La spiaggia più lontana - Le guin Ursula Kroeber 2 стр.


Infatti erano soli, e lui era una delle sette persone al mondo che conoscevano il nome dell’arcimago. Le altre erano il Maestro dei Nomi di Roke; e Ogion il Taciturno, il mago di Re Albi che molto tempo addietro, sulla montagna di Gont, aveva dato a Ged quel nome; e la Bianca Signora di Gont, Tenar dell’Anello; e un incantatore di un villaggio di Iffish, chiamato Veccia; e ancora a Iffish la moglie di un carpentiere, madre di tre figlie, che ignorava la magia ma era sapiente in altre cose, e che era chiamata Millefoglie; e infine, dall’altra parte di Earthsea, all’estremo occidente, due draghi: Orm Embar e Kalessin.

—  Dovremo riunirci, questa sera — disse l’arcimago. — Io andrò dal Maestro degli Schemi. E manderò a chiamare Kurremkarmerruk, perché riponga gli elenchi e lasci riposare i suoi discepoli per una serata e venga da noi, anche se non in persona. Tu provvederai agli altri?

—  Sì — rispose il Portinaio, sorridendo, e se ne andò; e anche l’arcimago se ne andò; e la fontana continuò a parlare a se stessa, serenamente, incessantemente, nel sole dell’inizio di primavera.

In qualche luogo, a ovest della Grande Casa di Roke e spesso un po’ a sud, si vede di solito il Bosco Immanente. Non appare sulle mappe e non c’è modo di penetrarvi, se non per coloro che ne conoscono il modo e la strada. Ma anche i novizi e i contadini e gli abitanti delle città possono vederlo, sempre da una certa distanza: un bosco d’alberi molto alti, le cui foglie hanno una sfumatura dorata nel loro verdeggiare, perfino in primavera. E tutti — i novizi, i contadini, gli abitanti delle città — pensano che il Bosco si muova in modo enigmatico e sconcertante. Ma s’ingannano, perché il Bosco non si muove. Le sue radici sono le radici dell’essere. È tutto il resto, a muoversi.

Ged aveva lasciato la Grande Casa e camminava tra i campi. Si tolse il mantello bianco, perché il sole era al meriggio. Un contadino che stava arando le brune pendici di un colle levò la mano in atto di saluto, e Ged rispose con un gesto uguale. Stormi di uccellini s’innalzarono nell’aria, cantando. L’erba scintilla stava incominciando a fiorire nei prati e lungo le strade. A grande altezza, un falco tracciò un ampio arco nel cielo. Ged lo guardò, e levò di nuovo la mano. Il falco si tuffò, in un fremito di piume gonfie di vento, e si posò sul polso proteso, stringendolo con i gialli artigli. Non era uno sparviero, bensì un grande falcone di Ender, un falco pescatore screziato di bianco e di bruno. Guardò in tralice l’arcimago con un tondo occhio d’oro fulgido, poi sbatté il becco adunco e lo fissò con entrambi gli occhi dorati. — Intrepido — gli disse l’arcimago nella lingua della Creazione.

Il grosso falco sbatté le ali e strinse più forte gli artigli, guardandolo.

—  Va’, dunque, fratello intrepido.

Il contadino, lontano sulla collina sotto il cielo luminoso, si era soffermato a guardare. Una volta, l’autunno precedente, aveva visto l’arcimago farsi discendere sul polso un uccello selvatico: e dopo un attimo non aveva più visto l’uomo, ma due falchi che ascendevano nel vento.

Questa volta si separarono, mentre il contadino stava a osservare: l’uccello s’involò nell’aria, l’uomo riprese a camminare attraverso i campi fangosi.

Ged raggiunse il sentiero che conduceva al Bosco Immanente, un sentiero che procedeva sempre diritto anche se il tempo e il mondo gli si aggiravano intorno tortuosamente: e percorrendolo giunse presto sotto l’ombra degli alberi.

Alcuni di quegli alberi avevano un tronco immane. Quando li si guardava, si poteva credere finalmente che il Bosco non si muovesse mai: erano come torri esistenti da tempo immemorabile e ingrigite dagli anni; le loro radici erano come le radici delle montagne. Eppure erano i più antichi, e alcuni avevano le fronde già rade e qualche ramo morto. Non erano immortali. In mezzo ai giganti crescevano arboscelli, alti e vigorosi, con chiome di fogliame vivido, e pianticelle ancora più giovani, esili fuscelli fronzuti non più alti di una bambina.

