Nessuna di queste parole attirò la curiosità del re, né servì a rassicurarlo. Continuai per un poco, cercando di suggerire che il suo shifgrethor, o quello di Karhide, sarebbe stato aumentato, e non minacciato, dalla presenza dell'Ecumene, ma questo non servì a nulla. Argaven se ne stava là, torvo e testardo, come una vecchia lontra in gabbia, dondolandosi avanti e indietro, da un piede all'altro, avanti e indietro, scoprendo i denti in una smorfia di dolore. Smisi di parlare.
— Sono tutti neri come voi?
I getheniani sono di color giallo-bruno o rosso-bruno, generalmente, ma ne avevo visti molti scuri come me.
— Alcuni sono più neri — dissi. — Siamo di tutti i colori — e aprii la valigetta (cortesemente esaminata dalle guardie del Palazzo in quattro diversi stadi del mio avvicinamento alla Sala Rossa) che conteneva il mio ansible e alcune fotografie. Le fotografie… insieme alle quali c'erano pellicole, fotogrammi, dipinti, attivi, e alcuni cubi… erano una piccola galleria dell'Uomo: popoli di Hain, Chiffewar, e dei Cetiani, di S, della Terra e di Alterra, dei Supremi, Kapteyn, Ollul, Taurus IV, Rokanan, Ensbo, Cime, Gde e Sheashel Haven… Il sovrano ne guardò un paio, senza interesse.
— Cos'è questo?
— Una persona di Cime, una femmina. — Dovetti usare la parola che i getheniani applicano solo a una persona nella fase culminante del kemmer, essendo il termine alternativo la loro parola per definire un animale femmina.
— Permanentemente?
— Sì.
Lasciò cadere il cubo e rimase a dondolarsi da un piede all'altro, fissandomi, o fissando un punto appena dietro di me, e la luce del fuoco si muoveva e danzava e giocava sul suo viso.
— Sono tutti così… come voi?
Questa era la barriera che non potevo abbassare per loro. Avrebbero dovuto, col tempo, imparare a passarvi sopra.
— Sì. La fisiologia sessuale getheniana, per quello che sappiamo fino a oggi, è assolutamente unica tra gli esseri umani.
— Così tutti quanti, lassù, su quegli altri pianeti, sono in kemmer permanente? Una società di pervertiti? Cosi l'ha esposto Lord Tibe; pensavo che stesse scherzando. Ebbene, potrà essere vero, ma è un'idea disgustosa, signor Ai, e non vedo perché gli esseri umani qui, sulla terra, dovrebbero tollerare, non parliamo poi di desiderare, qualsiasi mercato con creature così mostruosamente diverse. Ma in fondo, forse voi siete qui per dirmi che non ho alcuna scelta nella questione?
— La scelta, per Karhide, è vostra, mio signore.
— E se costringo anche voi ad andare?
— Ebbene, me ne andrò. Potrei tentare di nuovo, tra un'altra generazione…
Questo lo colpì. Esclamò, seccamente:
— Voi siete immortale?
— No, niente affatto, mio signore. Ma i balzi temporali hanno una loro utilità. Se ora io lascio Gethen per il mondo più vicino, Ollul, passerei diciassette anni di tempo planetario per arrivarvi. Il balzare nel tempo è una funzione del viaggiare quasi alla velocità della luce. Se semplicemente facessi un giro intorno al pianeta, e tornassi indietro, le poche ore da me trascorse a bordo dell'astronave, qui, ammonterebbero a circa trentaquattro anni; e potrei ricominciare tutto da capo. — Ma il concetto del balzo nel tempo, con il suo falso indizio d'immortalità, che aveva affascinato tutti coloro che mi avevano ascoltato, dal pescatore dell'Isola di Horden su, su, fino al Primo Ministro, lo lasciò totalmente freddo. Disse, con la sua voce secca e stridula:
— E questo cos'è? — e nel dirlo, indicò l'ansible.
— L'apparecchio di comunicazione ansible, mio signore.
— Una radio?
