Arthur C. Clarke
(The songs of distant Earth, 1986)
Traduzione di Marco e Dida Paggi
A Tamara e Cherene, Valerie e Hector — per amore e lealtà.
In nessun luogo in tutto lo spazio o su mille mondi vi saranno uomini che possano condividere la nostra solitudine. Vi sarà forse sapienza; vi sarà potere; chissà dove nello spazio… grandi strumenti sono forse puntati sulla nube fluttuante della nostra desolazione, e chi li ha costruiti si consuma di desiderio quanto noi. Tuttavia, noi abbiamo trovato la nostra risposta nella natura della vita e nei principi dell’evoluzione. Mai vi saranno in altri luoghi, mai, altri uomini…
LOREN EISELEY, The Immense Journey (1957)
Ho scritto un libro maledetto, e mi sento innocente come l’agnello.
Melville a Hawthorne (1851)
Nota dell’autore
Questo romanzo si fonda su un’idea nata quasi trent’anni fa con un racconto che ha lo stesso titolo (e che ora si può trovare nella mia antologia The Other Side of the Sky). Tuttavia, la versione originaria era direttamente — e negativamente — ispirata alla space-opera che allora invadeva gli schermi cinematografici e televisivi. (Domanda: come si chiama l’opposto dell’ispirazione? Espirazione?) Intendiamoci: ho molto apprezzato le cose migliori di Star Trek e l’epicità di Lucas e di Spielberg, per citare solo gli esempi più famosi. Si tratta però più di fantasy che di fantascienza vera e propria. Possiamo dirci ormai quasi del tutto certi che nell’universo a noi noto non è possibile superare la velocità della luce. Anche il sistema stellare più vicino sarà sempre distante parecchi decenni se non secoli; non esiste un motore a iperpropulsione che ci possa portare da un episodio all’altro in tempo per la puntata della settimana successiva. Non è così che il grande Regista lassù nel cielo ha organizzato la sua programmazione.
Da dieci anni a questa parte è mutato in modo significativo, e sorprendente, l’atteggiamento degli scienziati verso la questione dell’intelligenza extraterrestre. Solo negli anni Sessanta l’argomento ha assunto una sua rispettabilità (tranne che presso certi tipi sospetti, ad esempio gli scrittori di fantascienza): l’opera fondamentale a questo proposito è Intelligent Life in the Universe (1966), di Shklovskii e Sagan.
Ma ora abbiamo fatto un passo indietro. Non abbiamo rintracciato alcun segno di vita nel Sistema Solare, né i grandi radiotelescopi hanno captato alcun segnale; e alcuni scienziati hanno cominciato a dire: «Forse siamo davvero soli nell’universo…». Il dottor Frank Tipler, che è forse l’esponente più noto di questa scuola di pensiero, è entrato in polemica (senza dubbio deliberatamente) con i seguaci di Sagan dando a uno dei suoi scritti questo titolo provocatorio: «Non Esistono Extraterrestri Intelligenti». Carl Sagan e altri sostengono (e io mi dichiaro d’accordo con loro) che è di gran lunga troppo presto per saltare a conclusioni così estreme.
Nel frattempo, la polemica infuria; come qualcuno ha detto, entrambe le risposte incutono un reverenziale timore. La disputa potrà essere risolta solo portando delle prove; l’uso della logica, ancorché plausibile, da solo non basta. Vorrei riprendere il dibattito tra dieci o vent’anni, lasciando ai radioastronomi, simili a cercatori d’oro che setacciano la sabbia, il tempo di vagliare tra gli infiniti rumori che ci vengono dal cielo.
Con questo romanzo ho cercato, tra le altre cose, di creare un’opera narrativa realistica sul tema interstellare, così come in Preludio allo spazio (1951) ricorsi a tecnologie note o prevedibili per descrivere il primo viaggio compiuto dagli uomini fuori dalla Terra. Nulla vi è in questo libro che contesti o neghi i principi della fisica che conosciamo; l’unica estrapolazione azzardata è il «motore quantico», la cui paternità è comunque del tutto rispettabile (si veda Fonti e Ringraziamenti). Dovesse invece rivelarsi il sogno di un visionario, rimangono comunque diverse possibilità alternative; e se riuscissimo a immaginarle perfino noi, primitivi del ventesimo secolo, senza dubbio la scienza del futuro scoprirà qualcosa di meglio.