Il suolo ai piedi degli alberi era soffice, arricchito dalle foglie imputridite di tanti anni. Vi crescevano felci e piccole piante dei boschi; ma c’era un’unica specie di albero, che non aveva nome nella lingua hardese di Earthsea. Sotto le fronde l’aria aveva un fresco profumo di terra, e un sapore come di viva acqua di sorgente.

In una radura aperta molti anni prima dalla caduta di un enorme albero, Ged incontrò il Maestro degli Schemi, che viveva nel Bosco e non ne usciva mai o quasi mai. Aveva i capelli gialli come il burro: non era originario dell’arcipelago. Dopo il ritorno dell’Anello di Erreth-Akbe, i barbari di Kargad avevano smesso le incursioni instaurando rapporti di pacifico commercio con le Terre Interne. Non erano tipi amichevoli, e si tenevano in disparte. Ma di tanto in tanto un giovane guerriero o il figlio di un mercante si spingeva tutto solo verso ovest, attirato dall’amore per l’avventura o dal desiderio di apprendere la magia. E così era giunto dieci anni prima il Maestro degli Schemi: un giovane selvaggio di Karego-At, con la spada alla cintura e un pennacchio rosso sulla testa, arrivato a Gont in un mattino di pioggia; aveva detto al Portinaio, in hardese stentato e imperioso: — Io vengo per imparare! — E adesso stava sotto gli alberi, nella luce verde-dorata, alto e bello, con i lunghi capelli chiari e gli strani occhi verdi, il Maestro degli Schemi di Earthsea.

Forse conosceva anche lui il nome di Ged; ma se anche lo conosceva, non lo pronunciava mai. Si scambiarono un saluto in silenzio.

—  Cosa stai osservando? — chiese l’arcimago, e l’altro gli rispose: — Un ragno.

Tra due alti fili d’erba, nella radura, un ragno aveva intessuto una ragnatela, un cerchio delicatamente sospeso. Gli argentei fili riflettevano la luce del sole. Al centro attendeva il tessitore, una cosettina nero-grigia non più grande di una pupilla.

—  Anche quello è un maestro di schemi — disse Ged, studiando l’ingegnosa ragnatela.

—  Che cos’è il male? — chiese l’uomo più giovane.

La ragnatela rotonda, con il suo centro nero, sembrava osservarli entrambi.

—  Una ragnatela intessuta da noi uomini — rispose Ged.

In quel bosco non c’erano uccelli che cantassero. Era silente e caldissimo, nella luce del meriggio. Intorno a loro stavano gli alberi e le ombre.

—  Sono giunte notizie da Narveduen e da Enlad: identiche.

—  Sud e sudovest. Nord e nordovest — disse il Maestro degli Schemi, senza distogliere lo sguardo dalla tela rotonda.

—  Verremo qui, questa sera. È il luogo più indicato per tenervi consiglio.

—  Io non ho consigli da dare. — Il Maestro degli Schemi posò lo sguardo su Ged, e i suoi occhi verdi erano freddi. — Ho paura — disse. — C’è paura. Paura delle radici.

—  Sì — replicò Ged. — Dobbiamo cercare le sorgenti più profonde, credo. Abbiamo goduto troppo a lungo della luce del sole, crogiolandoci nella pace apportata dall’Anello, realizzando piccole cose, pescando nei bassi fondali. Questa notte dobbiamo interrogare gli abissi. — E lasciò solo il Maestro degli Schemi, che continuava a fissare il ragno tra l’erba assolata.

Al limitare del Bosco, dove le fronde dei grandi alberi si protendevano all’esterno, sul terreno normale, si sedette con la schiena appoggiata a una radice possente e col bastone sulle ginocchia. Chiuse gli occhi, come se riposasse, e trasmise un messaggio del suo spirito oltre le colline e i campi di Roke, verso nord, verso il promontorio assediato dal mare dove sorgeva la Torre Isolata.

—  Kurremkarmerruk — disse in spirito; e il Maestro dei Nomi alzò la testa dal grosso volume dei nomi di radici e erbe e foglie e semi e petali che stava leggendo ai suoi allievi, e disse: — Sono qui, mio signore.

Poi ascoltò (era un uomo alto e magro, con i capelli canuti sotto il cappuccio scuro), e gli studenti seduti agli scrittoi nella stanza della torre lo guardarono e si scambiarono occhiate.

