La mano stretta sul petto si allentò e scivolò via, e Arha, dall’alto, vide il talismano appeso alla catena: sembrava un pezzo di metallo grezzo, a forma di mezzaluna.
La fioca luce della magia si spense. L’uomo giaceva nel silenzio e nell’oscurità.
Arha rimise a posto la stoffa e sistemò la piastrella, si alzò cautamente e andò nella sua stanza. Giacque a lungo sveglia, nell’oscurità risonante di vento, vedendo sempre davanti a sé lo splendore cristallino che aveva brillato nella casa della morte, il dolce fuoco che non bruciava, le pietre delle pareti del corridoio, il volto tranquillo dell’uomo addormentato.
LA TRAPPOLA
Il giorno seguente, quando ebbe completato i suoi doveri nei vari templi ed ebbe terminato di insegnare le danze sacre alle novizie, Arha tornò furtivamente alla Casa Piccola, oscurò la stanza, aprì lo spioncino e scrutò. La luce non c’era. L’uomo se n’era andato. Lei non aveva pensato che sarebbe rimasto a lungo davanti alla porta inarrendevole: ma era l’unico posto da cui potesse guardare. Come l’avrebbe ritrovato, adesso che si era smarrito?
Le gallerie del labirinto, a quanto lei sapeva dalle spiegazioni di Thar e dalla propria esperienza, si stendevano per più di venti miglia di diramazioni, spirali, tortuosità e vicoli ciechi. In linea retta, probabilmente, il corridoio che si trovava più lontano dalle tombe non distava più di un miglio. Ma laggiù, sottoterra, non c’erano linee rette. Tutte le gallerie s’incurvavano, si dividevano, si ricongiungevano, si ramificavano, s’intrecciavano, si annodavano, tracciavano percorsi complicati che finivano nel punto dove cominciavano, perché non c’erano né principio né fine. Si poteva camminare e camminare e non arrivare mai in nessun posto, perché non c’era una meta cui giungere. Il meandro non aveva un centro, un cuore. E quando la porta era chiusa, non aveva fine. Nessuna direzione inutile.
Sebbene le vie e le svolte che portavano nelle varie camere e nelle varie parti di quel dedalo fossero impresse chiaramente nella memoria di Arha, nelle sue esplorazioni più lunghe lei aveva portato con sé un gomitolo di filo finissimo e l’aveva svolto dietro di sé, riavvolgendolo al ritorno. Se le sfuggiva uno solo dei passaggi e delle svolte che doveva contare, perfino lei avrebbe potuto smarrirsi. Una lampada non serviva a nulla, perché non c’erano punti di riferimento. Tutti i corridoi e le porte e le aperture erano uguali.
L’uomo poteva essere ormai lontano molte miglia di cammino e tuttavia essere ancora a dodici braccia dalla porta da cui era entrato.
Arha andò al palazzo del trono, e al tempio degli dèi gemelli, e nella cantina sotto le cucine; e scegliendo i momenti in cui era rimasta sola, guardò attraverso ciascuno di quegli spioncini nella tenebra densa e fredda. Quando venne la notte, gelida e folgorante di stelle, lei si recò in certi punti della collina e sollevò certe pietre: asportò il terriccio, scrutò di nuovo, e vide la tenebra senza stelle dei sotterranei.
Lui era là. Doveva essere là. Eppure le era sfuggito. Sarebbe morto di sete prima che lei lo trovasse. Avrebbe dovuto mandare Manan nel labirinto a cercarlo, quando fosse stata certa che era morto. E questo era un pensiero insopportabile. Mentre s’inginocchiava nella luce delle stelle, sull’aspro terreno della collina, gli occhi le si riempirono di lacrime di rabbia.
Raggiunse il sentiero che riconduceva giù fino al tempio del re-dio. Le colonne dei capitelli scolpiti splendevano bianche di brina nella luce delle stelle, come pilastri d’avorio. Lei bussò alla porta posteriore, e Kossil la fece entrare.
— Cosa desidera la mia padrona? — chiese, fredda e vigile.
— Sacerdotessa, c’è un uomo nel labirinto.
Kossil fu colta alla sprovvista: una volta tanto era accaduto qualcosa che non si aspettava. Restò immobile, e i suoi occhi sbarrati parvero quasi uscire dalle orbite. Arha pensò fuggevolmente che Kossil somigliava molto a Penthe quando la imitava: una risata folle le salì alla gola, venne repressa e si spense.
— Un uomo? Nel labirinto?
— Un uomo, un estraneo. — Poi, mentre Kossil continuava a guardarla incredula, Arha aggiunse: — So riconoscere un uomo a prima vista, anche se ne ho incontrati pochissimi.
