La spiaggia più lontana - Le guin Ursula Kroeber 9 стр.


—  Da dove viene? A bordo non ho mai visto un solo otre di vino…

—  Sulla Vistacuta c’è molto più di quanto si vede — disse Sparviero, sedendosi di nuovo accanto a lui; e Arren lo sentì ridere, brevemente e quasi silenziosamente, nell’oscurità.

Si levò a sedere, per bere il vino. Era delizioso, e ristorava il corpo e lo spirito. Arren chiese: — Adesso dove andiamo?

—  Verso occidente.

—  Dove sei andato, con Lepre?

—  Nella tenebra. Io non l’ho mai perso, ma lui era perduto. Vagava ai confini esterni, nell’interminabile deserto del delirio e dell’incubo. La sua anima pigolava come un uccello in quei luoghi squallidi, come un gabbiano che grida lontano dal mare. Lui non è una guida: è sempre stato perduto. Nonostante la sua arte magica, non ha mai visto la via davanti a sé: vedeva solo se stesso.

Arren non comprendeva completamente quelle parole, e adesso non voleva neanche capire. Era stato attirato per un breve tratto in quella «tenebra» di cui parlavano i maghi, e non voleva ricordarla: non aveva nulla in comune con lui. E non voleva dormire, per non rivederla in sogno, per non scorgere quella figura cupa, quell’ombra che protendeva una perla e sussurrava «Vieni».

—  Mio signore — cominciò, mentre la sua mente virava rapida verso un altro pensiero, — perché…

—  Dormi! — disse Sparviero, con blanda esasperazione.

—  Non posso dormire, mio signore. Mi sto chiedendo perché non hai liberato gli altri schiavi.

—  L’ho fatto. Non ho lasciato nessuno incatenato, a bordo di quella nave.

—  Ma gli uomini di Egre erano armati. Se avessi incatenato loro…

—  Sì, se li avessi incatenati? Erano soltanto sei. I rematori erano schiavi alla catena, come te. A quest’ora Egre e i suoi uomini possono essere morti, o incatenati dagli altri per finire venduti come schiavi: ma li ho lasciati liberi di combattere o di mercanteggiare. Io non faccio schiavi.

—  Ma sapevi che erano uomini malvagi…

—  E perciò dovevo comportarmi come loro? Lasciare che le loro azioni condizionassero le mie? Non sarò io a scegliere per loro, e non permetterò che scelgano per me!

Arren rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. Dopo un po’, il mago disse, con voce lieve: — Vedi, Arren: contrariamente a quanto pensano i giovani, un’azione non è un sasso che si raccoglie e si scaglia e che colpisce il bersaglio o lo manca e tutto finisce lì. Quando quel sasso viene sollevato, la terra è più leggera; la mano che lo stringe è più pesante. Quando viene lanciato, i circuiti delle stelle reagiscono, e dove colpisce o cade, l’universo cambia. Da ogni azione dipende l’equilibrio del tutto. I venti e i mari, le potenze dell’acqua e della terra e della luce, tutto ciò che loro fanno e tutto ciò che fanno le bestie e le piante, è ben fatto, e fatto giustamente. Tutti agiscono nell’ambito dell’Equilibrio. Dall’uragano, dall’immersione di una grande balena, fino alla caduta di una foglia secca e al volo di un moscerino, tutto ciò che viene fatto viene fatto nell’ambito dell’equilibrio del tutto. Ma noi, poiché abbiamo potere sul mondo e l’uno sull’altro, dobbiamo imparare a fare ciò che la foglia e la balena e il vento fanno per loro natura. Dobbiamo imparare a mantenere l’equilibrio. Poiché abbiamo l’intelligenza, non dobbiamo agire nell’ignoranza. Poiché possiamo scegliere, non possiamo agire senza responsabilità. Chi sono io, anche se ho il potere di farlo, per punire e ricompensare, giocando col destino degli uomini?

—  Ma allora — disse il ragazzo, guardando le stelle con la fronte aggrondata, — l’equilibrio si conserva non facendo nulla? Senza dubbio, un uomo deve agire, anche se non conosce tutte le conseguenze del suo atto, se si deve fare qualcosa.