— Non comporta delle onde radio, né qualsiasi forma di energia. Il principio in base al quale agisce, la costante della simultaneità, è analogo sotto certi aspetti alla gravità… — avevo di nuovo dimenticato che non stavo parlando a Estraven, che aveva letto ogni rapporto su di me e che ascoltava attentamente, intelligentemente, quasi avidamente tutte le mie spiegazioni… bensì che stavo parlando a un monarca annoiato. — Ciò che esso fa, mio signore, è produrre un messaggio simultaneamente in due punti qualsiasi. Ovunque. Un punto deve essere fisso, su un pianeta di una certa massa, ma l'altro capo è portatile. Quello che vedete è quest'ultimo capo. Ho stabilito le coordinate del Primo Mondo, Hain. Un'astronave NAFAL impiega 67 anni a percorrere la distanza tra Gethen e Hain, ma se io scrivo un messaggio su quella tastiera, esso sarà ricevuto su Hain nello stesso momento in cui io lo scrivo. C'è qualche comunicazione che voi vorreste stabilire con gli Stabili di Hain, mio signore?
— Io non parlo la lingua del Vuoto — disse il sovrano, con la sua smorfia torva e maligna.
— Su Hain ci sarà certo un aiutante in perenne ascolto… li ho avvertiti… un aiutante capace di comunicare in lingua karhidi.
— Che cosa intendete dire? Come?
— Ebbene, come sapete, mio signore, io non sono il primo alieno che viene su Gethen. Sono stato preceduto da una squadra di Investigatori, i quali non hanno annunciato la loro presenza, ma si sono fatti passare per getheniani, meglio che hanno potuto, e hanno viaggiato per Karhide e Orgoreyn e per l'arcipelago per un anno. Sono poi partiti, e hanno fatto rapporto ai Concili dell'Ecumene, circa quaranta anni fa, durante il regno di vostro nonno. Il loro rapporto è stato estremamente favorevole. E così ho studiato le informazioni da essi raccolte, e i linguaggi che hanno registrato, e sono venuto. Vorreste vedere in funzione l'apparecchio, mio signore?
— Non mi piacciono i trucchi, signor Ai.
— Non si tratta di un trucco, mio signore. Alcuni dei vostri scienziati hanno esaminato…
— Io non sono uno scienziato.
— Voi siete un sovrano, mio signore. I vostri pari, sul Primo Mondo dell'Ecumene, aspettano una parola da voi.
Mi guardò rabbiosamente, selvaggiamente. Cercando di lusingarlo e di interessarlo con l'adulazione, l'avevo chiuso in una trappola di prestigio. Stava andando tutto nel peggiore dei modi.
— Bene, allora. Chiedete a questa vostra macchina cos'è che fa di un uomo un traditore.
Battei lentamente la domanda sui tasti, che erano in caratteri karhidi, - Re Argaven di Karhide chiede agli Stabili di Hain cos'è che fa di un uomo un traditore. — Le lettere bruciarono nel piccolo schermo, e sbiadirono. Argaven osservava, e il suo inquieto dondolare si era placato, per un momento.
Ci fu una pausa, una lunga pausa. Qualcuno, a settantadue anni-luce di distanza, stava senza dubbio febbrilmente programmando delle domande nell'elaboratore elettronico semantico della Lingua Karhidi, se non addirittura in un elaboratore elettronico filosofico. Alla fine le lettere luminose apparvero come fiammelle sullo schermo, vi rimasero sospese per un poco, e lentamente sbiadirono: — A Re Argaven di Karhide di Gethen, saluti. Io non so cos'è che fa di un uomo un traditore. Nessun uomo si considera un traditore: questo rende difficile scoprirlo. Rispettosamente, Spimolle G. F., per gli Stabili, in Saire di Hain, 93/1491/45.
Quando il nastro fu registrato lo estrassi e lo diedi ad Argaven. Egli lo lasciò cadere sul tavolo, camminò di nuovo fino al focolare centrale, quasi vi entrò, e colpì con la punta del piede i ceppi ardenti e diede la caccia alle scintille con le mani.
— Una risposta utile come quella che potrei ottenere da qualsiasi Profeta. Le risposte non sono abbastanza, signor Ai. E neppure la vostra scatola, quella vostra macchina. E neppure il vostro veicolo, la vostra nave. Una borsa di giochi di destrezza e un giocoliere. Volete che io vi creda, alle vostre storie e ai vostri messaggi. Ma perché avrei bisogno di credere, o di ascoltare? Se anche ci fossero ottantamila mondi pieni di mostri là fuori, tra le stelle, cosa cambierebbe? Non vogliamo niente da costoro. Noi abbiamo scelto il nostro modo di vivere e lo abbiamo seguito per molto e molto tempo. Karhide è sull'orlo di una nuova epoca, di una grande, nuova èra. Andremo per la nostra strada. — Esitò, come se avesse perduto il filo del discorso… non del suo discorso, forse, tanto per cominciare. Se Estraven non era più l'Orecchio del Re, qualcun altro lo era. — E se ci fosse qualcosa che questi Ecumeni avessero voluto da noi, non avrebbero mandato voi solo. È uno scherzo, una beffa, un inganno. Gli alieni sarebbero qui a migliaia.
