Il mondo di Rocannon - Le guin Ursula Kroeber 10 стр.


Acciuffò un ragazzetto e lo trascinò alla luce del fuoco che rimbalzava senza posa, costringendolo ad aggiungere legna alla pira.

— Non c'è niente da mangiare? — scherzò. — Portate cibo, voi donne! Hai visto la nostra ospitalità, Olhor, hai visto come si mangia da noi? — Afferrò un trancio di carne dal tagliere che una donna si era affrettata a offrirgli, e si fermò davanti a Rocannon, addentando con ostentazione il pezzo d'arrosto e lasciando che il sugo gli scivolasse sulla barba. Un paio di bravacci si affrettarono a imitarlo, un passo dietro di lui.

La maggior parte dei presenti, però, si teneva alla larga dalla zona dove era legato Rocannon; Zgama li incitò ad avvicinarsi al fuoco quanto bastava per aggiungere un pezzo alla pira dove era fermo l'uomo calmo e taciturno, mentre le fiamme guizzavano sulla pelle arrossata, stranamente luccicante.

Il rumore e il fuoco si spensero, infine. Uomini e donne si addormentarono raggomitolati nei loro stracci di pelli: sul pavimento, negli angoli, sulle ceneri ancora calde. Un paio di uomini vegliava, con la spada sulle ginocchia e un fiasco a portata di mano.

Rocannon chiuse gli occhi. Incrociando due dita, aprì la tuta in corrispondenza della testa e poté di nuovo respirare aria fresca. La lunga notte si trascinò lentamente; tra molti indugi, anche il cielo si rischiarò alla luce dell'alba. Nella luce grigia del giorno, attraverso la nebbia che si insinuava nelle finestre, giunse Zgama, scivolando sulle macchie di unto e inciampando in corpi che russavano. Osservò il prigioniero: il suo sguardo era fermo e severo, quello dell'uomo che lo teneva legato al palo era carico di inutile minaccia. — Brucia, brucia — brontolò Zgama, e uscì.

Dall'esterno del rustico castello giunse a Rocannon il sommesso tubare degli herilor, i grassi e piumosi animali domestici da carne degli Angyar, che avevano le ali tarpate e che laggiù, probabilmente, venivano condotti al pascolo sulle scogliere. La stanza si svuotò: rimasero soltanto alcuni bambini in fasce e alcune donne, che si tennero a buona distanza da lui anche quando giunse l'ora di arrostire la carne per il pasto serale.

Rocannon era legato da una trentina di ore, e soffriva sia per il dolore, sia per la sete. Era appunto quello, il suo punto debole: la sete. Avrebbe potuto rimanere digiuno per vari giorni, e per altrettanto tempo avrebbe potuto rimanere legato, anche se già si sentiva girare la testa. Ma senza acqua non avrebbe potuto resistere per più di un altro di quei lunghi giorni.

Inerme come era, qualsiasi cosa avesse detto a Zgama, minacce o ricatti, si sarebbe limitata, semplicemente, ad accrescere l'ostinazione del barbaro.

Quella notte, mentre il fuoco danzava davanti ai suoi occhi ed egli scorgeva al di là delle fiamme la grossa faccia, bianca e barbuta, di Zgama, continuò a vedere con l'occhio della mente una faccia diversa, con i capelli biondi e la pelle scura: Mogien, che egli era giunto ad amare come amico, e anche un po' come figlio. Mentre la notte e il fuoco continuavano interminabili, pensò al piccolo Kyo, il Fian, dall'aspetto infantile e dall'espressione insondabile, legato a lui in modi ch'egli non tentava neppure di comprendere; rivide Yahan che cantava le gesta degli eroi; Iot e Raho che brontolavano e ridevano insieme mentre si prendevano cura dei grifoni dalle lunghe ali; Haldre che si sfilava dal collo la collana d'oro.

Non gli ritornò alla mente alcun ricordo della sua vita precedente, anche se era vissuto per molti anni, su molti pianeti, aveva imparato molto, fatto molte cose. Tutte le sue precedenti esperienze erano state cancellate, erano state bruciate via. Gli sembrò di essere ritornato a Hallan, nella lunga sala dove erano appesi gli arazzi che mostravano le lotte tra uomini e giganti alati, con Yahan che gli offriva una tazza d'acqua: — Bevi, Signore delle Stelle, bevi.

Ed egli bevve.

CAPITOLO QUINTO

Feni e Feli, le due lune più grandi, danzarono riflesse sulla superficie del liquido, quando Yahan gli portò una seconda tazza d'acqua da bere. Nel focolare ormai ardevano soltanto poche braci. La sala era buia, con l'eccezione di qualche macchia e di qualche raggio di luce lunare, e gli unici rumori che si udivano erano il respiro e i movimenti delle numerose persone che dormivano.