—  Non temere. Per gli uomini, agire è assai più facile che astenersi dall’azione. Continueremo a fare il bene e a fare il male… Ma se ci fosse di nuovo un re, al di sopra di tutti noi, e se chiedesse il consiglio di un mago come avveniva nell’antichità, e io fossi quel mago, gli direi: mio signore, non fare mai qualcosa perché è giusto o lodevole o generoso farlo; non fare qualcosa perché ti sembra bene farlo; fa’ solo ciò che devi fare, e che non puoi fare in altro modo.

Il tono di voce indusse Arren a voltarsi a scrutarlo, mentre parlava. Gli parve che lo splendore della luce s’irradiasse di nuovo da quel volto: vide il naso aquilino, la guancia sfregiata, gli occhi scuri e ardenti. E lo guardò con amore ma anche con paura, pensando: è troppo al di sopra di me. Eppure, mentre lo guardava, si accorgeva finalmente che sulle linee e sui piani del volto di quell’uomo non c’era la luce incantata, non c’era il freddo splendore della magia, ma c’era la luce stessa: il mattino, la normale luce del giorno. C’era un potere più grande di quello del mago. E gli anni non erano stati generosi con Sparviero più che con qualunque altro uomo. Il suo volto recava i segni dell’età, e aveva l’aria stanca, via via che la luce si rafforzava. Arren sbadigliò…

E così, mentre guardava e rifletteva, finalmente si addormentò. Ma Sparviero restò seduto accanto a lui, a guardare l’alba che spuntava e il sole che sorgeva, come se scrutasse un tesoro alla ricerca di qualche oggetto smarrito, una gemma difettosa, un bambino malato.

SOGNI SUL MARE

A mattino inoltrato, Sparviero tolse dalla vela il vento magico e lasciò che la barca procedesse spinta dal vento del mondo, che spirava dolce da sudovest. Lontano, sulla destra, le colline della distante Wathort slittavano via e rimanevano indietro, diventando azzurre e minuscole, come onde nebbiose al di sopra delle onde.

Arren si svegliò. Il mare si crogiolava nel caldo meriggio dorato, acqua infinita sotto una luce infinita. A poppa, Sparviero sedeva nudo: portava solo un perizoma e una specie di turbante fatto con tela da vele. Canterellava a mezza voce, accarezzando la fiancata come se fosse un tamburo, in un ritmo lieve e monotono. Il suo canto non era un incantesimo magico, né narrava le gesta degli eroi o dei re, ma una nenia di parole prive di senso, come potrebbe cantilenare un ragazzo mentre bada alle capre in un lungo pomeriggio d’estate, da solo sulle alte colline di Gont.

Dalla superficie del mare balzò un pesce, che planò nell’aria per molte braccia tendendo le pinne rigide e scintillanti, simili ad ali di libellula.

—  Siamo nello Stretto Meridionale — disse Sparviero, quando ebbe concluso il canto. — Una parte molto strana del mondo, dove i pesci volano e i delfini cantano, si dice. Ma l’acqua è tiepida, per nuotare, e io ho un’intesa con gli squali. Fa’ il bagno, per toglierti da dosso il contatto dei mercanti di schiavi.

Arren aveva tutti i muscoli intormentiti, e avrebbe preferito non muoversi. Inoltre non era un nuotatore esperto, perché i mari di Enlad sono turbolenti e bisogna lottare con le acque anziché nuotarvi, e ci si sfinisce presto. Quel mare più azzurro era freddo, al primo momento, ma poi diventò delizioso. L’indolenzimento l’abbandonò. Arren sguazzò accanto alla fiancata della Vistacuta come un giovane serpente di mare. Gli spruzzi zampillavano come fontane. Sparviero lo raggiunse, nuotando a bracciate più decise. Docile e protettiva, la Vistacuta li attendeva, con la sua ala bianca sull’acqua lucente. Un pesce balzò in aria dal mare: Arren l’inseguì; il pesce si tuffò e balzò di nuovo fuori, nuotando nell’aria, volando nel mare, inseguendo lui.

Agile e dorato, il ragazzo giocò e si crogiolò nell’acqua e nella luce fino a quando il sole toccò il mare. E, scuro e magro, con l’economia di gesti e la sobria forza dell’età, l’uomo nuotò, e tenne in rotta la barca, e montò un tendone di tela da vele, e guardò con imparziale tenerezza il ragazzo che nuotava e il pesce volante.

—  Dove siamo diretti? — chiese Arren nel crepuscolo inoltrato, dopo un abbondante pasto di carne salata e di pane duro, di nuovo insonnolito.