—  Verrò — disse Kurremkarmerruk, e chinò di nuovo la testa sul libro, dicendo: — Ora, il petalo del fiore del moli ha un nome, che è iebera, e anche il sepalo ha un nome, che è partonath; e anche stelo e foglia e radice hanno il loro nome…

Ma sotto il suo albero l’arcimago Ged, che conosceva tutti i nomi dell’erba moli, ritrasse il pensiero; e, tese più comodamente le gambe e tenendo chiusi gli occhi, poco dopo si addormentò nella luce del sole maculata dal fogliame.

I MAESTRI DI ROKE

La Scuola di Roke è il luogo dove i ragazzi che si dimostrano promettenti nel campo della magia vengono inviati da tutte le Terre Interne di Earthsea ad apprendere le più alte forme di quell’arte. Là divengono esperti in ogni tipo d’incantesimi, e imparano nomi e simboli e facoltà e sortilegi, e ciò che deve e ciò che non deve essere fatto, e perché. E là, dopo lunghi esercizi, e se la mano e la mente e lo spirito procedono insieme, possono essere nominati incantatori, e ricevono il bastone del potere. Solo su Roke si fanno i veri incantatori.

Poiché vi sono fattucchieri e streghe su tutte le isole, e l’uso della magia è necessario al popolo quanto il pane, e delizioso come la musica, la Scuola di Magia è un luogo tenuto in grande onore. I nove maghi che sono Maestri della Scuola vengono considerati pari ai grandi principi dell’arcipelago. Il loro capo, il Custode di Roke, l’arcimago, non è tenuto a rispondere a nessun altro eccettuato il Re di Tutte le Isole: e solo per un atto di fedeltà, per un dono del cuore, poiché neppure un re può costringere un mago così grande a servire la legge comune, se la sua volontà è diversa. Eppure, anche durante i secoli senza re, gli arcimaghi di Roke avevano serbato la fedeltà e avevano servito la legge comune. A Roke tutto procedeva come avveniva da molte centinaia d’anni: era un luogo che sembrava al riparo da ogni tipo di angustie, e le risate dei ragazzi risuonavano nei cortili echeggianti e negli ampi e freddi corridoi della Grande Casa.

Colui che guidava Arren nella scuola era un ragazzo robusto: portava il mantello trattenuto al collo da un fermaglio d’argento, poiché aveva superato il noviziato e ormai era un incantatore riconosciuto, e studiava per guadagnarsi il bastone. Veniva chiamato Azzardo «perché», diceva, «i miei genitori avevano sei figlie, e secondo mio padre il settimo figlio era una puntata d’azzardo contro il fato». Era un compagno simpatico, pronto di mente e di lingua. In un altro momento, Arren avrebbe apprezzato il suo spirito; ma quel giorno era troppo assorto. Non gli prestava grande attenzione, in verità. E Azzardo, che provava un desiderio naturale di essere giudicato importante, cominciò ad approfittare della distrazione dell’ospite. Gli raccontò strani fatti a proposito della Scuola, e poi gli disse strane menzogne, e ogni volta Arren replicava «Oh, sì», oppure «Capisco», tanto che alla fine Azzardo lo giudicò un principesco imbecille.

—  Naturalmente, qui non cucinano — disse, conducendolo oltre le immense cucine di pietra, animate dal luccichio dei paioli di rame e dal tintinnio dei coltelli per affettare e dall’acre odore delle cipolle, che faceva lacrimare gli occhi. — È solo per fare scena. Noi andiamo al refettorio e ciascuno fa apparire con incantesimi ciò che preferisce mangiare. Così ci si risparmia anche la fatica di lavare i piatti.

—  Sì, capisco — disse educatamente Arren.

—  Naturalmente i novizi che non hanno ancora imparato i sortilegi dimagriscono spesso, durante i primi mesi trascorsi qui; ma poi imparano. C’è un ragazzo di Havnor che cerca sempre di far apparire un pollo arrosto ma non ottiene mai altro che una pappa di miglio. Sembra che non riesca a progredire. Ieri ha fatto apparire anche un merluzzo secco. — Azzardo stava diventando rauco per lo sforzo di indurre l’ospite all’incredulità. Poi desistette e smise di parlare.

—  Dove… da quale terra viene l’arcimago? — chiese l’ospite, senza neppure guardare l’imponente galleria che stavano percorrendo e che aveva le pareti e il soffito a volta ornati dall’Albero dalle Mille Foglie.