Quando Yahan sciolse cautamente le catene, Rocannon dovette appoggiare tutto il suo peso contro il palo, perché aveva le gambe intorpidite e non era in grado di reggersi in piedi senza sostegno.

— La porta esterna e sorvegliata tutta la notte — Yahan gli bisbigliò all'orecchio, — e le guardie non dormono. Domani, quando porteranno al pascolo le bestie…

— Domani sera. Non sono in grado di correre. Dovrò ricorrere a un bluff. Aggancia le catene tra loro, Yahan, in modo che reggano il mio peso. E metti il gancio qui in basso, accanto alla mia mano. — Uno dei dormienti si rizzò a sedere, sbadigliando; con un sogghigno che balenò per un istante nella luce lunare, Yahan si stese immediatamente a terra e parve svanire fra le ombre.

Rocannon lo vide uscire all'alba, insieme con gli altri, per condurre al pascolo gli herilor: anch'egli indossava una pelle d'animale sporca di fango, e i suoi capelli neri spuntavano fuori come una scopa. Di nuovo Zgama gli si avvicinò e lo guardò torvo. Rocannon era certo che sarebbe stato disposto a dare di buon grado metà delle sue greggi e delle sue mogli per sbarazzarsi di quel prigioniero sovrannaturale, ma era intrappolato dalla sua stessa ferocia: il carceriere è il prigioniero del prigioniero.

Zgama aveva passato la notte dormendo sulle ceneri calde, e aveva i capelli sporchi di cenere grigia, cosicché sembrava lui, l'uomo bruciato, e non Rocannon, la cui pelle nuda splendeva chiara. Uscì a grandi passi, e di nuovo la sala fu vuota per buona parte della giornata, anche se rimase un paio di guardie alla porta. Rocannon passò il tempo facendo esercizi isometrici di ginnastica, senza farsi notare. Quando una donna che passava davanti a lui lo sorprese mentre si stirava, continuò a stirarsi come se niente fosse, ondeggiando ed emettendo una bassa, arcana cantilena. La donna cadde a terra carponi e scappò via, piagnucolando.

Dalle finestre entrò la nebbia del crepuscolo, alcune donne accigliate fecero bollire una pignatta di carne e alghe marine, dall'esterno giunse il tubare di centinaia di animali, e Zgama e i suoi uomini fecero ritorno, con la barba e le pellicce luccicanti di goccioline di condensazione della nebbia. Sedettero sul pavimento per mangiare. La stanza era chiassosa, puzzava ed era satura di vapore. La tensione di ritrovarsi ogni notte davanti a un evento sovrannaturale cominciava a trasparire: le facce erano torve, le voci erano irascibili.

— Portate legna, questa volta lo faremo arrostire! — urlò Zgama, alzandosi per buttare sulla pira un ciocco acceso. Ma nessuno si mosse.

— Ti mangerò il cuore, Olhor, quando lo vedrò friggere tra le tue costole! Mi appenderò al naso la tua pietra azzurra! — Zgama schiumava di rabbia, reso frenetico dallo sguardo fisso e silenzioso che sopportava ormai da due notti. — Ti farò chiudere gli occhi! — urlò, e afferrato un pesante bastone che giaceva sul pavimento, lo calò con forza sulla testa di Rocannon, balzando però indietro nello stesso momento, come se avesse avuto paura del proprio gesto. Il bastone cadde fra i ceppi ardenti e rimase in bilico sopra il resto della legna.

Lentamente, Rocannon abbassò la mano destra, strinse il bastone e lo estrasse dal fuoco. La punta era già in fiamme. La sollevò finché non raggiunse il livello degli occhi di Zgama, e solo allora, con altrettanta lentezza, fece un passo avanti. Le catene che lo tenevano legato si sciolsero e caddero a terra. Il fuoco divampò e si aprì, in una pioggia di braci e di faville, intorno ai suoi piedi nudi.

— Fuori! — disse, dirigendosi verso Zgama, che indietreggiò prima di un passo e poi di un altro. — Tu non sci più il padrone. L'uomo senza legge è schiavo, l'uomo crudele è schiavo, lo stupido è schiavo. Tu sei mio schiavo, e io ti caccio via come una bestia. Fuori! — Zgama si afferrò ai due stipiti della porta, ma il bastone fiammeggiante puntava contro i suoi occhi: dovette uscire nel cortile. Le guardie, accovacciate a terra, non facevano una sola mossa. La nebbia era rischiarata da alcune torce di resina che splendevano presso la porta principale; gli unici rumori erano il mormorio degli animali nella stalla e il sibilo della risacca che giungeva dal basso. Un passo dopo l'altro, Zgama indietreggiò fino a raggiungere la porta con le due torce. La sua faccia bianca e nera aveva la fissità di una maschera, mentre il bastone rovente si avvicinava. Muto per la paura, si afferrò al tronco che faceva da pilastro alla porta, e bloccò il passaggio con il suo corpo massiccio. Rocannon, esausto e vendicativo, premette forte contro il suo petto la punta fiammeggiante, spinse Zgama a terra, e, camminando sul suo corpo, uscì nell'oscurità e nella nebbia, fuori della porta. Fece circa cinquanta passi nel buio: poi inciampò, e non riuscì a rialzarsi.

