno facesse caso al fatto che per qualche ora alla settimana i due giovani sparivano simultaneamente. Erano innamorati alla follia, si amavano da tre anni, e sarebbero già stati conviventi da tempo se il padre di Wada e il fratello del padre di Eyid non fossero stati in lite su un pezzo riassegnato di terra della Corporazione, innescando una faida tra le famiglie che finora non era sfociata in uno spargimento di sangue ma rendeva impensabile un rapporto di parentela. La terra era preziosa, e le famiglie, per quanto povere, aspiravano entrambe alla guida del villaggio. Si trattava di un dissidio insanabile, a cui prendeva parte l'intero villaggio. Eyid e Wada non avevano altro posto dove andare, non avevano i mezzi per sopravvivere in una città, non godevano di rapporti tribali per farsi accogliere in altri villaggi. La loro passione era intrappolata negli odi dei vecchi. Yoss li aveva sorpresi, ormai un anno prima, l'uno nelle braccia dell'altra sul terreno gelido di un isolotto nella palude, ci era quasi inciampata sopra, come una volta era inciampata in una coppia di cerbiatti di palude che si tenevano stretti nel loro nido d'erba, dove li aveva lasciati la mamma. Questa coppia le era parsa altrettanto spaventata, erano tutti e due belli e vulnerabili come quei cerbiatti, e l'avevano implorata "di non dire nulla" con tanta umiltà che non aveva potuto fare altrimenti. Stavano tremando per il freddo, le gambe nude di Eyid erano tutte infangate, e si tenevano abbracciati come bambini. «Venite a casa mia,» gli intimò con voce severa. «Per carità!» Poi se ne andò. La seguirono timidi timidi. «Torno tra un'oretta,» gli disse appena li ebbe fatti entrare nell'unica stanza, con la rientranza per il letto proprio accanto al camino. «Non sporcate di fango niente!»

Quella volta s'era aggirata per i viottoli a far la guardia, nel caso qualcuno li stesse cercando. Adesso, mentre i "cerbiatti" passavano la loro ora di piacere a casa sua, andava quasi sempre al villaggio.

Erano troppo ignoranti per pensare a un modo di ringraziarla. Wada tagliava la torba, perciò le avrebbe potuto rifornire il camino senza che sospettassero di nulla, eppure non le avevano mai lasciato nemmeno un fiorellino, anche se ogni volta rifacevano il letto alla perfezione. Forse non le erano nemmeno molto grati. E perché mai? Gli dava soltanto quel che gli era dovuto: un letto, un'ora di piacere, un momento di pace. Non era colpa loro, o merito suo, se non c'era nessun altro che glieli offriva.

La sua capatina di quel giorno la portò al negozio dello zio di Eyid. Era il pasticcere del villaggio. Tutta la sacra astinenza che s'era ripromessa quand'era arrivata due anni prima, quell'unica ciotola di grano scondito, quel sorso d'acqua pura, era stata dimenticata in un batter d'occhio. La dieta a base di cereali le aveva fatto venire la diarrea, e l'acqua di palude era imbevibile. Mangiava tutta la verdura fresca che poteva comprare o coltivare, beveva vino o acqua minerale o succhi di frutta provenienti dalla città, e conservava un'ampia scorta di dolci, frutta essiccata, uva passa, croccanti, persino le tortine che facevano la madre e le zie di Eyid, dei discoidi obesi spalmati di pasta di noci, roba secca, untuosa, insapore eppure stranamente appetibile. Ne comprò una sporta piena, oltre a una ruota di croccante, scambiando qualche pettegolezzo con le zie, delle donnette scure con gli occhi sfuggenti che la sera prima erano state alla veglia del vecchio Uad e adesso ne volevano discutere. «Quella gente,» cioè la famiglia di Wada, indicata con un'occhiataccia, una scrollata di spalle e uno sbuffo, «s'è comportata male come al solito, si sono ubriacati, hanno scatenato delle risse, non hanno fatto che vantarsi, e hanno dato di stomaco dappertutto, da tangheri avidi e straccioni quali sono.» Quando si fermò all'edicola per prendere un giornale (altro voto da tempo spezzato, dopo che aveva cominciato col leggere solo l'Arkamye per impararlo a memoria), ci trovò la madre di Wada, dalla quale apprese come «quella gente», cioè la famiglia di Eyid, non aveva fatto altro che vantarsi e ubriacarsi e vomitare dappertutto alla veglia della sera prima. Non si limitò ad ascoltare, ma domandò particolari e sollecitò pettegolezzi. L'adorava.

