Al tramonto del quarto giorno dalla partenza da Erhenrang, giungemmo a Rer. Tra le due città si stendono millesettecento chilometri, e una parete alta diverse miglia, e due o tremila anni. La carovana si fermò fuori della Porta di Occidente, dove sarebbe stata trasferita su chiatte e avrebbe percorso i canali. Nessuna corriera o auto può entrare in Rer. Era stata costruita prima che i karhidiani usassero dei veicoli a motore, e i karhidiani li usano ormai da più di venti secoli. Non esistono strade a Rer. Ci sono dei passaggi all'interno o sopra, come si preferisce. Le case e le isole e i Focolari si trovano in qualsiasi luogo, caoticamente, in una confusione profusa, prodigiosa, che culmina improvvisamente (come sempre l'anarchia che regola Karhide) nello splendore: le grandi Torri del Palazzo-No, rosso-sangue, senza finestre. Costruite diciassette secoli or sono, quelle torri ospitarono i re di Karhide per mille anni, fino a quando Argaven Harge, primo della sua dinastia, attraversò il Kargav e colonizzò la grande valle della Barriera d'Occidente. Tutti gli edifici di Rer sono fantasticamente massicci, dalle fondamenta profonde, a prova d'acqua e di stagioni. D'inverno il vento delle pianure può tenere sgombera la città dalla neve, ma quando la tormenta viene e la neve si accumula gli abitanti non puliscono le strade, non avendo strade da pulire. Usano le gallerie di pietra, o ne scavano di temporanee sulla neve. Niente delle case, all'infuori del tetto, sporge sopra le gronde o nello stesso tetto, come abbaini. Il Disgelo è il tempo più crudele su quella pianura dai molti fiumi. Allora le gallerie diventano fogne e condutture di alluvioni, e gli spazi tra gli edifici diventano canali o laghi, sui quali la popolazione di Rer si muove a bordo di battelli, per raggiungere i propri lavori o per muoversi soltanto, usando i lunghi remi per allontanare i blocchi di ghiaccio galleggianti, o rompere il ghiaccio sottile là dove ancora c'è il brivido della stagione passata. E sempre, sopra la polvere dell'estate, lo spuntare nevoso dei tetti d'inverno, o le alluvioni di primavera, le rosse Torri si ergono, vuoto, indistruttibile cuore antico della città.
Io presi alloggio in una taverna squallida, dal prezzo esorbitante, acquattata sotto la protezione delle Torri. Mi alzai all'alba dopo molti incubi orrendi, e pagai all'esoso taverniere il letto e la colazione e delle istruzioni inesatte sulla strada che avrei dovuto prendere, e mi misi in cammino, a piedi, alla ricerca di Otherhord, un'antica Fortezza non lontana da Rer. Mi smarrii a cinquanta metri dalla taverna. Tenendo le Torri dietro di me, e l'immenso bagliore bianco del massiccio Kargav alla mia destra, riuscii a uscire dalla città in direzione sud, e il bambino di un contadino, incontrato sulla strada, mi disse da quale parte dovevo girare per raggiungere Otherhord.
Vi arrivai a mezzogiorno. Cioè, arrivai in qualche luogo a mezzogiorno, ma non riuscii a stabilire dove. Era soprattutto una foresta, o un folto bosco; ma gli alberi erano accuditi ancor più accuratamente di quanto non fosse consueto su quel mondo di appassionati, amorevoli custodi delle foreste, e il sentiero procedeva lungo il fianco della collina proprio attraverso gli alberi. Dopo qualche tempo, mi accorsi che c'era una capanna di legno appena fuori del sentiero, alla mia destra, e poi notai un edificio di legno molto ampio, un po' più lontano alla mia sinistra; e da qualche luogo invisibile veniva un delizioso odore di pesce fresco che veniva arrostito.
Proseguii lentamente per il sentiero, provando un certo disagio. Non sapevo quali fossero i sentimenti degli Handdarata per i turisti. Sapevo ben poco su di loro, in realtà. L'Handdara è una religione senza istituzione, senza sacerdoti, senza gerarchia, senza voti, senza credo; ancor oggi non sono in grado di dire se essa abbia un Dio oppure no. È sfuggente. Elusiva. È sempre altrove. La sua unica manifestazione fissa è data dalle Fortezze, ritiri ove la gente può ritirarsi a trascorrere la notte o la vita intera. Io non avrei cercato questo culto così singolarmente intangibile fin nei suoi luoghi segreti, non l'avrei certo fatto, se non avessi voluto rispondere alla domanda lasciata irrisolta dagli Investigatori: Che cosa sono i Profeti, e cosa fanno in realtà?
