— Questo non posso saperlo, signore, ma ho udito lo stesso lamento su altri mondi.
Tibe mi fissò a lungo, come se avesse voluto stabilire la mia pazzia. Poi mostrò di nuovo i lunghi denti gialli.
— Ah sì! Sì davvero! Continuo a dimenticare che voi venite da un altro pianeta. Ma naturalmente questo non è un argomento che voi possiate mai dimenticare. Benché senza dubbio la vita sarebbe molto più solida e semplice e sicura per voi, qui a Erhenrang, se poteste dimenticarlo, eh? Sì davvero! Ecco qui la mia auto, l'ho lasciata qui ad aspettare, in disparte. Vorrei offrirvi un passaggio fino alla vostra isola*), ma devo rinunciare al privilegio, poiché devo presentarmi alla Casa del Re tra breve, e i parenti poveri devono arrivare in orario, come dice il proverbio, eh? Sì davvero! — disse il cugino del re, salendo sulla sua piccola auto elettrica, scoprendo i denti e fissandomi, al di sopra della spalla, con gli occhi velati da un reticolato di rughe.
Tornai a casa a piedi, nella mia isola. Il giardino che si trovava davanti a essa era rivelato, ora che anche l'ultima neve dell'inverno si era sciolta, e le porte invernali, a tre metri dal suolo, erano chiuse per qualche mese, fino a quando l'autunno non fosse ritornato con la sua neve profonda. Dietro l'angolo, sul lato dell'edificio, nel fango e nel ghiaccio e nella vegetazione primaverile del giardino, precoce e soffice e rigogliosa, una giovane coppia era in piedi, e parlava. Le loro mani destre erano intrecciate. Erano nella prima fase del kemmer. I fiocchi grandi e soffici della neve di primavera danzavano intorno a loro, che erano a piedi nudi nel fango gelido, con le mani intrecciate, occhi solo l'uno per l'altro. Primavera su Inverno.
Feci colazione nella mia isola, e quando i gong della Torre di Remny batterono la Quarta Ora, mi trovavo già nel Palazzo, pronto per la cena. I karhidiani consumano quattro pasti. Non esistono grandi animali da macello, su Inverno, e non esistono prodotti dei mammiferi, come il latte, il burro e il formaggio; i soli cibi ad alto contenuto di proteine, e di carboidrati, sono i diversi generi di uova, pesci, noci, e un tipo di frumento. Una dieta misera per un clima spietato, ed era necessario rifornirsi spesso di carburante. Io mi ero abituato a mangiare, così mi sembrava, ogni dieci minuti o giù di lì. Fu solo assai più tardi, in quell'anno stesso, che io scoprii come i getheniani avessero portato quasi alla perfezione non solo la tecnica di rimpinzarsi perpetuamente, ma anche di digiunare per periodi indefiniti.
La neve continuava a cadere, una blanda tormenta di primavera, molto più piacevole della pioggia implacabile del Disgelo, che era passato da poco. Arrivai al Palazzo, e lo attraversai, nell'oscurità quieta e pallida della nevicata, e smarrii la strada una volta soltanto. Il Palazzo di Erhenrang è una città interna, una distesa racchiusa da mura, e fatta di palazzi, torri, giardini, cortili, chiostri, portici, tettoie e pontili coperti, gallerie scoperte, piccole foreste e torrioni e segrete, il prodotto di secoli di paranoia su vasta scala. Sopra tutto questo si ergevano le fosche, rosse, elaborate mura della Casa Reale, la quale, benché venga usata in perpetuo, viene abitata soltanto dal re. Tutti gli altri, servitori, consiglieri, lords, pari, ministri, parlamentari, guardie e chiunque altro, dormono in un altro palazzo, o fortezza, o custodia, o caserma, o casa, all'interno delle mura del Palazzo. La casa di Estraven, segno dell'altissimo favore del re, era la Dimora Rossa dell'Angolo, costruita 440 anni prima per Harmes, amato kemmeri di Emran III, la cui bellezza viene ancora celebrata, e che i sicari della Fazione Interna rapirono, mutilarono, e resero idiota. Emran III morì quarant'anni dopo, sfogando ancora la sua vendetta sulla sua infelice nazione: Emran dalla Sorte Crudele. La tragedia è così antica che il suo orrore si è in parte dissipato nel tempo, e solo una certa aria di sfiducia e malinconia resta ancora aggrappata alle pietre e alle ombre della casa. Il giardino era piccolo e circondato da pareti; alberi di serem curvi su una piccola piscina sassosa. Nei fasci fievoli di luce che uscivano dalle finestre della casa, riuscii a vedere i fiocchi di neve e i fiocchi bianchi e filiformi delle spore degli alberi scendere sofficemente insieme nell'acqua nera. Estraven mi stava aspettando, in piedi, nel gelo, con il capo scoperto e senza soprabito, intento a osservare la piccola, segreta e incessante discesa di neve e semi nella notte. Mi accolse con un quieto saluto, e mi accompagnò nella casa. Non c'erano altri ospiti.