—  Lorbanery — rispose Sparviero, e quelle sillabe morbide formarono l’ultima parola che Arren udì quella notte, e i suoi sogni, all’inizio, vennero a intessersi intorno a quel nome. Sognò di camminare tra refoli di sostanza soffice e pallida, fili e frammenti rosa e aurei e celesti, e provò un piacere infantile; qualcuno gli disse: — Questi sono i serici campi di Lorbanery, dove non viene mai buio. — Ma più tardi, verso la fine della notte, quando le stelle dell’autunno brillarono nel cielo di primavera, sognò di trovarsi in una casa in rovina. Lì l’aria era asciutta. Tutto era polveroso, festonato di ragnatele lacere. Arren aveva le gambe aggrovigliate nelle ragnatele, che gli fluttuavano anche sulla bocca e sulle narici arrestandogli il respiro. E la cosa più atroce era di sapere che quella grande stanza in rovina era quella dove aveva fatto colazione insieme ai Maestri, nella Grande Casa di Roke.

Si svegliò sgomento, col cuore che gli batteva forte e le gambe strette e indolenzite contro la fiancata. Si levò a sedere, cercando di liberarsi dal sogno malefico. A oriente non c’era ancora la luce, ma solo un attenuarsi dell’oscurità. L’albero scricchiolava; la vela, ancora tesa dalla brezza di nordest, luccicava alta e indistinta sopra di lui. A poppa, il suo compagno dormiva profondamente, in silenzio. Si sdraiò di nuovo e si assopì, fino a quando lo destò il giorno fatto.

Quel giorno il mare era più azzurro e calmo di quanto lui avesse mai immaginato, e l’acqua era così tiepida e limpida che nuotare era un po’ come fluttuare nell’aria: era strano, quasi come un sogno.

A mezzogiorno chiese: — I maghi attribuiscono molta importanza ai sogni?

Sparviero stava pescando. Osservava attentamente la lenza. Dopo un lungo silenzio replicò: — Perché?

—  Mi chiedevo se contengono qualche verità.

—  Sicuramente.

—  Predicono il futuro?

Ma un pesce aveva abboccato; e dieci minuti più tardi, quando il mago ebbe tirato a bordo il loro pranzo, uno splendido persico di mare, azzurro-argento, la domanda era ormai dimenticata.

Nel pomeriggio, mentre oziavano, sotto il tendone teso per ripararli dal sole imperioso, Arren chiese: — Cosa cerchiamo, a Lorbanery?

—  Quello che cerchiamo — rispose Sparviero.

—  A Enlad — disse Arren, dopo un po’, — si racconta la storia di un bambino che aveva per maestro di scuola un sasso.

—  Sì?… E cos’aveva imparato?

—  A non fare domande.

Sparviero sbuffò, come per reprimere una risata, e si levò a sedere. — Molto bene! — esclamò. — Tuttavia, preferisco non parlare fino a quando non so cosa devo dire. Perché non c’è più magia a Città Hort e a Narveduen e forse in tutti gli stretti? È questo che cerchiamo di scoprire, no?

—  Sì.

—  Conosci la vecchia massima «le regole cambiano, negli stretti»? La usano i marinai, ma è una massima dei maghi, e significa che perfino la magia dipende dai luoghi. Un vero incantesimo su Roke, su Iffish può essere solo parole vane. La lingua della Creazione non è ricordata dovunque: qui una parola, là un’altra. E perfino la tessitura degli incantesimi è tramata dalla terra e dall’acqua, dai venti e dal modo in cui scende la luce nel luogo dove vengono gettati. Una volta mi sono spinto nell’estremo oriente, così lontano che il vento e l’acqua non ubbidivano al mio comando perché ignoravano i loro veri nomi; o più probabilmente l’ignorante ero io.

«Il mondo è molto grande, il mare aperto si stende assai più lontano di quanto si conosca; e ci sono altri mondi, oltre il mondo. Su quegli abissi di spazio, e nella lunga estensione del tempo, non credo che esista una parola capace di portare, dovunque e per sempre, il peso del suo significato e il suo potere; a meno che sia la Prima Parola che pronunciò Segoy, e che non è più stata detta e non verrà più detta fino a quando tutte le cose verranno annientate… Quindi, anche in questo mondo del nostro Earthsea, tra le piccole isole a noi note, ci sono diversità e misteri e mutamenti. E il luogo meno noto, e più carico di misteri, è lo Stretto Meridionale. Pochi maghi delle Terre Interne sono giunti fra quelle genti. Là non gradiscono gli incantatori, poiché possiedono (così si crede) una loro magia. Ma sono dicerie vaghe, e forse l’arte magica non è mai stata ben conosciuta, là, né veramente compresa. In tal caso potrebbe essere annullata agevolmente da chi decidesse di annullarla, e s’indebolirebbe più facilmente della nostra magia delle Terre Interne. E allora potremmo sentir parlare della decadenza della magia nel sud.