Ormai mi trovavo in Karhide da più tempo di quanto non vi fossero rimasti gli Investigatori, e dubitavo che ci fosse qualcosa di vero nelle storie dei Profeti e delle loro profezie. Leggende di predizione sono comuni, per tutta la grande Casa dell'Uomo, in tutto l'universo stellato. Gli dei parlano, gli spiriti parlano, i computers parlano. L'ambiguità dell'oracolo o la probabilità statistica offrono degli appigli, e le discrepanze vengono cancellate dalla Fede. Comunque, valeva la pena d'investigare sulle leggende. Non ero ancora riuscito a convincere un solo karhidiano dell'esistenza della comunicazione telepatica; non vi avrebbero creduto senza «vederla»: la mia stessa, precisa posizione, nei confronti dei Profeti dell'Handdara.
Mentre camminavo per il sentiero, mi resi conto che un intero villaggio, o città, era disseminato intorno, all'ombra della foresta inerpicata sul pendio, tutto in maniera disordinata, casuale com'era Rer, ma intimo, pacifico, rurale. Su ogni tetto e su ogni sentiero erano sospesi i rami degli hemmen, l'albero più comune di Inverno, una robusta, tozza conifera dagli aghi fitti, spessi, color rosso pallido. Pigne di hemmen sporcavano i sentieri dalle molte diramazioni, il vento aveva un profumo intenso di resina d'hemmen, e tutte le case erano costruite con il legno scuro di hemmen. Mi fermai alla fine, domandandomi a quale porta avrei dovuto bussare, quando una persona uscì dal folto degli alberi, con passo tranquillo, e mi salutò cortesemente.
— State cercando una dimora? — domandò.
— Sono venuto con una domanda per i Profeti. — Avevo deciso di lasciarmi considerare da loro, almeno all'inizio, un semplice karhidiano. Come gli Investigatori, io non avevo avuto mai alcuna difficoltà nel farmi passare per un nativo, se così volevo; tra tutti i dialetti karhidi, il mio accento non veniva notato, e le mie anomalie sessuali erano nascoste dai pesanti indumenti che indossavo. Mancavo della capigliatura folta e finissima e dell'inclinazione degli occhi, un po' diagonali rispetto al resto del viso, che erano le caratteristiche del tipico getheniano, ed ero più scuro e più alto della maggior parte dei nativi, ma non oltre la portata delle normali variazioni di una razza. La mia barba era stata depilata permanentemente prima della mia partenza da Ollul (allora ancora non sapevamo delle tribù «pelose» di Perunter, che sono non soltanto barbute, ma pelose in tutto il corpo, come i Terrestri Bianchi). Di quando in quando, mi veniva chiesto come avessi potuto rompermi il naso. Io ho un naso piatto; i nasi getheniani sono prominenti e sottili, con narici sottili, perfettamente adattati a respirare dell'aria gelida, a temperatura quasi sempre sotto lo zero. La persona sul sentiero di Otherhord guardò il mio naso con blanda curiosità, e rispose:
— Allora forse vorrete parlare al Tessitore? Si trova giù nella radura, ora, a meno che non sia uscito con la slitta. O preferireste parlare prima a uno dei Celibi?
— Non saprei, non sono sicuro. Sono straordinariamente ignorante…
Il giovane rise e s'inchinò.
— Io sono onorato! — disse. — Vivo qui da tre anni, ma ancora non ho acquistato una sufficiente ignoranza da renderla degna di menzione. — Era molto divertito, ma i suoi modi erano gentili, e io riuscii a ricordare abbastanza frammenti di costumi Handdara da rendermi conto di essermi vantato proprio come se mi fossi presentato a lui e gli avessi detto: Sono straordinariamente bello…
— Volevo dire che io non so nulla sui Profeti…
— Invidiabile! — disse il giovane Abitante. — Vedete, noi dobbiamo macchinare la neve con le impronte dei nostri piedi, per andare in qualsiasi luogo. Posso mostrarvi la strada per la radura? Il mio nome è Goss.
