Era insieme a Thar e a Kossil, con le quali adesso trascorreva gran parte del tempo quando non era nella Casa Piccola o da sola nelle viscere della collina. Era una fredda e tempestosa notte d’aprile. Sedevano accanto a un piccolo fuoco di rami di salvia, nel focolare della stanza dietro il tempio del re-dio, la stanza di Kossil. Oltre la soglia, nel corridoio, Manan e Duby giocavano con stecchi e segnalini, lanciando un fascio di stecchi e raccogliendone il maggior numero possibile sul dorso della mano. Qualche volta Manan e Arha giocavano ancora quel gioco, in segreto, nel cortile interno della Casa Piccola. Il tintinnio degli stecchi che cadevano, i rauchi mormorii di trionfo e di delusione, lo smorzato crepitio del fuoco, erano gli unici suoni quando le tre sacerdotesse tacevano. Tutt’intorno, oltre le mura, regnava il profondo silenzio della notte nel deserto. Di quando in quando giungeva lo scroscio di un acquazzone.
— Tanto tempo fa, vennero molti per derubare le tombe; ma nessuno ci è mai riuscito — disse Thar. Sebbene fosse taciturna, ogni tanto amava raccontare una storia, e spesso lo faceva per istruire Arha. E quella sera sembrava disposta a raccontare.
— E com’è possibile che un uomo osi una cosa simile?
— Loro osano — disse Kossil. — Erano incantatori, maghi delle Terre Interne. Questo avveniva prima che i re-dèi regnassero nelle terre di Kargad: allora non eravamo così forti. I maghi venivano con le loro navi da occidente, fino a Karego-At e Atuan, per saccheggiare le città della costa e depredare le fattorie, e penetravano perfino nella città sacra di Awabath. Venivano per uccidere i draghi, dicevano; ma rimasero per derubare città e templi.
— E i loro grandi eroi venivano tra noi per collaudare le loro spade — aggiunse Thar, — e per operare i loro empi sortilegi. Uno di loro, un possente incantatore e signore dei draghi, il più grande di tutti, incontrò qui una dura sorte. Avvenne molto tempo fa, moltissimo tempo fa, ma l’episodio viene ricordato ancora, e non soltanto in questo luogo. L’incantatore si chiamava Erreth-Akbe, ed era mago in occidente. Giunse nelle nostre terre, e ad Awabath si alleò a certi nobili ribelli di Kargad e combatté per il dominio sulla città con il sommo sacerdote del tempio interno degli dèi gemelli. Combatterono a lungo, la stregoneria del mago contro la folgore degli dèi, e il tempio venne distrutto. Alla fine il sommo sacerdote spezzò il bastone magico dell’incantatore, ruppe a metà il suo amuleto del potere, e lo sconfisse. Il mago fuggì dalla città e dal territorio di Kargad, e attraversò tutto Earthsea fino al più lontano occidente; e là un drago lo uccise, perché il suo potere era svanito. E da quel giorno la potenza delle Terre Interne è in costante declino. Ora, il sommo sacerdote si chiamava Intahin, ed era il primo della casata di Tarb, la stirpe da cui, dopo il compimento della profezia e dei secoli, discesero i re-sacerdoti di Karego-At, e da questi i re-dèi di tutto Kargad. Perciò dai tempi di Intahin la potenza delle terre di Kargad si è sempre accresciuta. Coloro che venivano per derubare le tombe erano incantatori, e cercavano sempre di recuperare l’amuleto infranto di Erreth-Akbe. Ma è ancora qui, dove lo nascose il sommo sacerdote perché rimanesse al sicuro. E anche le loro ossa sono qui… — Thar additò il suolo sotto i suoi piedi.
— Metà dell’amuleto è qui — disse Kossil.
— E l’altra metà è perduta per sempre.
— Perduta come? — chiese Arha.
— Una metà, rimasta nelle mani di Intahin, fu donata da lui al Tesoro delle Tombe, dove dovrebbe essere al sicuro per sempre. L’altra rimase nella mano dell’incantatore, ma prima di fuggire lui la consegnò a un re, uno dei ribelli, che si chiamava Thoreg di Hupun. Non so perché l’abbia fatto.
— Per causare conflitti, per far inorgoglire Thoreg — disse Kossil. — E infatti fu così. I discendenti di Thoreg si ribellarono ancora, quando regnava la casa di Tarb; e presero di nuovo le armi contro il primo re-dio, rifiutando di riconoscerlo come dio e come re. Erano una razza stregata e maledetta. Ormai sono tutti morti.
