Il giorno dopo stava nettamente meglio, la tosse era catarrosa e grassa, una buona tosse. Yoss si ricordava perfettamente di quando Safnan aveva finalmente cominciato a tossire una buona tosse. Ogni tanto era sveglio del tutto, e quando gli portò la bottiglia che Yoss aveva riciclato come vaso da notte, lui la prese, dando le spalle alla donna per pisciarci dentro. Pudore, un'ottima dote per un Capo, pensò lei. Era soddisfatta di lui e di se stessa. S'era dimostrata utile. «Stanotte ti lascio. Fa' in modo che le coperte non scivolino giù. Torno domattina,» gli disse, compiaciuta di sé, del suo polso, della sua irresponsabilità.
Quando tornò a casa in quella serata fredda e serena, Tikuli era acciambellato in un angolo della stanza in cui non aveva mai dormito prima. Non mangiò, e quando cercò di smuoverlo, di carezzarlo, di farlo dormire sul letto, lui strisciò di nuovo nel suo angolino. Lasciami stare, le disse, distogliendo lo sguardo, distogliendo gli occhi, e ficcando nella curva della zampa anteriore il naso nero e aguzzo, in quel momento asciutto. Lasciami stare, ripeté paziente, lasciami morire, perché è questo che sto facendo.
Yoss s'addormentò, dal momento che era molto stanca. Gubu rimase in giro per gli acquitrini tutta la notte. Al mattino Tikuli era ancora in quello stato, rannicchiato per terra nel punto in cui non aveva mai dormito prima, e aspettava.
«Devo uscire,» gli disse. «Ma tornerò presto, molto presto. Aspettami, Tikuli.»
Lui non disse niente, guardando altrove con quegli appannati occhi d'ambra. Non era lei che stava aspettando.
Yoss attraversò le paludi di buon passo, col ciglio asciutto, furente, inutile. Abberkam era come l'aveva lasciato. Gli diede una pappina di grano, lo accudì e gli disse, «Non mi posso fermare. Il mio cagnolino è malato, devo tornare».
«Cagnolino,» fece eco l'omone con la sua voce cavernosa.
«Un volpino. Me l'ha regalato mia figlia.» Perché glielo doveva spiegare, perché si scusava? Uscì. Quando rientrò, Tikuli era sempre nel punto in cui l'aveva lasciato. Lei rammendò, cucinò del cibo che pensava potesse andar bene per Abberkam, cercò di leggere il libro sui mondi dell'Ekumene, sul mondo privo di guerre, dove era sempre inverno, dove le persone sono sia maschio che femmina. A metà pomeriggio credette opportuno tornare da Abberkam, e si stava appunto alzando quando si alzò anche Tikuli, che le si avvicinò pian pianino. Yoss tornò a sedersi sulla seggiola e si chinò per raccoglierlo, e lui le mise il muso aguzzo nella mano, sospirò e si adagiò con la testa sulle zampe. Sospirò ancora.
Yoss rimase seduta a piangere per un po', non troppo a lungo, poi si alzò per prendere la vanga da giardino e uscì di casa. Scavò una fossa di fianco al camino di pietra, in un angolo solatio. Quando rientrò e raccolse Tikuli pensò con un brivido di terrore, Non è morto! Era morto, solo che non s'era ancora raffreddato. Il folto vello rossiccio tratteneva il calore del corpo. Lei l'avvolse nella sua sciarpa azzurra e lo prese tra le braccia, lo portò alla sua tomba, sentendo ancora attraverso il tessuto quel fioco tepore, e la lieve rigidità del corpo, come una statua di legno. Riempì la tomba, su cui posò una pietra caduta dal camino. Non riuscì a dire nulla, ma in testa aveva un'immagine simile a una preghiera, Tikuli che correva nel sole.
Portò del cibo sotto il portico per Gubu, che era rimasto fuori tutto il giorno, e infine si avviò lungo la passerella. Era una serata coperta, silenziosa. Le canne s'ergevano grigie, e gli stagni avevano una lucentezza plumbea.
Abberkam era seduto nel letto, certamente più in forma, forse con una riga di febbre, ma niente di serio. Era affamato, ottimo segno. Quando gli portò il vassoio, lui le disse, «Sta bene il cagnolino?»
«No,» rispose Yoss, girando il capo dall'altra parte, poi solo dopo un minuto riuscì ad aggiungere, «È morto».
«È nelle mani del Signore,» disse quella voce profonda e roca, e lei rivide Tikuli che correva nel sole, alla presenza di qualcuno, un essere gentile come la luce del sole.