—  Gont — rispose Azzardo. — Era capraio in un villaggio.

Di fronte a quel fatto semplice e ben noto, il ragazzo venuto da Enlad si voltò a guardare con incredula disapprovazione il suo accompagnatore. — Un capraio?

—  Lo sono quasi tutti gli abitanti di Gont, a meno che siano pirati o incantatori. Non ho detto che sia un capraio adesso, sai!

—  Ma com’è possibile che un capraio diventi arcimago?

—  Come può diventarlo un principe! Venendo a Roke e superando tutti i Maestri, rubando l’anello di Atuan, navigando nello Stretto dei Draghi, dimostrandosi il mago più grande che sia mai vissuto dopo Erreth-Akbe… E come, se no?

Uscirono dalla galleria, alla porta settentrionale. Il tardo pomeriggio splendeva caldo sulle rugose colline e sui tetti di Città Thwil e sulla baia. Si fermarono a parlare. Azzardo disse: — Naturalmente, questo appartiene ormai al passato. Non ha fatto molto, da quando è stato nominato arcimago. Non fanno mai molto. Se ne stanno tranquilli a Roke e sorvegliano l’Equilibrio, immagino. E ormai è molto vecchio.

—  Vecchio? Vecchio quanto?

—  Oh, quaranta o cinquant’anni.

—  L’hai visto?

—  Certo, che l’ho visto — rispose brusco Azzardo. Il principesco imbecille, a quanto sembrava, era anche un principesco presuntuoso.

—  Spesso?

—  No. Vive molto solo. Ma appena arrivai a Roke lo vidi, nel Cortile della Fontana.

—  È stato là che ho parlato con lui, oggi — disse Arren.

Il suo tono indusse Azzardo a guardarlo, e poi a replicare: — È stato tre anni fa. Ed ero tanto impaurito che per la verità non lo guardai neppure. Ero molto giovane, certo. Ma è difficile vedere chiaramente le cose, là dentro. Ricordo soprattutto la sua voce, e l’acqua che scorreva dalla fontana. — Dopo un momento aggiunse: — Ha l’accento di Gont.

—  Se potessi parlare ai draghi nella loro lingua — disse Arren, — non mi preoccuperei del mio accento.

A quelle parole, Azzardo lo guardò con una sfumatura d’approvazione e chiese: — Sei venuto qui per entrare nella scuola, principe?

—  No. Ho portato all’arcimago un messaggio da parte di mio padre.

—  Enlad è uno dei principati del regno, no?

—  Enlad, Ilien e Way. Havnor e Ea, un tempo: ma in quelle terre la dinastia discesa dai re si è estinta. Ilien discende da Gemal, Nato dal Mare, tramite Maharion, che fu re di tutte le isole. Way, da Akambar e dalla Casa di Shelieth. Enlad, che è il casato più antico, da Morred, tramite suo figlio Serriadh e la Casa di Enlad.

Arren recitò le genealogie con aria sognante, come uno scolaro ben istruito che pensa ad altro.

—  Credi che vedremo di nuovo un re in Havnor, nel corso della nostra vita?

—  Non me ne sono mai dato molto pensiero.

—  In Ark, il luogo da cui vengo io, la gente ci pensa. Adesso facciamo parte del principato di Ilien, vedi, da quando è stata conclusa la pace. Quanto tempo è trascorso, diciassette anni o diciotto, da quando l’Anello della Runa del Re fu riportato alla Torre dei Re, in Havnor? Per qualche tempo le cose andarono meglio, ma adesso è peggio che mai. È tempo che ci sia di nuovo un re sul trono di Earthsea, un re che impugni il Segno della Pace. La gente è stanca di guerre e di scorrerie, e di mercanti che impongono prezzi eccessivi e di principi che pretendono tasse esose, e della confusione dei potenti indisciplinati. Roke è una guida, ma non può governare. Qui sta l’Equilibrio, ma il Potere dovrebbe essere nelle mani del re.

Azzardo parlava con interesse sincero, abbandonando ogni scherzo, e finalmente aveva attirato l’attenzione di Arren. — Enlad è una terra ricca e pacifica — disse lentamente. — Non si è mai immischiata in queste rivalità. Sentiamo parlare delle difficoltà di altre terre. Ma non c’è più stato un re sul trono di Havnor da quando morì Maharion: ottocento anni. Credi che le terre accetterebbero davvero un re?

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