Era un primo nome. — Genry — dissi, abbandonando la mia «elle». Seguii Goss più oltre, nell'ombra fredda della foresta. Lo stretto sentiero cambiò direzione spesso, sviluppandosi sinuoso su per il pendio e giù di nuovo; qua e là, vicino a esso o più lontano, tra i tronchi massicci degli hemmen, sorgevano le piccole case color della foresta. Tutto era rosso e bruno, umido, quieto e immobile, fragrante, oscuro. Da una delle case usciva la debole dolcezza melodiosa di un flauto karhidi. Goss andava rapido, con passo leggero, aggraziato come quello di una fanciulla, pochi metri davanti a me. E improvvisamente la sua camicia bianca parve lampeggiare, e io uscii dall'ombra dietro di lui, e mi trovai nella piena luce del sole di un ampio prato verde.
A pochi metri da noi era in piedi una figura, diritta, immobile, di profilo, lo hieb scarlatto e la camicia bianca come un disegno di smalto luminoso sullo sfondo verde dell'erba alta. A cento metri da lui si trovava un'altra statua, in blu e bianco; questa non si mosse né guardò dalla nostra parte, per tutto il tempo in cui parlammo con la prima. Stavano praticando la disciplina Handdara della Presenza, che è una specie di trance… gli Handdarata, abituati al negativo, lo chiamano un nontrance… che comprende una perdita di sé (un accrescimento di sé?) attraverso un'estrema ricettività dei sensi, e un'acuta percezione. Benché la tecnica sia l'esatto apposto di quasi tutte le tecniche del misticismo, probabilmente si tratta di una disciplina mistica, tesa verso l'esperienza dell'Immanenza; ma non posso catalogare con certezza nessuna delle pratiche degli Handdarata. Goss parlò alla persona in scarlatto. Quando costui uscì dalla sua intensa immobilità, e ci guardò, e venne lentamente verso di noi, io provai rispetto verso di lui, una specie di reverenza. Nella luce del sole meridiano, egli brillava di luce propria.
Era alto quanto me, e snello, con un viso limpido, aperto, e bello. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, fui improvvisamente mosso a rivelarmi, a cercare di raggiungerlo con il linguaggio della mente che non avevo mai usato da quando ero disceso su Inverno, e che non avrei dovuto ancora usare. L'impulso fu più forte della riflessione. Lo chiamai con la mente. Non ci fu risposta. Non fu stabilito alcun contatto. Luì continuò a fissarmi direttamente. Dopo un momento sorrise e disse, con una voce gentile, e un po' alta:
— Voi siete l'Inviato, vero?
Balbettai la risposta:
— Sì.
— Il mio nome è Faxe. Siamo onorati di ricevervi. Resterete un poco con noi, qui a Otherhord?
— Volentieri. Cerco di imparare qualcosa, sulla vostra arte della Profezia. E se c'è qualcosa, qualsiasi cosa che io possa dirvi, in cambio, su ciò che io sono, sul luogo dal quale vengo…
— Quello che volete — disse Faxe, con un sorriso sereno. — Questa è una cosa piacevole, e lusinghiera, il fatto che voi abbiate attraversato l'Oceano dello Spazio, e poi abbiate aggiunto altri mille e più chilometri, e un attraversamento del Kargav, al vostro viaggio, per venire da noi, qui.
— Volevo venire ad Otherhord, avendo udito la fama delle sue profezie.
— Allora, forse, vorrete osservarci durante una profezia. O avete una vostra domanda?
I suoi occhi chiari costringevano la verità a uscire da me.
— Non lo so — dissi.
— Nusuth - disse lui. — Non importa. Forse, se resterete un poco, scoprirete voi stesso se avete una domanda, o nessuna domanda… Ci sono solo certe occasioni, sapete, nelle quali i Profeti possono riunirsi, così in ogni caso potrete abitare con noi per qualche giorno.