Thar annuì. — Il padre dell’attuale re-dio, il Signore Che È Asceso, abbatté la famiglia di Hupun e ne distrusse i palazzi. Quando questo avvenne, la metà dell’amuleto, che quelli avevano sempre conservato fin dai tempi di Erreth-Akbe e di Intahin, andò perduta. Nessuno sa cosa le sia successo. E questo avvenne una generazione fa.
— Venne gettata via come spazzatura, senza dubbio — commentò Kossil. — Dicono che non avesse l’aspetto di un oggetto prezioso, l’Anello di Erreth-Akbe. Sia maledetto, e siano maledette tutte le cose del popolo dei maghi! — Sputò nel fuoco.
— Tu hai visto la metà che è qui? — chiese Arha a Thar.
La donna scarna scosse il capo. — È nel Tesoro, dove nessuno può entrare eccettuata l’Unica Sacerdotessa. Forse è il tesoro più grande che vi sia custodito; non so. Credo che lo sia. Per centinaia d’anni le Terre Interne hanno mandato ladri e maghi per cercare di riprenderlo; e quelli non badavano agli scrigni aperti colmi d’oro, cercando solo quella cosa. È passato molto tempo da quando vissero Erreth-Akbe e Intahin, eppure la storia è ancora conosciuta e viene raccontata, qui e in occidente. Molte cose invecchiano e periscono, col trascorrere dei secoli. Sono pochissime le cose preziose che restano tali, e le storie che vengono ancora narrate.
Arha rimuginò per qualche attimo e disse: — Dovevano essere uomini molto coraggiosi o molto stupidi, per entrare nelle tombe. Non conoscevano i poteri dei Senza Nome?
— No — rispose Kossil, con quella sua voce fredda. — Loro non hanno dèi. Operano magie, e credono di essere dèi loro stessi. Ma non lo sono. E quando muoiono, non rinascono. Diventano polvere e ossa, e i loro spettri gemono nel vento per qualche tempo finché poi il vento li disperde. Non hanno un’anima immortale.
— Ma cos’è la magia che loro operano? — chiese Arha, affascinata. Non ricordava di aver detto, una volta, che avrebbe rifiutato di guardare le navi venute dalle Terre Interne. — Come fanno? Cosa fanno?
— Trucchi, inganni, giochi di prestigio — disse Kossil.
— Qualcosa di più — disse Thar, — se le storie che si raccontano sono vere almeno in parte. I maghi dell’occidente possono suscitare e acquietare i venti, e farli spirare come vogliono. Su questo, tutti sono d’accordo e dicono la stessa storia. È per questo che sono grandi marinai; possono mettere il vento della magia nelle loro vele, e andare dove vogliono, e placare le tempeste del mare. E si dice che possano creare la luce a volontà, e la tenebra, e cambiare le pietre in diamanti e il piombo in oro; che possano costruire un grande palazzo o una grande città in un istante, almeno all’apparenza; che possano mutarsi in orsi, o pesci, o draghi, secondo il loro desiderio.
— Io non credo a tutto questo — osservò Kossil. — Che siano pericolosi, astuti ed esperti nei trucchi, e viscidi come anguille, sì. Ma dicono che se togli a un incantatore il suo bastone di legno, lui non ha più potere. Probabilmente, sul bastone sono incisi simboli malefici.
Thar scosse di nuovo la testa. — Portano il bastone, è vero: ma è solo lo strumento del potere che hanno dentro.
— Ma come ottengono il potere? — chiese Arha. — Da dove proviene?
— Menzogne — rispose Kossil.
— Parole — aggiunse Thar. — Così mi è stato detto da un tale che una volta aveva osservato un grande incantatore delle Terre Interne: un mago, come vengono chiamati. L’avevano preso prigioniero, in una scorreria a occidente. Lui mostrò un bastone di legno secco e pronunciò una parola. E tac, il bastone fiorì. E disse un’altra parola: e tac, il bastone si caricò di mele rosse. E poi disse ancora un’altra parola, e bastone e fiori e mele sparirono e con loro sparì anche l’incantatore. Con una sola parola era svanito come l’arcobaleno, in un batter d’occhio, senza lasciar tracce; e non lo ritrovarono mai più su quell’isola. Era soltanto un trucco?
— È facile ingannare gli stolti — rispose Kossil.