Nessuno lo inseguì. Nessuno uscì dal recinto dietro di lui. Rimase sdraiato sull'erba che copriva la duna, in stato di semicoscienza. Molto tempo più tardi le torce della porta si spensero o vennero spente; restò solo il buio. Il vento che soffiava tra l'erba aveva molte voci, e dal basso sibilava il mare.

Quando la nebbia si diradò, lasciando filtrare la luce delle lune, Yahan lo trovò laggiù, vicino all'orlo della scogliera. Con il suo aiuto, Rocannon si alzò in piedi e riprese il cammino. Procedendo a tastoni, inciampando, strisciando sulle mani e sulle ginocchia dove il percorso era accidentato e indistinguibile a causa del buio, si mossero verso sudest, allontanandosi dalla costa. Si fermarono un paio di volte per prendere fiato e per orientarsi, e Rocannon cadde addormentato quasi nello stesso momento in cui si fermarono. Yahan lo svegliò e lo costrinse a camminare, finché, poco prima dell'alba, scesero in una valle riparata da una foresta scoscesa.

Nell'oscurità nebbiosa, il regno degli alberi era nero come la pece. Yahan e Rocannon vi entrarono seguendo il letto di un torrente, ma non andarono lontano.

Rocannon si fermò e disse, nella sua lingua: — Non ce la faccio più. — Yahan trovò una striscia di sabbia sotto l'argine: laggiù si sarebbero potuti nascondere, almeno rispetto a chi guardasse dall'alto; Rocannon vi entrò strisciando, come un animale che ritornasse alla tana, e dormì.

Quando si svegliò, al tramonto, quindici ore più tardi, scorse Yahan, con una piccola raccolta di germogli verdi e di radici commestibili. — È ancora troppo presto, nell'annocaldo, per trovare frutti — spiegò, lamentandosi, — e quegli zotici del Castello degli Zotici mi hanno preso l'arco. Ho messo alcune trappole, ma prima di notte non prenderò nulla.

Rocannon consumò con avidità i vegetali, e dopo essersi dissetato al torrente ed essersi sciolto i muscoli, riuscì nuovamente a ragionare. Chiese: — Yahan, come hai fatto a trovarti laggiù, al… Castello degli Zotici?

Il giovane plebeo abbassò lo sguardo e, con il piede, seppellì accuratamente nella sabbia qualche cima di radice immangiabile. — Ecco, Signore, sai che io ho… disobbedito al mio Signore Mogien. Perciò, in seguito, ho pensato che mi sarei potuto unire ai Senza Padrone.

— Perché, avevi già sentito parlare della loro esistenza?

— Da noi, a casa, si parla di luoghi dove gli Olgyior sono i padroni e i servi. Si dice anche che, nei tempi antichi, nell'Angien ci fossimo soltanto noi plebei: eravamo cacciatori e abitavamo nelle foreste; poi vennero dal sud, sulle navi-drago, gli Angyar…

«Comunque, ho trovato il forte, e gli uomini di Zgama hanno pensato che fossi fuggito da qualche località lungo la costa. Mi hanno tolto l'arco e mi hanno messo al lavoro, e nessuno mi ha fatto domande. È stato così che ti ho trovato. Ma sarei fuggito in qualsiasi caso, anche se non avessi trovato te. Tra zoticoni come quelli, non ci resterei un minuto di più, neanche se mi facessero loro capo!

— E sai dove siano i nostri compagni?

— No. Intendi andare a cercarli, Signore?

— Chiamami per nome, Yahan. Sì, anche se la possibilità di trovarli fosse minima, li cercherei lo stesso. Non possiamo attraversare da soli un continente, a piedi, senza vestiti e senza armi.

Yahan non disse nulla; per qualche tempo continuò a lisciare la sabbia con il piede, a fissare il ruscello che scorreva nell'ombra, cristallino, sotto i pesanti rami di conifera.

— Non sei d'accordo? — fece Rocannon, infine.

— Se il mio Signore Mogien mi troverà, mi ucciderà. È suo diritto.

Secondo il codice Angyar era la verità; e se c'era una persona che non avrebbe mai infranto il codice, quella era Mogien.