«Sì,» disse. «Grazie.» Le labbra le tremarono e la gola le si serrò. Continuò a studiare il disegno della sciarpa azzurra, foglie azzurre stampate su un fondo più scuro, cercando di trovare qualcosa da fare. Per il momento tornò a controllare il fuoco, poi ci si sedette accanto. Si sentiva molto stanca.
«Prima che il Signore, Kamye, levasse la spada, faceva il mandriano,» disse Abberkam. «E lo chiamavano il Signore delle Bestie, e Mandria di Cervi, perché quando entrò nella foresta venne tra i cervi, e anche i leoni gli camminavano a fianco tra i cervi, senza far danno. Nessuno aveva paura.»
Parlava a voce tanto bassa che le ci volle un po' per capire che stava citando passi dell'Arkamye.
Yoss mise un altro blocco di torba sul fuoco, poi tornò a sedersi.
«Dimmi da dove vieni, Capo Abberkam,» gli disse.
«La piantagione di Gebba.»
«All'est?»
Lui fece segno di sì con la testa.
«Com'era?»
Il fuoco cominciò a covare sotto la cenere, esalando un fumo pungente. La notte era assolutamente silenziosa. Quando era arrivata dalla città in quei posti, il silenzio l'aveva tenuta sveglia, una notte dopo l'altra.
«Com'era?» ripeté l'omone quasi in un sussurro. Come molta gente della loro razza, l'iride scura gli riempiva l'occhio, eppure Yoss scorse il lampo bianco mentre la scrutava. «Sessant'anni fa,» riprese lui. «Vivevamo nel complesso della piantagione. I canneti. Alcuni di noi ci lavoravano, a tagliar canne e a faticare alla segheria. Quasi tutte le donne, e i bambini. La maggior parte degli uomini e i ragazzi sopra i nove o dieci anni scendevano in miniera. Anche qualche ragazza, le volevano piccoline per lavorare nei pozzi in cui un uomo non si poteva infilare. Io ero grosso. Mi mandarono in miniera che avevo ancora otto anni.»
«E com'era?»
«Buio,» rispose lui. Di nuovo Yoss vide il lampo degli occhi. «Se ci ripenso mi domando come facevamo a vivere, come facevamo a sopravvivere in quel posto. L'aria giù in miniera era tanto densa di polvere da essere nera. Aria nera. La tua lanterna non riusciva a far luce oltre un metro e mezzo. In quasi tutti i punti c'era dell'acqua, che arrivava alle ginocchia di un adulto. In un pozzo aveva preso fuoco una parete di carbone bituminoso, stava bruciando, così tutte le gallerie erano intasate di fumo. Continuavano a lavorarci perché i filoni si trovavano dietro quel carbone. Indossavamo delle maschere, coi filtri, ma non servivano a molto. Respiravamo fumo. Respiravo sempre male, come adesso. Non è solo colpa del berlot. È quel fumo di un tempo. Gli uomini morivano di silicosi. Tutti. A quaranta, quarantacinque anni morivano. I Boss regalavano del denaro alla tua tribù quando un uomo moriva. Una gratifica di morte. Certuni pensavano che ne fosse valsa la pena, mentre morivano.»
«Come hai fatto a uscirne?»
«Mia madre,» rispose Abberkam. «Era la figlia del capo del villaggio. M'ha insegnato lei. Mi ha insegnato religione e libertà.»
Yoss pensò che l'aveva già detto. Era diventata la risposta classica, il mito standard.
«Come? Cosa ti diceva?»
Pausa. «Mi ha insegnato il Verbo,» disse poi Abberkam. «E mi ha detto, "Tu e tuo fratello, voi siete la gente vera, voi siete la gente del Signore, i suoi servitori, i suoi guerrieri, i suoi leoni, soltanto voi. Il Signore Dio Kamye è venuto tra noi dal Verbo Antico, e adesso è nostro, abita tra noi". Ci ha chiamati Abberkam, Lingua del Signore, e Domerkam, Braccio del Signore. Per dire la verità e lottare per essere liberi.»
«Che ne è stato di tuo fratello?» chiese Yoss dopo una breve pausa.
«Ucciso a Nadami,» rispose Abberkam, e poi entrambi rimasero di nuovo in silenzio.
Nadami era stato il primo grande focolaio dell'Insurrezione che aveva portato alla liberazione di Yeowe. Nella piantagione di Nadami gli schiavi e i liberti di città avevano combattuto per la prima volta fianco a fianco contro i possidenti. Se gli schiavi fossero stati capaci di unirsi contro i possidenti, contro le Corporazioni, avrebbero guadagnato la libertà molti anni prima. Ma il movimento di liberazione si era frantumato in continuazione in rivalità tribali, con i capetti che lottavano per il potere nei territori appena liberati, trattando con i Boss per consolidare i propri guadagni. Trent'anni di guerra e distruzione prima che i Wereliani, in numero nettamente inferiore, fossero sconfitti, cacciati dal pianeta, lasciando gli Yeowiani liberi di saltarsi alla gola tra di loro.