ARTHUR C. CLARKE Colombo, Sri Lanka, 3 luglio 1985
I. THALASSA
1. La spiaggia di Tarna
Mirissa aveva capito che Brant era arrabbiato quando la barca non era ancora uscita dalla risacca. Già la tensione del corpo mentre stava al timone — e anche il fatto stesso che non avesse ceduto la barra per quell’ultimo tratto all’abile Kumar — stavano a dimostrare che era successo qualcosa.
Mirissa uscì da sotto l’ombra delle palme e s’avviò lenta lungo la spiaggia, i piedi che sprofondavano nella sabbia umida. Kumar stava già ammainando la vela. Il «fratellino» di Mirissa, alto ormai quasi quanto lei e parecchio muscoloso, la salutò agitando un braccio. Quante volte lei aveva desiderato che Brant avesse il buon carattere di Kumar, che nulla era capace di scuotere…
Brant non aspettò che la barca s’incagliasse nella sabbia, ma saltò in acqua e, immerso fino al petto, venne a riva sguazzando furibondo. Le mostrò un contorto pezzo di metallo circondato da spezzoni di filo di ferro.
«Guarda!» vociò. «L’hanno fatto un’altra volta!»
Indicò con la mano libera verso nord.
«Questa volta… Questa volta non se la cavano così! E che il sindaco dica quel che diavolo le pare!»
Mirissa si scostò mentre il piccolo catamarano, simile a un pesce primordiale che uscisse per la prima volta sulla terraferma, avanzava lento sulla spiaggia scivolando sopra i rulli. Kumar spense il motore e saltò a terra accanto all’irato Brant.
«Io continuo a ripetergli che dev’essere stato un incidente» disse il giovane. «Forse un’àncora perduta. In fin dei conti, perché quelli dell’Isola Settentrionale dovrebbero fare una cosa simile?»
«Te lo dico io il perché» ribatté Brant. «Perché sono troppo pigri per farsi da sé la tecnologia. Perché hanno paura che noi prendiamo troppi pesci. Perché…»
Vide il sorriso di Kumar e gli gettò contro l’intrico di filo di ferro.
L’altro lo prese al volo.
«Comunque, anche se fosse davvero un incidente, loro non devono gettare l’àncora qui. È zona chiusa, e sulle carte è scritto a chiare lettere VIETATO L’ACCESSO — AREA CHIUSA PER RICERCHE. Quindi bisognerà che protesti ufficialmente.»
Brant s’era già calmato; i suoi eccessi d’ira, anche i peggiori, raramente duravano più di qualche minuto. Per tenerlo dell’umore giusto, Mirissa gli passò lieve le dita lungo la schiena e gli chiese con voce dolce: «Hai preso qualche bel pesce?».
«Naturalmente no» rispose Kumar. «A lui interessano solo le statistiche: chilogrammi per chilowatt, questo genere di cose. Per fortuna avevo portato la mia canna da pesca. Questa sera si mangia tonno.»
Scaricò dalla barca un pesce lungo quasi un metro: un animale affusolato e forte, i cui bei colori stavano rapidamente sbiadendo, gli occhi spenti già appannati dalla morte.
«Non se ne vedono spesso di pesci così» disse con orgoglio. Stavano ammirando la sua preda quando la Storia ritornò a Thalassa, e il mondo semplice e spensierato che avevano conosciuto per tutta la loro giovane vita improvvisamente finì.
Il segno dell’arrivo della Storia era scritto nel cielo, quasi che una mano gigantesca avesse tracciato una riga col gesso da un capo all’altro della volta celeste. Sotto i loro occhi la scia scintillante prese a sfrangiarsi ai bordi rompendosi in masse più piccole di vapori, finché un ponte di neve parve collegare un orizzonte all’altro.