Non dissero altro, per evitare una discussione; ma ad Arha dispiacque che abbandonassero l’argomento. — Come sono quelli del popolo degli incantatori? — chiese. — Sono davvero tutti neri, con gli occhi bianchi?
— Sono neri e malvagi. Io non ne ho mai visto uno — rispose in tono soddisfatto Kossil, spostando la sua pesante mole sullo sgabello e tendendo le mani verso il fuoco.
— Che gli dèi gemelli li tengano lontani — mormorò Thar.
— Non verranno mai più, qui — disse Kossil. E il fuoco crepitò, e la pioggia scrosciò sul tetto, e oltre la soglia buia Manan gridò con voce stridula: — Aha! Una metà per me, una metà!
LUCE SOTTO LA COLLINA
Mentre l’anno si avviava di nuovo verso l’inverno, Thar morì. Durante l’estate l’aveva presa la malattia di consunzione; era magra, ma divenne scheletrica; era taciturna, e adesso non parlava più. Parlava soltanto ad Arha, qualche volta, quando erano sole; poi anche questo finì, e lei se ne andò, silenziosamente, nella tenebra. Quando non ci fu più, Arha sentì molto la sua mancanza. Thar era stata severa, ma non era mai stata crudele. A lei aveva insegnato l’orgoglio, non la paura.
Adesso c’era soltanto Kossil.
In primavera sarebbe giunta da Awabath una nuova somma sacerdotessa per il tempio degli dèi gemelli; fino ad allora, Arha e Kossil erano le sole signore del Luogo. La donna chiamava «padrona» la ragazza, e doveva ubbidire se lei le dava un ordine. Ma Arha aveva imparato a non dare ordini a Kossil. Aveva il diritto di farlo, ma non la forza: sarebbe stata necessaria una forza grandissima, per opporsi alla gelosia che Kossil nutriva verso un grado più elevato del suo, al suo odio per tutto ciò che non poteva dominare.
Poiché Arha aveva imparato — dalla dolce Penthe — l’esistenza dell’ateismo, e l’aveva accettato come realtà anche se le faceva paura, aveva potuto guardare Kossil con maggiore fermezza, e l’aveva compresa. Kossil, in cuor suo, non nutriva la minima venerazione per i Senza Nome o per gli dèi. Non considerava sacro null’altro che il potere. Adesso l’imperatore delle Terre di Kargad deteneva il potere: quindi ai suoi occhi era davvero un re-dio, e lei l’avrebbe servito devotamente. Ma per lei i templi erano soltanto apparenza, le Pietre erano soltanto sassi, le Tombe di Atuan erano gallerie tenebrose scavate nella terra, terribili ma vuote. Se avesse potuto, avrebbe abbandonato il culto del Trono Vuoto. Se avesse osato, avrebbe liquidato la Prima Sacerdotessa.
Arha affrontò con fermezza anche quest’ultimo fatto. Forse Thar l’aveva aiutata a capirlo, benché direttamente non avesse mai detto nulla. Durante i primi stadi della sua infermità, prima che il silenzio scendesse sopra di lei, aveva chiesto ad Arha di recarsi a visitarla quasi tutti i giorni, e le aveva parlato, le aveva detto molte cose delle azioni del re-dio e del suo predecessore, e delle consuetudini di Awabath: erano cose che lei doveva conoscere, perché era una sacerdotessa importante, ma che spesso non tornavano a onore del re-dio e della sua corte. E aveva parlato della propria vita, e aveva raccontato com’era stata e cos’aveva fatto l’Arha dell’incarnazione precedente; e qualche volta, ma non spesso, aveva accennato ai possibili intoppi e pericoli della vita attuale di Arha. Neppure una volta aveva nominato Kossil. Ma Arha era stata allieva di Thar per undici anni, e le bastava un accenno o un tono per comprendere e per ricordare.
Dopo il lugubre subbuglio dei Riti del Lutto, Arha incominciò a evitare Kossil. Quando i lunghi lavori e rituali della giornata si erano conclusi, se ne andava nella sua dimora solitaria; e ogni volta che ne aveva il tempo, andava nella stanza dietro il trono e apriva la botola e scendeva nella tenebra. Di giorno e di notte, poiché là non c’era differenza, proseguiva un’esplorazione sistematica del suo dominio. La cripta, con la sua immensa sacralità, era vietata a tutti tranne le sacerdotesse e i loro eunuchi più fidati. Chiunque altro vi si fosse avventurato, uomo o donna, sarebbe stato certamente ucciso dall’ira dei senza Nome. Ma tra tutte le regole che Arha aveva imparato, non ce n’era nessuna che proibisse l’accesso al labirinto. Non era necessario. Vi si poteva penetrare solo passando dalla cripta; e del resto, le mosche hanno forse bisogno di regole che dicano loro di non entrare in una ragnatela?