«Tuo fratello è stato fortunato,» commentò Yoss.
Poi guardò il Capo, domandandosi come avrebbe preso questa provocazione. Il suo grande volto scuro aveva un'espressione mite alla luce del camino. I capelli grigi e ruvidi erano sfuggiti alla treccia poco tesa in cui li aveva legati per tenerli lontani dagli occhi, e adesso gli coprivano il viso. Abberkam replicò, con voce lenta e dolce, «Era il mio fratello minore. Era Enar del Campo dei Cinque Eserciti».
Oh, allora tu sei Kamye in persona? ribatté Yoss tra sé e sé, turbata, indignata, cinica. Che razza di ego! Però c'era un'altra implicazione. Enar aveva levato la spada per uccidere il fratello maggiore su quel campo di battaglia, per impedirgli di diventare Signore del Mondo. E Kamye gli aveva detto che la spada che brandiva portava la sua stessa morte, che non esiste signoria o libertà in vita, si può soltanto abbandonare la vita, la brama, il desiderio. Allora Enar aveva abbassato la spada per andare nel deserto, nel silenzio, dicendo soltanto, «Fratello, io sono te». E Kamye aveva raccolto quella spada per combattere le Armate della Desolazione, sapendo che non esiste vittoria.
Allora chi era, quell'uomo? Quel bestione? Quel vecchio malato, quel bambino nel buio delle miniere, quel bullette), quel ladro, quel mentitore che era convinto di parlare in nome del Signore?
«Stiamo parlando troppo,» disse Yoss, anche se nessuno dei due aveva aperto bocca negli ultimi cinque minuti. Gli versò una tazza di tè e tolse la teiera dal fuoco, dove l'aveva tenuta a sobbollire per umidificare l'aria, poi raccolse lo scialle. Lui la guardò con la medesima espressione mite, una faccia quasi frastornata.
«Era la libertà che volevo,» disse. «La nostra libertà.»
A lei poco interessava della sua coscienza. «Stai al caldo,» gli disse.
«Esci a quest'ora?»
«Non mi posso perdere sulla passerella.»
Però fu una strana passeggiata, perché era senza lanterna, ed era una notte molto buia. Mentre avanzava a tentoni sulla strada rialzata, ripensò all'aria nera nelle miniere di cui lui le aveva parlato, a un'aria che inghiottiva la luce. Pensò al corpo nero e pesante di Abberkam. Pensò a quante poche volte le era capitato di passeggiare da sola di notte. Quand'era bambina, alla piantagione di Banni, di notte gli schiavi venivano rinchiusi nel complesso. Le donne stavano nei quartieri delle donne e non uscivano mai da sole. Prima della Guerra, quando era arrivata in città come liberta per frequentare la scuola di tirocinio, aveva assaporato la libertà, ma negli anni cupi della Guerra e anche dopo la Liberazione una donna non poteva girare tranquilla per le strade di notte. Nei quartieri operai non c'era polizia, e nemmeno lampioni. I signori della guerra dei vari distretti sguinzagliavano le loro bande a fare razzie. Dovevi stare all'erta persino in pieno giorno, tenerti in mezzo alla folla, essere sempre sicura di avere una via di fuga.
Temeva che le potesse sfuggire il punto in cui doveva svoltare, ma quando ci arrivò ormai gli occhi si erano abituati all'oscurità, e riuscì persino a distinguere la chiazza della sua casa nel paesaggio indistinto dei canneti. Gli Alieni ci vedevano male di notte, da quel che le avevano detto. Avevano degli occhietti piccini, dei puntini col bianco tutto intorno, come un vitellino impaurito. Quegli occhi non le piacevano, anche se amava il colore della loro pelle, un marrone scuro o rossiccio, più caldo di quel marrone bigio della pelle degli schiavi oppure del nero con sfumature bluastre della pellaccia che Abberkam aveva ereditato dal possidente che gli aveva violentato la madre. Pelli cianotiche, come le definivano delicatamente gli Alieni, un adattamento oculare allo spettro luminoso del sole del sistema wereliano.