— Ma non ci vogliono mille uomini per aprire una porta, mio signore.
— Forse ci vorrebbero, per tenerla aperta.
— L'Ecumene aspetterà fino a quando voi non l'avrete aperta, mio signore. Non vi costringerà a fare nulla. Sono stato mandato solo, e rimarrò qui solo, perché vi sia impossibile aver paura di me.
— Paura di voi? — disse il re, girando il suo volto solcato dall'ombra e dalle fiamme, sogghignando, parlando con voce forte e stridula. — Ma io ho paura di voi, Inviato. Io ho paura di coloro che vi hanno mandato. Io ho paura dei bugiardi, e ho paura degli ingannatori e dei giocolieri, e più di tutto ho paura dell'amara verità. E così io governo bene il mio paese. Perché solo la paura governa gli uomini. Null'altro funziona. Null'altro dura abbastanza a lungo. Voi siete quel che dite di essere, eppure voi siete una beffa, un inganno. Non c'è niente là tra le stelle, solo il vuoto e il terrore e l'oscurità e le tenebre, e voi venite fuori da tutto quello, da solo, tentando di spaventarmi. Ma io sono già spaventato, io ho già paura, e io sono il re. Il terrore è re! La paura è re! Ora prendete le vostre trappole e i vostri trucchi e andate, non c'è altro che si debba dire. Io ho ordinato che vi fosse data la libertà di Karhide.
Così me ne partii dal cospetto reale… eck, eck, eck, per tutto il rosso, lungo pavimento, nel rosso crepuscolo sanguigno della sala rossa, fino a quando, finalmente, le doppie porte non si chiusero separandomi da lui.
Avevo fallito. Fallito in tutto. Ciò che mi angustiava, mentre me ne partivo dalla Casa del Re e camminavo per il terreno del Palazzo, però, non era il mio fallimento, ma la parte di Estraven in esso. Perché il re lo aveva esiliato per avere sposato la causa dell'Ecumene (questo pareva il significato del proclama) se (secondo lo stesso re) egli aveva fatto l'opposto? Quando aveva cominciato a consigliare il re di evitarmi, e perché? Perché lui era stato esiliato, e io ero stato mandato via libero? Quale tra loro aveva mentito di più, e perché diavolo stavano mentendo?
Stavo passando accanto alla Dimora Rossa dell'Angolo. I cancelli del giardino erano aperti. Guardai il giardino e gli alberi che si protendevano bianchi sulla piscina nera, i sentieri di mattoni rossi giacevano abbandonati nella grigia luce serena del pomeriggio. Un po' di neve era ancora rimasta all'ombra dei grandi sassi, accanto alla piscina. Pensai a Estraven, che mi aveva aspettato là quando la neve stava ancora cadendo, la sera prima, e provai un impulso di pura pietà per l'uomo che avevo visto nella parata di ieri, sudato e superbo sotto il peso della sua splendida veste e del suo potere, un uomo all'apice orgoglioso della propria carriera, potente e magnifico… e ora andato, caduto, finito. In fuga verso la frontiera con la morte tre giorni dietro di lui, senza che nessun uomo gli parlasse. La condanna a morte è rara in Karhide. La vita su Inverno è dura da vivere, e il popolo di questo mondo lascia generalmente la morte alla natura o alla collera, non alla legge. Mi domandai come Estraven, con quella condanna che lo spingeva, sarebbe fuggito. Non su di un'auto perché qui erano tutte proprietà di Palazzo; una nave o una corriera gli avrebbero forse dato un passaggio? Oppure lui era a piedi per la strada, portando quel che aveva potuto portare con sé? I karhidiani vanno soprattutto a piedi; non hanno animali da soma, non possiedono veicoli volanti, le intemperie e il clima in generale rallentano e in parte impediscono il traffico a motore per la maggior parte dell'anno, e in generale si tratta di un popolo che non conosce la fretta. Immaginai perciò quell'uomo orgoglioso andarsene in esilio un passo dopo l'altro, una piccola figura che camminava faticosamente sulla lunga strada di occidente che portava al Golfo. Tutto questo attraversò la mia mente, e ne uscì, mentre io passavo davanti al cancello della Dimora Rossa dell'Angolo, e con ciò se ne andarono le mie confuse speculazioni riguardanti gli atti e i motivi di Estraven e del re. Con loro avevo finito. Avevo fallito. E ora, cosa avrei dovuto fare?