Perciò lei conduceva spesso Manan nelle zone più vicine del labirinto, perché ne imparasse la strada. Manan non era per nulla entusiasta di andarvi, ma le ubbidiva come sempre. Lei si accertò che Duby e Uahto, gli eunuchi di Kossil, conoscessero la strada della Camera delle Catene e la via d’uscita dalla cripta, ma null’altro; non li conduceva mai nel labirinto. Non voleva che nessuno, eccettuato il fedelissimo Manan, conoscesse quelle vie segrete. Perché erano sue, soltanto sue, per sempre. Aveva incominciato l’esplorazione completa del labirinto. Durante tutto l’autunno, passò molti giorni seguendo quei corridoi interminabili; eppure c’erano ancora certe parti che non aveva mai raggiunto. Si stancava a percorrere quell’immensa e insensata ragnatela di corridoi: le gambe s’indolenzivano, la mente si annoiava a calcolare senza sosta le svolte e i passaggi. Il labirinto era meraviglioso, e si snodava nella compatta roccia sotterranea come le strade di una grande città: ma era stato creato per stancare e confondere il mortale che vi si aggirava, e perfino la sua sacerdotessa sentiva che in fin dei conti era solo una grande trappola.
Perciò, via via che avanzava l’inverno, lei dedicò sempre di più le sue meticolose esplorazioni alla sala, agli altari, alle alcove dietro e sotto gli altari, alle camere dei cofani e delle casse, al contenuto delle casse e dei cofani, a corridoi e soffitte, alla polverosa cavità sotto la cupola dove si annidavano centinaia di pipistrelli, alle cantine e sottocantine che erano l’anticamera dei corridoi di tenebra.
Con le mani e le maniche profumate dalla dolcezza di un muschio trasformato in polvere rimasta per otto secoli in uno scrigno di ferro, la fronte macchiata dal viscoso sgorbio nero di una ragnatela, restava inginocchiata per un’ora a studiare i rilievi di un bellissimo cofano di legno di cedro, rovinato dal tempo, donato da qualche re, secoli addietro, alle Potenze Senza Nome delle Tombe. C’era il re, una figuretta rigida dal grosso naso, e c’era il palazzo del trono con la cupola piatta e il pronao scolpiti in delicato rilievo sul legno da un artista divenuto polvere da chissà quanti secoli. C’era l’Unica Sacerdotessa, che aspirava i fumi drogati dei vassoi bronzei e profetizzava o consigliava il re, che in quella formella aveva il naso rotto; il volto della Sacerdotessa era troppo piccolo per avere lineamenti nitidi, tuttavia Arha immaginava che fosse il suo. Si domandava cos’aveva detto al re dal grosso naso, e se lui gliene era stato riconoscente.
Aveva i suoi posti preferiti, nel palazzo del trono, così come un’altra avrebbe avuto i suoi posti preferiti per mettersi a sedere in una casa soleggiata. Spesso saliva in una specie di soffitta in una delle sacrestie, nella parte posteriore del palazzo. Vi erano conservate antiche vesti, reliquie dei giorni in cui grandi signori e re venivano in pellegrinaggio al Luogo delle Tombe di Atuan, riconoscendo un dominio più grande del loro e di ogni altro uomo. Talvolta le loro figlie, le principesse, avevano indossato quelle morbide sete bianche, ricamate di topazi e di ametiste scure, e avevano danzato con la Sacerdotessa delle Tombe. In una delle tesorerie c’erano minuscole tavolette d’avorio dipinto che mostravano quelle danze, con i re e i nobili che attendevano fuori dal palazzo perché ormai gli uomini non mettevano più piede sul colle delle tombe. Ma le ragazze potevano entrare e danzare con la Sacerdotessa, avvolte nelle sete candide. La Sacerdotessa portava le vesti nere tessute in casa, sempre, allora come adesso; ma ad Arha piaceva venire ad accarezzare quella stoffa morbida e dolce, imputridita dagli anni, con le gemme imperiture che si staccavano dalla stoffa per il loro lieve peso. In quelle cassapanche c’era un profumo diverso da tutti i muschi e gli incensi dei templi del Luogo: un profumo più fresco, più fievole, più giovane.