Kossil non badò alla sua ironia. — E come ha potuto entrarvi, un uomo?
— Per mezzo della stregoneria, credo. Ha la carnagione scura, e forse viene dalle Terre Interne. È venuto per derubare le tombe. L’ho trovato la prima volta nella cripta, sotto le Pietre. È corso all’entrata del labirinto quando si è accorto della mia presenza, come se sapesse dove andava. Ho chiuso la porta di ferro dietro di lui. Lui ha operato sortilegi, ma non è bastato per aprire la porta. Questa mattina si è addentrato nei meandri. Ora non riesco più a rintracciarlo.
— Ha una lampada?
— Sì.
— Acqua?
— Una piccola borraccia, e non è piena.
— La sua candela si sarà già consumata — fece pensierosa Kossil. — Quattro o cinque giorni. Forse sei. Poi potrai mandare i miei custodi a trascinarne fuori il cadavere. Il sangue dovrebbe essere offerto al trono e alle…
— No — disse Arha, con improvvisa violenza. — Voglio trovarlo vivo.
La sacerdotessa squadrò la ragazza dall’alto della propria statura massiccia. — Perché?
— Per… per prolungare la sua fine. Ha commesso un sacrilegio contro i Senza Nome. Ha profanato la cripta con la luce. È venuto per derubare le tombe dei loro tesori. Va punito con qualcosa di peggio che sdraiarsi in una galleria a morire.
— Sì — disse Kossil, riflettendo. — Ma come lo catturerai, padrona? È problematico. Ma l’altro modo è sicuro. Non c’è una camera piena di ossa, in qualche punto del labirinto, ossa degli uomini che vi sono entrati e non ne sono più usciti?… Lascia che i Tenebrosi lo puniscano a modo loro, nel modo tenebroso del labirinto. È una morte crudele, la morte per sete.
— Lo so — replicò Arha. Si voltò e uscì nella notte, alzando il cappuccio per proteggersi dal gelido vento sibilante. Non lo sapeva, forse?
Era stata un’azione puerile e stupida, rivolgersi a Kossil. Da lei non avrebbe avuto aiuti. Kossil non sapeva nulla: conosceva solo la fredda attesa e alla fine la morte. Kossil non comprendeva. Non capiva che era necessario trovare l’uomo. Non doveva avvenire com’era avvenuto con gli altri. Lei non l’avrebbe sopportato. Poiché doveva essere la morte, doveva essere rapida, alla luce del giorno. Indubbiamente sarebbe stato più giusto che il ladro, il primo uomo dopo tanti secoli che avesse avuto l’ardire di derubare le tombe, morisse di spada. Non aveva neppure un’anima immortale destinata alla rinascita. Il suo spettro si sarebbe aggirato gemendo nei corridoi. Non si poteva lasciarlo morire di sete lì nell’oscurità.
Quella notte, Arha dormì pochissimo. Il giorno seguente fu pieno di riti e di doveri. A sera, in silenzio e senza lanterna, lei andò da uno spioncino all’altro in tutti gli edifici bui del Luogo e della collina spazzata dal vento. Infine ritornò alla Casa Piccola per riposare, due o tre ore prima dell’alba, ma non trovò requie. Il terzo giorno, nel pomeriggio inoltrato, si avviò sola nel deserto, verso il fiume che adesso era basso per la siccità invernale, col ghiaccio tra i canneti. Aveva ricordato che una volta, in autunno, si era spinta molto lontano nel labirinto, oltre il Crocicchio delle Sei Vie, e lungo un corridoio curvilineo aveva udito, al di là delle pietre, il suono dell’acqua corrente. Un uomo assetato, se fosse giunto fin là, non vi sarebbe rimasto? C’erano spioncini perfino lì; dovette cercarli, ma Thar glieli aveva mostrati tutti, l’anno precedente, e li ritrovò senza troppe difficoltà. La sua memoria dei luoghi e delle forme era simile a quella di un cieco: sembrava che lei cercasse al tatto la via verso ogni punto nascosto, anziché trovarlo con lo sguardo. Al secondo spioncino, il più lontano dalle tombe, quando alzò il cappuccio per escludere la luce e accostò l’occhio al foro intagliato in una lastra di roccia piatta, vide sotto di sé il fioco barlume della lampada magica.
L’uomo era lì, seminascosto. Lo spioncino si affacciava sull’estremità del vicolo cieco. Arha poteva vedere solo il dorso, il collo piegato, e il braccio destro. Era seduto accanto all’angolo delle pareti e scalpellava le pietre con il coltello, un corto pugnale d’acciaio dall’impugnatura ingemmata. La lama era spezzata. La punta giaceva esattamente sotto lo spioncino. L’uomo l’aveva rotta cercando di svellere le pietre, di raggiungere l’acqua che sentiva scorrere limpida e mormorante nel mortale silenzio del sotterraneo, dall’altra parte dell’impenetrabile muraglia.