Questo mi offrì un motivo di meraviglia, ma andammo subito a tavola, e non si parla di lavoro quando si mangia; inoltre, la mia meraviglia si rivolse subito al pasto, che era superbo, e perfino le eterne focacce erano state trasformate magicamente da un cuoco la cui arte lodai con tutto il cuore. Dopo la cena, accanto al fuoco, bevemmo birra calda. Su di un mondo nel quale la più comune delle posate è un piccolo strumento con il quale si rompe il ghiaccio che si è formato sulle vostre bevande tra un sorso e l'altro, la birra calda è una cosa che si impara ad apprezzare.
Estraven era stato un amabile conversatore, a tavola; ora, seduto dall'altra parte del focolare, davanti a me, era quieto e taciturno. Benché già da quasi due anni mi trovassi su Inverno, era ancora lontano il giorno in cui avrei potuto vedere gli abitanti del pianeta attraverso i loro stessi occhi. Io tentavo e tentavo, ma i miei sforzi prendevano la forma di una visione innaturale, quasi una morbosa coscienza di sé, di un getheniano che prima era un uomo, e poi una donna, e questa visione costringeva l'oggetto a entrare in una di queste categorie, così irrilevanti ai loro occhi, e così essenziali ai miei. Così, mentre io sorseggiavo la mia birra amara e fumante, pensai che l'atteggiamento di Estraven a tavola era stato femminile, tutto fascino e tatto e mancanza di vera sostanza, specioso e accorto. Era forse, in realtà, questa femminilità cerimoniosa, arrendevole, che non mi piaceva, in lui, e che mi portava a diffidare? Perché era impossibile pensare a lui come a una donna, quella presenza scura, ironica, potente che era vicino a me nell'oscurità rischiarata dalle luci del focolare, eppure ogni volta che pensavo a lui come a un uomo, provavo un senso di falsità, di impostura; in lui, o nel mio atteggiamento verso di lui? La sua voce era gentile e risonante, ma non profonda, non del tutto una voce di donna, neppure… ma che cosa stava dicendo?
— Sono dolente — stava dicendo, — di aver dovuto rimandare per tanto tempo il piacere di avervi nella mia casa; e almeno sotto questo rispetto, sono felice che tra noi non ci sia più alcuna questione di patronato. — Questo mi diede da riflettere per un poco. Certamente lui era stato il mio patrono, nella corte, fino a quel momento. Intendeva dire, forse, che l'udienza che era riuscito a farmi accordare dal re, per il giorno dopo, mi aveva sollevato a uno stato di uguaglianza con lui?
— Temo di non riuscire a seguirvi — dissi.
A queste parole, lui tacque, evidentemente perplesso a sua volta.
— Ebbene, voi capite — disse, alla fine, — essendo qui… voi capite che io non agisco più in vostro favore e per vostro conto davanti al re, naturalmente.
Parlava come se avesse vergogna di me, e non di sé. Chiaramente c'era un significato nel suo invito, e nel fatto che io l'avessi accettato, un significato che io non avevo colto. Ma il mio errore era stato nei modi, il suo nella morale. Tutto ciò che riuscii a pensare, dapprima, fu che avevo visto giusto fin dall'inizio, nel non fidarmi di Estraven. Lui non era solamente accorto, e non era solamente potente, era anche falso e sleale. Per tutti quei mesi trascorsi a Erhenrang era stato lui ad ascoltarmi, a rispondere alle mie domande, a mandare medici e ingegneri a verificare l'autentica natura aliena del mio fisico e della mia astronave, a presentarmi alle persone che io avevo bisogno di conoscere, e ad elevarmi gradualmente dalla condizione che avevo nel primo anno, un mostro dalla grande immaginazione, al mio presente riconoscimento, quale misterioso Inviato, che stava per essere ricevuto dal re. E ora, avendomi portato sino a quella pericolosa eminenza, improvvisamente e freddamente mi annunciava che ritirava il suo appoggio.