Gubu le danzò attorno mentre scendeva il sentierino, silenzioso le pizzicò le gambe con la coda. «Attento,» lo rimproverò lei, «altrimenti ti pesto.» Gli era tanto grata che lo raccolse da terra appena entrati in casa. Questa sera non l'aspettava il saluto gioioso e nobile di Tikuli, né stasera né mai. Ron-ron-ron, faceva Gubu sotto il suo orecchio, dammi ascolto, io sono qui, la vita continua, dov'è la cena?
In fin dei conti, il capo aveva una punta di polmonite, così Yoss andò al villaggio per chiamare la clinica di Veo. Quelli mandarono un dottore che disse che non andava malaccio, bastava tenerlo su seduto a tossire, gli infusi d'erbe andavano bene, bastava tenerlo sotto controllo, questo sì, e se ne andò, grazie tante. Così lei trascorse i pomeriggi col Capo. Senza Tikuli la casa sembrava tanto tetra, le giornate di fine autunno parevano tanto fredde, e poi cos'altro aveva da fare? Le piaceva quella casa galleggiante, grande e buia. Non era affatto intenzionata a fare i lavori di casa per il Capo o per qualsiasi uomo che non sapesse badare a se stesso, però ficcanasò, si aggirò nelle stanze che Abberkam non usava o che forse non aveva mai nemmeno visitato. Ne trovò una che le piaceva al piano di sopra, con delle lunghe finestre basse lungo tutta la parete ovest. La spazzò e pulì le finestre con i loro piccoli pannelli verdognoli. Quando lui dormiva, lei saliva a sedersi in quella stanza, su un tappeto sdrucito di lana, il suo unico arredo. Il camino era stato murato con dei mattoni scompagnati, ma il calore arrivava dal fuoco di torba acceso al piano di sotto, e con la schiena contro i mattoni tiepidi e il sole che entrava di sbieco, Yoss se ne stava al calduccio. Lì trovava una pace che sembrava appartenere a quella stanza, alla conformazione dell'aria, a quei vetri verdi e disomogenei. Sedeva lì in silenzio, senza far nulla, soddisfatta, come non le era mai successo a casa sua.
Il Capo si riprese molto lentamente. Spesso era imbronciato, arcigno, sembrava la persona incivile che in un primo tempo lei aveva pensato fosse, immerso in uno stato stuporoso di rabbia e vergogna egocentrica. Altri giorni, invece, era disposto a parlare, e persino ad ascoltare, ogni tanto.
«Stavo leggendo un libro sui mondi dell'Ekumene,» gli disse Yoss mentre aspettava che le frittelle di fagioli fossero pronte per essere girate dall'altra parte. In quegli ultimi giorni cucinava e mangiava con lui nel tardo pomeriggio, poi lavava i piatti per tornare a casa prima che facesse buio. «È molto interessante. Sembra accertato che discendiamo tutti dal popolo di Hain, tutti quanti. Noi, e anche gli Alieni. Persino i nostri animali hanno degli antenati comuni.»
«Così dicono,» grugnì il Capo.
«Non è questione di chi lo dice. Chiunque controlli i dati lo può verificare. È un fatto genetico. Che poi non ti piaccia non cambia la cosa.»
«Cos'è un "fatto" vecchio di un milione di anni?» replicò il Capo. «Cos'ha a che vedere con te, con me, con noi? Questo è il nostro mondo. Noi siamo noi. Non abbiamo nulla a che spartire con quelli.»
«Adesso sì,» ribatté Yoss seccamente, mentre girava le frittelle di fagioli.
«Non se fosse andata come volevo.»
Lei si mise a ridere. «Non ti dai mai per vinto, eh?»
«No.»
Dopo aver mangiato, lui a letto sul vassoio, lei su uno sgabello presso il focolare, Yoss proseguì, con la sensazione di stuzzicare un toro, di sfidare una valanga a precipitare. Per quanto fosse debole e malato, in lui, nella sua mole, non soltanto fisica, era racchiusa una minaccia. «Era tutto qua, allora?» gli chiese. «Il Partito Mondiale. Avere il pianeta tutto per noi, senza Alieni? Tutto qua?»
«Sì,» rispose lui, con un rombo cupo.
«Perché? Abbiamo tanto a che spartire con l'Ekumene. Ha spezzato il dominio delle Corporazioni. Sta dalla nostra parte.»
«Ci hanno portato su questo mondo come schiavi, ma è anche il mondo in cui troveremo la nostra strada. Kamye è venuto con noi, il Mandriano, lo Schiavo, Kamye lo Spadaccino. Questo è il suo mondo. La nostra terra. Nessuno ce la può regalare. Non abbiamo bisogno di spartire il sapere delle altre genti o di seguire i loro dèi. Qui è dove viviamo, questa terra. Qui è dove moriremo per raggiungere il Signore.»