E ora un distante rombo di tuono giungeva da lontano. Era un suono che Thalassa non udiva da settecento anni, ma che anche un bambino avrebbe immediatamente riconosciuto.
La sera era calda, ma Mirissa rabbrividì e cercò la mano di Brant. Lui la strinse, ma era assente; continuava a fissare quel cielo lacerato.
Anche Kumar era rimasto impressionato, ma fu il primo a rompere il silenzio. «Una delle colonie ci ha trovato.»
Brant scosse lentamente il capo, ma senza troppa convinzione. «Che vantaggio ne trarrebbero? Avranno le vecchie carte, e quindi sanno che Thalassa non ha quasi terre emerse. Perché venire fin qui?»
«Curiosità scientifica?» suggerì Mirissa. «O per vedere cosa ci è successo. Lo dicevo che avremmo fatto meglio a ristabilire le comunicazioni…»
Era quella una questione controversa che puntualmente saltava fuori ogni qualche decennio. Un giorno o l’altro, dicevano molti, Thalassa avrebbe dovuto ricostruire la grande antenna sull’Isola Orientale che era andata distrutta quando il monte Krakan era entrato in eruzione quattrocento anni prima. Ma nel frattempo c’erano tante cose più importanti, o solo più divertenti, da fare.
«Costruire un’astronave è un’impresa gigantesca» disse pensieroso Brant. «Non credo sia alla portata di una colonia… a meno che non sia questione di vita o di morte. Come per la Terra…»
La sua voce si spense nel silenzio. Dopo tanti secoli, era un nome che ancora costava pronunciare.
Tutti e tre si girarono contemporaneamente verso est, là dove la rapida notte equatoriale stava avanzando sul mare.
Già le stelle più luminose erano visibili, e appena sopra la chioma delle palme brillava inconfondibile la piccola, semplice costellazione del Triangolo. Era composta da tre stelle di magnitudine quasi uguale, ma un tempo s’era accesa, per qualche settimana, una quarta stella molto più vivida delle altre.
Ancora se ne poteva vedere la carcassa consunta con un telescopio di media potenza. Ma non vi era strumento che permettesse di scorgere lo spento tizzone che vi orbitava intorno, il pianeta Terra.
2. Il piccolo neutrino
Un grande storico di mille anni dopo definì il periodo 1901–2000 «il secolo in cui accadde tutto.» Disse anche che gli uomini di quel tempo si sarebbero dichiarati d’accordo con lui, ma per motivi del tutto sbagliati.
Essi avrebbero enumerato, con orgoglio spesso giustificato, le conquiste scientifiche di quell’epoca, la conquista dell’aria, la fissione nucleare, la scoperta dei principi fondamentali della vita, i primi passi dell’intelligenza artificiale e, evento più spettacolare di tutti, l’esplorazione del Sistema Solare e l’atterraggio sulla Luna. Ma, faceva notare lo storico con quella profondità di visione che si può avere solo guardando le cose che sono già avvenute, nemmeno uno su mille di quegli uomini aveva il minimo sentore della scoperta che superava tutte queste conquiste scientifiche minacciando di renderle del tutto insignificanti.
Sembrò in un primo momento un fenomeno tanto innocuo e lontano dagli interessi ordinari dell’umanità quanto lo era sembrato quella confusa lastra fotografica impressionata nel laboratorio di Becquerel che avrebbe portato, solo cinquant’anni più tardi, al fungo di Hiroshima. Era anzi un risultato collaterale di quella stessa linea di ricerca, e altrettanto innocente.
La Natura tiene una contabilità molto rigorosa, e il suo bilancio è sempre in pareggio. Ecco quindi che fu con grande perplessità che i fisici si accorsero di certe reazioni nucleari in cui, dopo aver fatto la somma di tutte le parti risultanti, c’era qualcosa che mancava da un lato dell’equazione.