Che sciocca, pensò mentre si avviava a passo lento verso casa sulla passerella, che sciocca che sono stata a pensare di poter bere solo acqua e stare in silenzio! Non riuscirò mai a scordare nulla, mai nulla. Non sarò mai libera, non sarò mai degna della libertà. Persino la vecchiaia non mi induce a lasciar perdere. Persino la perdita di Safnan non mi spinge a lasciar perdere.

Si pararono davanti ai Cinque Eserciti. Levando la spada, Enar disse a Kamye: Mio signore, ho la tua morte nelle mani! Allora Kamye rispose: Fratello, le tue mani stanno stringendo soltanto la tua morte.

Li conosceva già quei versi. Tutti li conoscevano. E così, Enar lasciò cadere la spada, perché era un eroe e un sant'uomo, il fratello minore del Signore. Ma io non posso lasciar andare la mia morte. La stringerò fino alla fine, la terrò in gran conto, l'odierò, la mangerò, la berrò, le presterò ascolto, le cederò il mio letto, la compiangerò, tutto tranne lasciarla andare.

Uscì dalle sue riflessioni per ammirare il pomeriggio sulle paludi: il cielo, riflesso in una lontana curva di canale, era d'un azzurro fosco privo di nubi e la luce del sole splendeva dorata sopra le spianate bigie dei canneti e tra gli steli delle canne. Soffiava il raro vento dolce d'occidente. Una giornata perfetta. Com'è bello il mondo, com'è bello il mondo! Una spada in mano mia, rivolta contro di me. O Signore, perché crei tanta bellezza per ucciderci?

Proseguì con passo stanco, stringendosi il nodo della sciarpa con uno strattone nervoso. Di questo passo, tra poco si sarebbe ritrovata a girovagare tra gli acquitrini gridando a squarciagola, come Abberkam.

Ed eccolo, quando parli del lupo: eccolo che arrancava con quella sua andatura da cieco, come se riuscisse a vedere soltanto i suoi pensieri, e percuoteva la strada con il grosso bastone, manco stesse ammazzando un serpente. I lunghi capelli grigi gli svolazzavano attorno alla faccia. Non stava gridando, gridava soltanto di notte, e ormai nemmeno per molto, però parlava, gli vedeva le labbra che si muovevano. Poi lui la notò, e serrò la bocca, e si ricompose, guardingo come un animale selvatico. Si andarono incontro sulla stretta passerella, e non c'erano altri esseri umani in quel deserto di canne e melma e acqua e vento.

«Buona sera, Capo Abberkam,» disse Yoss, quando furono a pochi passi. Che omone che era, non riusciva mai a capacitarsi di quanto fosse alto e largo e pesante fin quando non lo rivedeva, la pelle scura ancora liscia come quella di un giovincello, anche se la testa non stava più tanto eretta e i capelli erano grigi e ribelli. E quel grosso naso a uncino e gli occhi diffidenti, ciechi. Abberkam borbottò una specie di saluto, rallentando appena l'andatura.

Oggi Yoss si sentiva incompresa. Era nauseata dai propri pensieri e dolori e manchevolezze. Si fermò, di modo che lui si dovesse arrestarsi per evitare di sbatterle contro, e disse, «Eri alla veglia, ieri sera?»

Lui abbassò gli occhi sulla donna. A Yoss parve che la stesse mettendo a fuoco. Poi alla fine Abberkam domandò, «Veglia?»

«Ieri sera hanno sepolto il vecchio Uad. Tutti gli uomini si sono ubriacati, ed è una bella fortuna che non sia definitivamente scoppiata la faida.»

«Faida?» ripeté lui col suo vocione profondo.

Forse non era più capace di concentrarsi, eppure Yoss era indotta lo stesso a parlargli, ad arrivare a lui. «I Dewi e i Kamanner. Stanno litigando su quell'isola arabile poco a nord del villaggio. E quei due poveri ragazzi vorrebbero essere compagni, mentre i loro padri li minacciano di morte se soltanto si guardano. Che idiozia! Perché non dividono l'isola e lasciano che i loro figli si congiungano e che se la spartiscano? Temo che uno di questi giorni scorrerà il sangue.»

«Il sangue,» disse il Capo, facendo eco un'altra volta come un demente, e poi, con quella vociona profonda, la voce che lei aveva sentito gridare per lo strazio, di notte nelle paludi, disse lentamente, «Quegli uomini. Quei bottegai. Hanno anime da possidenti. Non ammazzeranno. Ma non spartiranno nemmeno. Se si tratta di proprietà, non lasceranno correre. Mai.»