— Mi avete portato a contare su voi…
— È stato fatto male.
— Intendete dire che, nel preparare questa udienza, non avete parlato in favore della mia missione al re, come avevate… — Ebbi il buon senso di fermarmi, prima di pronunciare la parola promesso.
— Non posso.
Ero in collera, ma in lui non incontrai né collera, né scuse.
— Volete dirmi il perché?
Dopo un breve silenzio, egli disse:
— Si. — E poi tacque di nuovo.
Durante la pausa, cominciai a pensare che un alieno inetto e indifeso non avrebbe dovuto chiedere delle ragioni al primo ministro di un regno, soprattutto quando egli non comprende e forse non comprenderà mai le fondamenta del potere e il funzionamento del governo in quel regno. Senza dubbio, questa era totalmente una questione di shifgrethor… prestigio, faccia, posto, la relazione d'orgoglio, l'intraducibile, e dominante principio di tutte le civiltà di Gethen. E se fosse stato questo, io non avrei potuto capire.
— Avete sentito quel che mi ha detto il re alla cerimonia, oggi?
— No.
Estraven si curvò in avanti, quasi sul focolare, prese la brocca di birra dalle calde ceneri, e riempì il mio boccale d'argento. Non disse altro, e cosi io aggiunsi:
— Il re non vi ha parlato al mio cospetto — dissi.
— E neppure al mio — disse lui.
Capii, finalmente che stavo trascurando un altro segnale. Maledizione alla sua obliquità effemminata, pensai. E così pensando, dissi:
— State cercando di dirmi, Lord Estraven, di non godere più il favore del re?
Credo che allora fosse in collera, ma non disse niente che potesse mostrarlo, solo:
— Non sto cercando di dirvi nulla, signor Ai.
— Per Dio, vorrei che lo faceste!
Mi fissò con aria curiosa.
— Bene, allora, mettiamola in questo modo. Ci sono alcune persone, a corte, che, per usare la vostra frase, godono il favore del re, ma che non favoriscono la vostra presenza, né la vostra missione qui.
E così ti stai affrettando a unirti a loro, vendendomi con tanta disinvoltura per salvarti la pelle, pensai, ma era inutile dirlo a parole. Estraven era un cortigiano, un politico, e io ero uno stupido a essermi fidato di lui. Perfino in una società bisessuale gli uomini politici erano spesso qualcosa di meno di un uomo integro. Il suo invito a cena mostrava come egli pensasse che io avrei accettato il suo tradimento con la stessa disinvolta facilità con la quale lui l'aveva commesso. Chiaramente, salvare la faccia era più importante dell'onestà. Così mi costrinsi a dire:
— Sono spiacente che la vostra cortesia nei miei confronti vi abbia provocato dei guai. — Carboni ardenti. Provai un appropriato, piacevole senso di superiorità morale, ma non per molto: lui era troppo imprevedibile.
Sedette, appoggiato allo schienale, in modo che la luce del fuoco si posasse sanguigna sulle sue ginocchia e sulle mani piccole, forti, delicate, e sul boccale d'argento che teneva in pugno, ma lasciasse nelle tenebre il suo viso: un viso scuro perennemente ombreggiato dai folti capelli lisci e lunghi, e dalle folte sopracciglia e dalle lunghe ciglia, e da una oscura mitezza di espressione. Si può leggere il viso di un gatto, di una foca, di una lontra? Alcuni getheniani, pensavo, sono come questi animali, con grandi occhi luminosi, profondi, che non cambiano espressione quando voi parlate.
— Io ho provocato i miei guai — rispose, — con un atto che non aveva nulla a che fare con voi, signor Ai. Voi sapete che Karhide e Orgoreyn hanno una disputa che riguarda un territorio della nostra frontiera, nell'alta Barriera di Settentrione, vicino a Sassinoth. Il nonno di Argaven ha reclamato la Valle di Sinoth in nome di Karhide, e i Commensali non hanno mai riconosciuto la pretesa. Molta neve caduta da una sola nube, e si fa sempre più fitta e più alta. Io ho aiutato certi contadini kharidi che vivono nella Valle a trasferirsi a est, attraverso l'antica frontiera, pensando che la disputa avrebbe potuto risolversi da sola, se la Valle fosse stata lasciata semplicemente agli Orgota, che sono vissuti là per diverse migliaia di anni. Alcuni anni or sono io facevo parte dell'Amministrazione della Barriera di Settentrione, e ho avuto modo di conoscere alcuni di questi contadini. Detesto l'idea che essi possano venire uccisi in un assalto, o inviati nelle Fattorie Volontarie di Orgoreyn. Perché non ovviare l'argomento della disputa?… Ma questa non è un'idea patriottica. In realtà, è un'idea vile e bastarda, e pregiudica lo shifgrethor del re in persona.