— Se tu trovassi un nuovo padrone, quello vecchio non potrebbe più toccarti: è vero, Yahan?

Il ragazzo assentì. — Ma un servo ribelle non trova padroni.

— Dipende. Impegnati a servirmi, e io risponderò di te a Mogien… ammesso che lo troviamo. Non conosco la formula che usate…

— Noi diciamo — cominciò Yahan, parlando a voce molto bassa, — dono al mio Signore le ore delia mia vita e l'uso della mia morte.

— E io le accetto. E con esse anche la vita che tu mi hai ridato.

Il ruscello scorreva rumoreggiando dal fianco della montagna, e il cielo si era oscurato. Qualche tempo più tardi, Rocannon si tolse la tuta e si distese nell'acqua fredda, perché l'acqua, scorrendo lungo tutto il corpo, portasse via il sudore, la stanchezza, la paura e l'immagine delle fiamme che gli sfioravano gli occhi.

Una volta sfilata, la tuta era una manciata di tessuto trasparente e di tubi e di fili quasi invisibili, sottili come capelli, con due cubi traslucidi grossi come un'unghia. Yahan, a disagio, osservò Rocannon che si rimetteva la tuta (non aveva abiti, e Yahan era stato costretto a scambiare con un paio di pelli di herilor, sudice, le sue vesti Angyar).

— Signore Olhor — disse infine, — è stata quella pelle, che non ha permesso al fuoco di bruciarti? O è stato… il gioiello?

Adesso la collana era nascosta nel sacchetto degli amuleti di Yahan, intorno al collo di Rocannon. Rocannon rispose gentilmente: — La pelle. Non ci sono incantesimi. Si tratta solo di una corazza molto robusta.

— E il bastone bianco?

Rocannon abbassò gli occhi sul bastone, lo stesso che aveva raccolto sulla spiaggia, con l'unica differenza che adesso una delle estremità era carbonizzata. Yahan l'aveva trovato la notte prima, tra l'erba della scogliera, e lo aveva portato con sé, esattamente come avevano fatto in precedenza gli uomini di Zgama, i quali l'avevano portato al forte insieme con Rocannon; parevano convinti che dovesse tenerselo: che cos'era un mago senza la sua bacchetta?

— Be' — rispose, — è un buon bastone, se c'è da camminare. — Si distese nuovamente, e per mancanza di un pasto prima del sonno, si dissetò ancora con l'acqua del ruscello scuro, freddo e rumoroso.

Il mattino seguente, quando si svegliò, sul tardi, si era ristabilito ed era affamato. Yahan si era allontanato all'alba, sia per controllare le trappole sia perché aveva troppo freddo per rimaner e ancora a lungo in quell'umida tana. Quando fece ritorno aveva soltanto una manciata di erbe, e recava una cattiva notizia. Era salito fino alla cresta della montagna (si trovavano ancora sul versante rivolto verso il nord) e da lassù aveva visto che a sud si stendeva un altro largo braccio di mare.

— Quei maledetti mangiapesci di Tolen ci hanno lasciato su un'isola? — brontolò. Il suo solito ottimismo era messo a dura prova dal freddo, dalla fame e dal dubbio.

Rocannon cercò di ricordare com'era tracciata la costa nelle sue carte geografiche scomparse in mare. Un fiume che giungeva dall'ovest sfociava a settentrione di una lunga lingua di terra, la quale a sua volta faceva parte di una lunga catena montuosa parallela alla costa, che correva da ovest a est; tra la lingua di terra e la massa principale del continente si stendeva un braccio di mare abbastanza lungo e ampio, chiaramente delineato sulla cartina e nella memoria di Rocannon. Quanto poteva essere lungo? Cento, duecento chilometri?

— Quant'è largo? — domandò a Yahan.

Il giovane gli rispose tristemente: — Molto largo. Io non so nuotare, Signore.

— Possiamo camminare. Questo promontorio si unisce alla terraferma, a ovest. Probabilmente troveremo Mogien lungo la strada: ci starà aspettando. — Spettava a lui dare gli ordini (Yahan aveva già fatto la sua parte), ma aveva un tuffo al cuore quando pensava al lungo tragitto in un territorio sconosciuto e ostile. Yahan non aveva incontrato anima viva, ma aveva scorto sentieri tracciati, e in quei boschi doveva esserci qualche abitante, visto che la selvaggina era così scarsa e timorosa.

Ma per avere qualche possibilità di trovare Mogien (ammesso che Mogien fosse vivo, che fosse libero, e che avesse ancora i destrieri) si sarebbero dovuti dirigere verso sud, perché laggiù si trovava il loro obbiettivo. — Andiamo — disse Rocannon. e si avviarono.

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