«Perché la disciplina è il canale in cui le nostre azioni scorrono forti e profonde; là dove non c’è direzione, gli atti degli uomini sono superficiali, e vagano e si sprecano. Così, quella donna grassa bardata di specchietti ha perso la sua arte ed è convinta di non averla mai posseduta. Così Lepre prende l’hazia e crede di essersi spinto più lontano di tutti i maghi più grandi, mentre è entrato a malapena nei campi del sogno e già si è perduto… Ma dove crede di andare? Che cosa cerca? Che cosa ha ingoiato la sua magia? Ne abbiamo avuto abbastanza di Città Hort, credo, perciò ci spingiamo più a sud, a Lorbanery, per vedere cosa vi fanno gli incantatori, per scoprire cos’è che dobbiamo scoprire… Ti basta, come risposta?»

—  Sì, ma…

—  Allora lascia che il sasso rimanga per un poco in silenzio — disse il mago. E stette accanto all’albero, nell’ombra giallastra e chiara del tendone, e guardò il mare, verso occidente, mentre la barca veleggiava dolcemente verso il sud, nel sole del pomeriggio. Stava seduto eretto, taciturno e immobile. Trascorsero le ore. Arren si tuffò un paio di volte per nuotare, scivolando quietamente nell’acqua dalla poppa perché non voleva attraversare la linea dello sguardo di quegli occhi scuri, rivolto verso occidente, sopra il mare, come se vedesse lontano, al di là del luminoso orizzonte, al di là dell’azzurro dell’aria e dei confini della luce.

Sparviero riemerse infine dal suo silenzio e riprese a parlare, anche se la sua conversazione si limitò a una o due parole per volta. L’educazione ricevuta aveva reso Arren capace d’intuire prontamente gli umori mascherati dalla cortesia e dalla riservatezza; sapeva che il suo compagno aveva il cuore pesante. Non gli fece altre domande; venuta sera, chiese: — Se canto, disturbo i tuoi pensieri? — Sparviero rispose, sforzandosi di assumere un tono scherzoso: — Dipende dal modo in cui canti.

Arren si sedette, con le spalle appoggiate all’albero, e cantò. La sua voce non era acuta e dolce come quando il maestro di musica del palazzo di Berila l’aveva educata, anni addietro, traendo armonie dalla grande arpa; adesso i toni più alti erano robusti e quelli profondi avevano la risonanza di una viola, scuri e chiari. Cantò il Lamento per l’incantatore bianco, la trenodia che Elfarran aveva composto quando aveva saputo della morte di Morred e attendeva la propria. È un canto che non viene cantato di frequente o alla leggera. Sparviero ascoltò quella voce giovanile, forte e sicura, e mesta tra il cielo rosseggiante e il mare, e le lacrime gli riempirono gli occhi, accecanti.

Arren rimase in silenzio piuttosto a lungo, dopo quel canto; poi prese a intonare melodie meno importanti e più lievi, a bassa voce, attenuando la grande monotonia dell’aria senza vento e del mare ondeggiante e della luce che si affievoliva nell’appressarsi della notte.

Quando smise di cantare, tutto era silenzioso; il vento era caduto, le onde erano piccole, e il legno e le cime scricchiolavano appena. Il mare taceva, e a una a una spuntavano le stelle. A sud, vivida e penetrante, apparve una luce gialla, che gettò sull’acqua una pioggia di schegge d’oro.

—  Guarda! Un faro! — Poi, dopo un minuto: — Possibile che sia una stella?

Sparviero la contemplò per lunghi istanti, e infine disse: — Credo che sia la stella Gobardon. La si può vedere soltanto dallo Stretto Meridionale. Gobardon significa Corona. Kurremkarmerruk ci insegnò che, navigando ancora più a sud, si scoprono altre otto stelle una dopo l’altra, tra l’orizzonte e Gobardon, che formano una grande costellazione: alcuni dicono che rappresenta un uomo in corsa, altri la Runa Agnen. La Runa della Fine.

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