Come il cassiere che frettolosamente rimette a posto gli spiccioli per non farsi trovare in difetto dai revisori contabili, gli scienziati furono costretti a inventare una nuova particella. E perché desse conto della discrepanza bisognava che fosse una particella ben strana — priva di massa e di carica elettrica, ma con un così fantastico potere di penetrazione da trapassare da parte a parte senza particolari inconvenienti uno strato di piombo spesso alcuni miliardi di chilometri.
Questa particella fantasma fu soprannominata «neutrino», da «neutrone» più «bambino». Pareva non vi fosse la minima speranza di poter mai rivelare un’entità tanto elusiva; e invece nel 1956 i fisici riuscirono, con l’impiego di strumenti incredibilmente complessi, a catturarne i primi esemplari. Fu un trionfo anche per i fisici teorici, i quali vedevano dimostrate le loro improbabili equazioni.
Il mondo nel complesso non lo seppe o non diede grande importanza alla cosa; ma era iniziato il conteggio alla rovescia del Giudizio Universale.
3. Consiglio di villaggio
A Tarna, la rete locale delle comunicazioni non era mai operativa più che al novantacinque per cento, ma d’altra parte in nessun momento era in funzione per meno dell’ottantacinque per cento. Come gran parte delle apparecchiature presenti su Thalassa, era stata progettata da qualche genio ormai defunto da moltissimo tempo in modo che il collasso totale fosse praticamente impossibile. Anche se si fossero guastati molti componenti, la rete avrebbe continuato a funzionare abbastanza bene fin quando qualcuno si fosse irritato tanto da provvedere alle riparazioni.
Era, questo, il principio che i tecnici chiamavano di «degradazione dolce», espressione che, a sentire certi critici, definiva molto bene il modo di vivere degli abitanti di Thalassa.
Secondo il computer centrale, la rete funzionava come al solito attorno al novanta per cento, e Helga Waldron, che ricopriva la carica di sindaco, si sarebbe volentieri accontentata anche di meno. Quasi tutto il villaggio l’aveva chiamata nell’ultima mezz’ora, e almeno una cinquantina tra adulti e bambini si affollavano irrequieti nella sala del consiglio: un numero vicino alla capienza massima della sala stessa, e di gran lunga superiore ai posti a sedere. Il quorum per la riunione del consiglio era normalmente di dodici partecipanti, e certe volte ci volevano le misure più draconiane per raccogliere insieme questa dozzina di persone. Gli altri abitanti di Tarna, cinquecentosessanta in tutto, preferivano stare a guardare e votare, se interessati a sufficienza, stando comodamente a casa loro.
Aveva chiamato — due volte — il governatore provinciale; e inoltre l’ufficio del presidente e l’agenzia giornalistica dell’Isola Settentrionale, e tutti avevano fatto la stessa inutile richiesta. Tutti avevano ricevuto la stessa laconica risposta: naturalmente se succede qualcosa vi faremo sapere… grazie per l’interessamento.
Alla Waldron non piacevano le cose fuori dell’ordinario, e la sua carriera moderatamente fortunata di amministratrice s’era fondata principalmente sulla capacità che aveva di evitarle. Certe volte, naturalmente, ciò era impossibile; un suo veto non avrebbe modificato il percorso dell’uragano del ‘09, che — fino a quel giorno — era stato l’avvenimento più notevole del secolo.
«Fate silenzio!» gridò. «Reena, lascia stare quelle conchiglie… ci hanno lavorato parecchio per metterle in ordine! E poi a quest’ora dovresti essere a letto! Billy, scendi dal tavolo! Immediatamente!»
La sorprendente rapidità con cui venne riportato l’ordine dimostrava che, una volta tanto, gli abitanti del villaggio aspettavano con ansia di sentire ciò che il sindaco aveva da dire. La Waldron disattivò l’insistente beep beep del telefono da polso e istradò tutte le chiamate al centro messaggi.
«Per la verità, non ne so molto più di voi… e probabilmente non avremo altre informazioni per parecchie ore. Ma di certo si trattava di un qualche tipo di astronave che quando ci è passata sopra era già in fase di rientro…