Lei rivide la spada levata.

«Ah,» fece, rabbrividendo. «Allora i ragazzi dovranno aspettare… che i vecchi muoiano…»

«Troppo tardi,» disse il Capo. La guardò negli occhi per un istante, astuto e strano, poi si scostò i capelli con un gesto impaziente, grugnì qualcosa tipo arrivederci e partì così di colpo che Yoss quasi si dovette accucciare per lasciargli strada. Ecco come avanza un Capo, pensò sarcastica mentre riprendeva il cammino. Grosso, largo, occupa spazio, calpesta forte la terra. E così, così avanza una vecchina, curva, curva.

Alle sue spalle sentì uno strano rumore – spari, pensò subito, perché gli usi e costumi cittadini ti rimangono scolpiti nei nervi – e si voltò di scatto. Abberkam s'era fermato, e adesso stava tossendo con espettorazioni esplosive, tremende, la sua impalcatura possente ingobbita sugli spasmi che quasi lo mettevano in ginocchio. Yoss conosceva quella tosse. L'Ekumene doveva avere delle medicine adatte, ma lei aveva lasciato la città prima che arrivassero. Si portò accanto ad Abberkam, e quando la crisi passò e lui rimase lì boccheggiante, terreo in viso, gli disse, «È berlot. Lo stai superando o lo stai prendendo?»

Lui scrollò il capo.

Lei attese.

Mentre attendeva pensò, Che m'importa se è malato o meno? A lui importa, forse? È venuto qui per morire. L'ho sentito ululare nelle paludi al buio, l'inverno scorso. Ululare per l'agonia. Divorato dalla vergogna, come un uomo con un cancro che l'ha già divorato tutto, eppure non riesce a morire.

«Tutto a posto,» rispose il Capo, con voce roca, irosa, desideroso soltanto che lei se ne andasse, perciò Yoss fece un cenno col capo e se ne andò. Lascialo morire. Come fa a voler vivere ancora sapendo quel che ha perso, il potere, l'onore, e con quel che ha fatto? Ha mentito, tradito i suoi sostenitori, ha commesso appropriazione indebita. Il perfetto politicante. Il gran Capo Abberkam, eroe della Liberazione, capo del Partito Mondiale, che ha distrutto il Partito Mondiale per avidità e follia.

Si guardò alle spalle una volta soltanto. Abberkam si stava muovendo molto piano, o forse s'era addirittura fermato, non ne era ben sicura. Lei proseguì, prendendo a destra dove la passerella si biforcava, scendendo nel sentiero di palude che portava alla sua casupola.

Trecento anni prima questi acquitrini erano stati una vasta valle agricola verdeggiante, una delle prime a essere irrigate e coltivate dalla Compagnia delle Piantagioni Agricole quando aveva portato i suoi schiavi da Werel alla colonia su Yeowe. Troppo ben irrigata, troppo ben coltivata: i fertilizzanti chimici e i sali del terreno s'erano accumulati fino a rendere impossibile la crescita di alcunché, di modo che i possidenti s'erano trasferiti altrove a procacciarsi profitti. Qua e là le sponde dei canali d'irrigazione erano smottate, e le acque del fiume erano tornate a scorrere liberamente, raccogliendosi in laghetti e defluendo in anse, portandosi dietro pian piano anche il terreno. Adesso lì crescevano le canne, chilometri e chilometri di canneto che si curvava al vento, all'ombra delle nubi e delle ali dei trampolieri. Qua e là, su un'isola di roccia più solida, restavano alcuni campi e un villaggio di schiavi, qualche mezzadro, gente inutile su una terra inutile. La libertà della desolazione. E per tutte le paludi c'erano case disabitate.

Man mano che invecchiava, la popolazione di Werel e Yeowe si riduceva al silenzio, come gli raccomandava la loro religione. Quando i loro figli erano cresciuti, quando avevano terminato la loro opera di padrone di casa e cittadino, quando l'anima si fortificava con l'indebolirsi del corpo, si lasciavano alle spalle la vita e tornavano a mani vuote in posti solitari. Persino nelle Piantagioni i Boss avevano lasciato liberi gli schiavi di andarsene nel deserto, affrancati. Qui al nord, i liberti delle città arrivati nelle paludi vivevano come reclusi in case abbandonate. Adesso, dopo la Liberazione, arrivavano anche le donne.

Назад Дальше