I movimenti dell’uomo erano apatici. Dopo quelle tre notti e quei tre giorni era molto diverso dalla figura che aveva sostato agile e calma davanti alla porta di ferro e aveva riso della propria sconfitta. Era ancora ostinato, ma l’energia l’aveva abbandonato. Non possedeva un sortilegio per scostare le pietre, ma doveva servirsi di quell’inutile coltello. Perfino la luce incantata era fioca e fosca. Mentre Arha l’osservava, la luce guizzò abbassandosi: l’uomo alzò la testa con un sussulto e lasciò cadere il pugnale. Poi, caparbiamente, lo raccolse e cercò d’insinuare tra le pietre la lama spezzata.
Distesa tra le canne ghiacciate sulla riva del fiume, senza rendersi conto del luogo dove si trovava e di ciò che stava facendo, Arha accostò la bocca alla fredda bocca della roccia e la riparò con le mani perché il suono non si disperdesse. — Mago! — disse, e la sua voce, scivolando nella gola di pietra, sussurrò freddamente nella galleria sotterranea.
L’uomo trasalì e si rialzò in piedi, e così sparì dal cerchio della visibilità quando lei cercò di vederlo. Arha accostò di nuovo le labbra allo spioncino e disse: — Torna indietro lungo la muraglia dalla parte del fiume, fino alla seconda svolta. La prima svolta a destra, poi saltane una, e poi di nuovo a destra. Alle Sei Vie, di nuovo a destra. Poi a sinistra, a destra, a sinistra, a destra. Rimani lì, nella Camera Dipinta.
Spostandosi per guardare di nuovo doveva aver lasciato che un raggio della luce del giorno saettasse per un momento nella galleria attraverso lo spioncino, perché, quando guardò, l’uomo era rientrato nel cerchio della visuale e guardava in su, verso l’apertura. Il volto, che adesso sembrava segnato da cicatrici, era teso e ansioso. Le labbra erano aride e nere, gli occhi febbrili. Alzò il bastone, portando la luce sempre più vicina agli occhi di Arha. Impaurita, lei si ritrasse, chiuse lo spioncino col coperchio di roccia e con i ciottoli, si rialzò e si affrettò a ritornare al Luogo. Si accorse che le tremavano le mani, e talvolta la vertigine l’invadeva. Non sapeva cosa fare.
Se l’uomo seguiva le sue istruzioni, sarebbe ritornato verso la porta di ferro, nella camera degli affreschi. Là non c’era nulla: non aveva una ragione per andarci. C’era uno spioncino nel soffitto della Camera Dipinta, molto efficiente, nella tesoreria del tempio degli dèi gemelli: forse era per questo che le era venuta l’idea. Non lo sapeva. Perché gli aveva parlato?
Avrebbe potuto calargli un po’ d’acqua attraverso uno spioncino, e poi chiamarlo in quel luogo. Così sarebbe rimasto in vita più a lungo. Fino a quando fosse piaciuto a lei, per l’esattezza. Se gli calava acqua e un po’ di cibo di tanto in tanto, quello avrebbe continuato per giorni e mesi a vagare nel labirinto; e lei avrebbe potuto osservarlo attraverso gli spioncini, e dirgli dove avrebbe trovato l’acqua, e qualche volta dargli indicazioni false in modo che vi andasse invano: ma sarebbe stato sempre costretto ad andare dove lei gli comandava. E così avrebbe imparato a burlarsi dei Senza Nome, a ostentare la sua sciocca virilità nei sepolcreti dei Morti Immortali!
Ma finché l’uomo era là, lei non avrebbe più potuto entrare nel labirinto. Perché no?, si chiese. E si diede la risposta: Perché lui potrebbe fuggire dalla porta di ferro, che dovrei lasciare aperta dietro di me… Ma non potrebbe spingersi più lontano della cripta. La verità era che aveva paura di affrontarlo. Aveva paura del suo potere, delle arti che aveva usato per penetrare nella cripta, della magia che teneva accesa quella luce. Ma era poi tanto temibile? Le potenze che regnavano nei luoghi tenebrosi erano dalla parte di lei, non di quell’uomo. Era evidente che lui non poteva far molto, nel regno dei Senza Nome. Non aveva aperto la porta di ferro, non aveva fatto comparire viveri per magia, non aveva fatto passare l’acqua attraverso la parete, non aveva evocato un mostro demoniaco per abbattere le muraglie, come lei aveva temuto. In tre giorni di vagabondaggi non aveva neppure trovato la strada fino alla porta del Grande Tesoro, che sicuramente aveva cercato. Neppure Arha aveva seguito le istruzioni di Thar per entrare in quella camera, procrastinando quella spedizione per un certo timore, una riluttanza, la sensazione che non fosse ancora venuto il momento.