Avrei potuto andare in Orgoreyn, che di Karhide era il vicino e rivale. Ma una volta che fossi andato là, avrei potuto trovare difficile il ritorno a Karhide, e qui avevo molti affari incompiuti. Dovevo tenere bene in mente il fatto che la mia intera vita avrebbe potuto essere, e questo era assai probabile, usata nel compimento della mia missione per l'Ecumene. Non c'era fretta. Non c'era più bisogno di correre in Orgoreyn, prima di avere appreso di più su Karhide, in particolare intorno alle Fortezze. Per due anni avevo risposto alle domande, ora sarei stato io a pome qualcuna. Ma non a Erhenrang. Finalmente avevo compreso che Estraven mi aveva messo in guardia, e benché avessi potuto diffidare del suo avviso, non avrei certo potuto trascurarlo. Lui mi aveva detto, sia pure indirettamente, che avrei fatto meglio ad allontanarmi dalla città e dalla corte. Per qualche motivo, pensai ai denti di Lord Tibe… Il re mi aveva dato la libertà del paese; me ne sarei servito. Come si dice nella Scuola Ecumenica, quando l'azione non è più vantaggiosa, raccogli delle informazioni; e quando le informazioni non sono più vantaggiose, dormi. Io non avevo ancora sonno. Sarei andato a oriente, alle Fortezze, e avrei forse raccolto delle informazioni dai Profeti.
CAPITOLO QUARTO
Il diciannovesimo giorno
Una storia Est Karhidi, come è narrata nel Focolare di Gorinhering da Tobord Chorhava, e registrata da G. A., 93/1492.
Lord Berosty rem ir Ipe venne alla Fortezza di Thangering e offri quaranta berilli a metà del raccolto di un anno dei suoi frutteti come prezzo di una Profezia, e il prezzo era accettabile. Fece la sua domanda al Tessitore Odren, e la domanda fu: In quale giorno morirò?
I Profeti si riunirono e andarono insieme nelle tenebre. Alla fine delle tenebre Odren pronunciò la risposta: Tu morrai in Odstreth (il diciannovesimo giorno di qualsiasi mese).
— In quale mese? tra quanti anni? — gridò Berosty, ma il patto era rotto, il vincolo spezzato, e non ci fu risposta. Egli corse nel circolo e prese il Tessitore Odren per la gola soffocandolo e urlò che se non avesse ricevuto altra risposta avrebbe spezzato il collo del Tessitore. Altri lo afferrarono e lo staccarono dal Tessitore e lo tennero ben stretto, benché egli fosse un uomo forte. Si dibatté tra le loro mani e gridò — Voglio la risposta!
Odren disse:
— La risposta è data, e il prezzo pagato. Va'.
Furibondo, allora, Berosty rem ir Ipe ritornò a Charuthe, il terzo Dominio della sua famiglia, un luogo povero nel nord dell'Osnoriner, che egli aveva reso più povero per raccogliere il prezzo di una Profezia. Egli si chiuse nella roccaforte, nelle sale più alte della Torre del Focolare, e non volle uscirne né per amico né per nemico, né per semina né per raccolto né per kemmer né per assalto, per tutto quel mese e per il mese dopo e per il mese dopo ancora, e sei mesi passarono e dieci mesi passarono, e lui rimase sempre come un prigioniero nella sua stanza, aspettando. Di Onnetherhad e di Odstreth (il diciottesimo e il diciannovesimo giorno del mese) non mangiava alcun cibo, né beveva, e neppure dormiva.
Il suo kemmeri, per voto e per amore, era Herbor del clan Geganner. Questo Herbor venne nel mese di Grende alla Fortezza di Thangering e disse al Tessitore:
— Io cerco una Profezia.
— Che cos'hai per pagare? — domandò Odren, perché aveva visto che l'uomo era poveramente vestito e con gli stivali consunti e rappezzati, e la sua slitta era vecchia, e tutto, in lui e intorno a lui, aveva bisogno di essere riparato.
— Darò la mia vita — disse Herbor.
— Non hai niente altro, mio signore? — gli domandò Odren, parlando ora come se si rivolgesse a un grande nobile, — niente altro da dare?