Lo feci, e furono giorni piacevoli. Il tempo era disorganizzato, a eccezione del lavoro comune, il lavoro nei campi, il giardinaggio, il taglio dei rami, la manutenzione, lavori per i quali gli ospiti di passaggio come me venivano chiamati a collaborare da quel gruppo che aveva più bisogno di una mano. A parte il lavoro, un giorno intero poteva passare senza che fosse pronunciata una parola; coloro ai quali parlai più spesso furono il giovane Goss, e Faxe il Tessitore, il cui carattere straordinario, limpido e insondabile come un pozzo di acqua chiarissima, era la quintessenza del carattere del luogo. Alla sera poteva esserci una riunione nella sala del focolare di una o di un'altra delle basse case circondate dagli alberi; allora c'era conversazione, e birra, e poteva esserci della musica, la vigorosa musica di Karhide, semplice di melodia ma complessa di ritmo, la cui esecuzione era sempre estemporanea. Una notte due Abitanti ballarono, uomini così vecchi che i loro capelli erano già diventati bianchi, e le braccia e le gambe erano come rinsecchite, e le borse cascanti, agli angoli degli occhi, erano quasi cortine che nascondevano per metà i loro sguardi. Ma la loro danza era lenta, precisa, controllata; affascinava l'occhio e la mente. Cominciarono a danzare durante la Terza Ora, dopo la colazione. Alla danza si unirono dei musici, che partecipavano e interrompevano e venivano e se ne andavano a piacimento, dandosi il cambio, tutti, meno il suonatore di tamburo che non interruppe mai il suo battito dai mutamenti sottili. I due vecchi ballerini stavano ancora danzando alla Sesta Ora, mezzanotte, dopo cinque ore terrestri. Questa fu la prima volta nella quale fui testimone del fenomeno chiamato dothe… l'uso volontario e controllato di ciò che noi chiamiamo «forza isterica»… e da allora fui pronto a credere le storie che riguardavano i Vecchi dell'Handdara.
Era una vita introversa, autosufficiente, stagnante, che saliva la barriera di quella singolare «ignoranza» che gli Handdarata consideravano così importante, e obbediente alle loro regole d'inattività o di non ingerenza. Quella regola (espressa dalla parola nusuth, che io devo tradurre «non conta», «non ha importanza») è il cuore del culto, e non pretenderò certo di comprenderla. Ma io cominciai a comprendere meglio Karhide, dopo un mezzo-mese trascorso a Otherhord. Sotto la politica e le parate e le passioni della nazione scorre un'oscurità antica, passiva, anarchica, silenziosa, le «tenebre feconde» dell'Handdara.
E da quel silenzio e da quelle tenebre si leva inesplicabilmente la voce del Profeta.
Il giovane Goss, che amava comportarsi come la mia guida, mi spiegò che la mia domanda ai Profeti poteva riguardare qualsiasi cosa, ed essere formulata nella maniera che io preferivo.
— Più la domanda è qualificata e limitata, più esatta è la risposta — mi disse. — Le cose vaghe alimentano altre cose vaghe. E a certe domande, naturalmente, non si può rispondere.
— E se io ponessi una di queste? — volli sapere. Queste limitazioni non mi parevano eleganti, ma familiari.
Non mi aspettavo però la sua risposta.
— Il Tessitore la rifiuterà. Domande alle quali non si può rispondere hanno già distrutto dei gruppi di Profezia.
— Distrutto?
— Conoscete la storia del Lord di Shorth, che costrinse i Profeti della Fortezza di Asen a rispondere alla domanda: Qual è il significato della vita? Ebbene, questo è accaduto più di duemila anni fa. I Profeti rimasero nelle tenebre per sei giorni e sei notti. Alla fine, tutti i Celibi erano in coma, i Pazzi erano morti, il Pervertito con una pietra ha colpito a morte il Lord di Shorth, e il Tessitore… Egli era un uomo di nome Meshe.
— Il fondatore del culto di Yomesh?
— Sì — disse Goss, e rise, come se la storia fosse stata molto buffa, ma non sapevo se l'oggetto del divertimento fossero gli Yomeshta o fossi io.
Avevo deciso di porre una domanda alla quale si potesse rispondere solo con un sì o con un no, la qual cosa mi avrebbe permesso almeno di chiarire l'entità e il genere di oscurità o ambiguità della risposta. Faxe confermò quel che Goss aveva detto, che l'argomento della domanda poteva essere un argomento del quale i Profeti erano perfettamente ignoranti. Avrei potuto chiedere se quest'anno il raccolto degli hoolm sarebbe stato buono, nell'emisfero settentrionale di S, e mi avrebbero risposto, pur non avendo saputo nulla, in precedenza, neppure dell'esistenza di un pianeta chiamato S. Questo sembrava porre la faccenda sul piano della pura divinazione casuale, come il tirare in aria una moneta o scegliere la paglia più lunga. No, disse Faxe, niente affatto, la sorte non c'entrava affatto. L'intero processo era in realtà esattamente l'opposto del caso.