E adesso si chiese: perché l’uomo non avrebbe dovuto compiere quella spedizione per lei? Poteva guardare quanto voleva i tesori delle tombe. Tanto, non gli sarebbero serviti a niente. E lei avrebbe potuto beffarlo, e dirgli di mangiare l’oro e di bere i diamanti.
Con la fretta nervosa e febbrile che da tre giorni si era impadronita di lei, corse al tempio degli dèi gemelli, aprì la piccola cripta del tesoro, e scoprì lo spioncino accuratamente celato nel pavimento.
Là sotto c’era la Camera Dipinta, ma era immersa nell’oscurità. La via che l’uomo doveva percorrere nel labirinto era molto più lunga, forse di parecchie miglia; e lei l’aveva dimenticato. E senza dubbio, era indebolito e non camminava svelto. Forse avrebbe scordato le sue istruzioni e avrebbe sbagliato a svoltare. Pochissime persone riuscivano a ricordare le istruzioni dopo averle udite una sola volta, come ci riusciva lei. Forse non aveva neppure compreso la lingua che lei parlava. Se era così, allora vagasse pure fino a quando fosse crollato a morire nel buio, lo sciocco, lo straniero, il miscredente. E che il suo spettro gemesse per le strade di pietra delle Tombe di Atuan, fino a quando la tenebra avrebbe divorato anche quello…
La mattina seguente, molto presto, dopo una notte di scarso sonno e di sogni maligni, Arha ritornò allo spioncino nel piccolo tempio. Guardò, e non vide nulla: tenebra. Calò una candela accesa in una piccola lanterna di stagno appesa a una catena. L’uomo era lì, nella Camera Dipinta. Oltre il lume della candela, lei ne vide le gambe e una mano inerte. Parlò nello spioncino, che era grande quanto una piastrella del pavimento: — Mago!
Nessun movimento. Era morto? Era tutta lì, dunque, la sua forza? Arha fece una smorfia; il cuore le batté più forte. — Mago! — gridò, e la sua voce risuonò nella cavità della camera sottostante. L’uomo si mosse, e lentamente si sollevò a sedere, e si guardò intorno frastornato. Dopo un poco alzò la testa, sbattendo le palpebre nel vedere la minuscola lanterna che dondolava dal soffitto. La sua faccia era uno spettacolo terribile, gonfia e scura come un volto di mummia.
Tese la mano verso il bastone che giaceva sul pavimento accanto a lui, ma sul legno non fiorì la luce. Non gli restava più nessun potere.
— Mago, vuoi vedere il tesoro delle Tombe di Atuan?
Lui guardava, stancamente, socchiudendo le palpebre nella luce della lanterna: non poteva scorgere altro. Dopo un po’, con una smorfia che forse era cominciata come sorriso, annuì, una volta sola.
— Esci da questa stanza e va’ a sinistra. Prendi il primo corridoio a sinistra… — Arha elencò la lunga serie di istruzioni, senza pause, e alla fine aggiunse: — Là troverai il tesoro che sei venuto a cercare. E forse troverai l’acqua. Quale preferiresti, ora?
L’uomo si alzò in piedi, appoggiandosi al bastone. Guardando in alto con occhi che non potevano vederla si sforzò di dire qualcosa, ma non c’era voce nella sua gola arida. Scrollò leggermente le spalle e lasciò la Camera Dipinta.
Lei non gli avrebbe dato l’acqua. E l’uomo, del resto, non avrebbe mai trovato la strada della stanza del tesoro. Le istruzioni erano troppo lunghe perché potesse ricordarle tutte; e c’era l’Abisso, se mai fosse giunto tanto lontano. Adesso era al buio. Avrebbe perso la strada, e avrebbe finito col cadere e morire chissà dove, nelle gallerie strette e aride. E Manan l’avrebbe trovato e l’avrebbe trascinato fuori. E quella sarebbe stata la fine. Arha strinse con le dita l’orlo dello spioncino e si dondolò avanti e indietro, avanti e indietro, mordendosi le labbra come per reggere una sofferenza insopportabile. Non gli avrebbe dato l’acqua. Non gli avrebbe dato l’acqua. Gli avrebbe dato la morte, la morte, la morte, la morte, la morte.