Le sue ironie, e questo altalenare di una controversia di frontiera con Orgoreyn, non erano di alcun interesse per me. Ritornai all'argomento che si trovava tra noi. Che mi fidassi o no di lui, avrebbe potuto essermi utile.
— Mi dispiace — dissi, — ma sembra deplorevole che questa questione riguardante pochi contadini possa pregiudicare le possibilità di successo della mia missione presso il re. C'è molto di più, in gioco, di poche miglia di confini nazionali.
— Sì. Molto, molto di più. Ma forse l'Ecumene, che da una frontiera all'altra abbraccia cento anni-luce, sarà paziente con noi per un poco.
— Gli Stabili dell'Ecumene sono uomini molto pazienti, signore. Aspetteremo cento anni, o cinquecento, perché Karhide e tutto il resto di Gethen deliberino e riflettano sulla decisione di unirsi o meno al resto del genere umano. Io parlo soltanto per speranza personale. E per una delusione personale. Confesso di aver pensato che, con il vostro appoggio…
— Anch'io. Bene, i Ghiacciai non sono gelati in una notte… — Le espressioni stereotipate salivano facilmente alle sue labbra, ma la sua mente era altrove. Era cupo e pensieroso. Immaginai che egli mi muovesse insieme alle altre pedine, nel suo gioco per il potere. — Voi siete venuto nel mio paese — disse, alla fine, — in un tempo strano. Le cose cambiano; noi stiamo iniziando una nuova svolta. No, non è tanto questo, quanto il proseguire troppo lontano lungo il cammino che abbiamo percorso. Pensavo che la vostra presenza, la vostra missione, potessero impedirci di sbagliare, offrirci una possibilità completamente nuova. Ma al momento giusto… nel luogo giusto. E tutto eccessivamente rischioso, signor Ai.
Spazientito dalle sue generalizzazioni, dalle vaghe frasi che pronunciava, dissi:
— È implicito nelle vostre parole il concetto che questo non sia il momento giusto. Mi consigliate forse di annullare la mia udienza?
La mia gaffe era ancora peggiore in lingua Kharidi, ma Estraven non sorrise, né fece una smorfia.
— Temo che soltanto il re abbia questo privilegio — disse, in tono blando.
— Oh, Dio, sì. Non intendevo quello. — Mi presi il capo tra le mani, per un momento. Allevato nell'apertissima, libera società della Terra, non avrei mai saputo dominare il protocollo, né l'impassibilità, così apprezzati dai karhidiani. Sapevo bene cos'era un re, la storia stessa della Terra ne è piena, ma non avevo un'esperienza a guidarmi, per farmi avvertire automaticamente il senso del privilegio… non avevo tatto. Sollevai il mio boccale e bevvi un sorso caldo e lungo e amaro. — Bene, dirò al re meno di quanto intendessi dire, quando potevo contare su di voi.
— Bene.
— Perché bene? — domandai.
— Ebbene, signor Ai, voi non siete pazzo. Io non sono pazzo. Ma in fondo, né voi né io siamo re, vedete… Suppongo che intendeste dire ad Argaven, razionalmente, che la vostra missione qui consiste nel tentare di stabilire una alleanza tra Gethen e l'Ecumene. E, razionalmente, egli questo lo sa già; perché, come sapete, io gliel'ho detto. Ho spinto la vostra causa, imponendola alla sua attenzione, esortandolo a considerarla, ho cercato di farlo interessare a voi. È stato fatto male, con una scelta dei tempi ancor peggiore. Ho dimenticato, essendo io stesso troppo interessato, che egli è un re, e non vede le cose razionalmente, ma come un re. Tutto ciò che gli ho detto significa per lui, semplicemente, che il suo potere è minacciato, che il suo regno è un granello di polvere nello spazio, che la sua regalità è uno scherzo per gli uomini che governano cento mondi.