— Una buona traversata, signore, escludendo la tempesta di ieri.
— Quale nave ti ha condotto qui?
— L’Ombra, che veniva dalle Andrades.
— Quale volontà ti ha mandato qui?
— La mia.
L’arcimago guardò Ged e poi distolse gli occhi e cominciò a parlare in una lingua che il ragazzo non comprendeva, borbottando come un vecchio la cui mente divagava tra gli anni e le isole. Eppure, tra quei mormorii c’erano parole di ciò che l’uccello aveva cantato e di ciò che l’acqua aveva detto ricadendo. Non stava formulando un incantesimo, eppure nella sua voce c’era una potenza che scosse la mente di Ged: per un momento il ragazzo, sbalordito, ebbe l’impressione di scorgere se stesso in uno strano luogo immenso e deserto, solo tra le ombre. Eppure era sempre nel cortile soleggiato, e udiva il canto della fontana.
Un grosso uccello nero, un corvo di Osskil, si avvicinò camminando sulle pietre e sull’erba. Si accostò all’orlo della veste dell’arcimago e si fermò, tutto nero, col becco affilato come un pugnale e gli occhi simili a sassolini, fissando Ged in tralice. Beccò tre volte il bastone bianco cui si appoggiava Nemmerle, e il vecchio mago smise di borbottare e sorrise. — Corri e gioca, ragazzo — disse infine, come se parlasse a un bimbetto. Ged s’inginocchiò di nuovo davanti a lui. Quando si rialzò, l’arcimago non c’era più. C’era solo il corvo, che lo guardava col becco proteso come per beccuzzare il bastone scomparso.
Il corvo parlò, in quella che Ged immaginò che fosse la lingua di Osskil. — Terrenon ussbuk! — gracchiò. — Terrenon ussbuk orrek! — E se ne andò pavoneggiandosi com’era venuto.
Ged si girò per lasciare il cortile, chiedendosi dove potesse andare. Sotto l’arcata fu accolto da un giovane alto che lo salutò cerimoniosamente, chinando il capo. — Io sono Diaspro, figlio di Enwit del dominio di Eolg nell’isola di Havnor. Oggi sono al tuo servizio, per mostrarti la Grande Casa e per rispondere come posso alle tue domande. Come debbo chiamarti, signore?
Ged, un ragazzo venuto da un villaggio di montagna, che non aveva mai frequentato i figli dei ricchi mercanti e dei nobili, ebbe l’impressione che quel giovane si facesse beffe di lui, con il suo «servizio» e il suo «signore» e i suoi inchini. Rispose seccamente: — Mi chiamano Sparviero.
L’altro attese un momento, come se si aspettasse una risposta più cortese: e poiché non la ricevette si raddrizzò e si girò leggermente da una parte. Aveva due o tre anni più di Ged; era molto alto, e si muoveva con eleganza impettita: come un danzatore, pensò Ged. Portava un manto grigio, col cappuccio ributtato sulle spalle. Il primo posto in cui condusse Ged fu il guardaroba, dove Ged, come nuovo allievo, poteva trovarsi un mantello simile, della sua misura, e altri indumenti che potevano servirgli. Indossò la cappa grigioscura che aveva scelto, e allora Diaspro disse: — Ora sei uno di noi.
Diaspro aveva l’abitudine di sorridere lievemente, mentre parlava, e Ged provava la sensazione che le sue parole cortesi celassero un’ironia beffarda. — Gli abiti fanno il mago? — ribatté imbronciato.
— No — rispose il giovane. — Anche se ho sentito dire che le buone maniere fanno l’uomo. E adesso dove andiamo?
— Dove vuoi tu. Non conosco la casa.
Diaspro lo condusse per i corridoi della Grande Casa, mostrandogli i cortili scoperti e le gallerie, la sala degli Scaffali dov’erano conservati i libri della sapienza e i tomi delle rune, ia grande sala del Focolare dove tutta la scuola si radunava nei giorni di festa; e ai piani superiori, nelle torri e sotto i tetti, le piccole celle dove dormivano gli studenti e i maestri. Quella di Ged era situata nella torre meridionale, con una finestra affacciata sui tetti spioventi di Thwil, dalla parte del mare. Come le altre celle, era spoglia: c’era soltanto un pagliericcio nell’angolo. — Qui viviamo molto semplicemente — disse Diaspro. — Ma immagino che non ti dispiacerà.
— Ci sono abituato. — Poi, cercando di mostrarsi all’altezza di quel giovane educato e sdegnoso, Ged aggiunse: — Immagino che tu non lo fossi, quando sei arrivato.
Diaspro lo guardò, e il suo sguardo disse, senza bisogno di parole: « Cosa puoi sapere, tu, di quello cui ero abituato io, figlio del signore del domìnio di Eolg nell’isola di Havnor?». Ma a voce alta, Diaspro disse soltanto: — Vieni.
Mentre si trovavano di sopra, era suonato un gong: scesero per il pasto di mezzogiorno alla lunga tavola del refettorio, insieme a un centinaio di ragazzi e di giovani. Ognuno si serviva da sé, scherzando con i cuochi attraverso gli sportelli della cucina che si aprivano sul refettorio, riempiendosi il piatto dalle grandi ciotole che fumavano sui davanzali, sedendosi alla lunga tavola dove preferiva. — Dicono — fece Diaspro rivolgendosi a Ged, — che per quanto siano numerosi coloro che siedono a tavola, ci sia sempre posto per tutti. — Senza dubbio c’era posto per molti gruppi rumorosi di giovani che chiacchieravano e mangiavano di buon appetito, e per uomini più anziani dal manto grigio fissato alla gola da una fibbia d’argento, che stavano seduti più tranquillamente, soli o a due a due, con espressioni gravi e pensose, come se avessero molte cose su cui riflettere. Diaspro condusse Ged a sedersi accanto a un individuo atticciato che si chiamava Veccia e non parlava molto ma mangiava con grande impegno. Aveva l’accento dello stretto Orientale, e la carnagione scurissima: non bruno-rossiccia come Ged e Diaspro e quasi tutti i popoli dell’arcipelago, ma nero-bruna. Era un tipo semplice, e i suoi modi non erano molto raffinati. Brontolò per criticare il pasto, quando ebbe finito; ma poi, rivolgendosi a Ged, disse: — Almeno non è illusione, come tante cose intorno a noi: ti aiuta a tenerti bene in carne. — Ged non sapeva cosa intendesse, ma provò una certa simpatia per lui e fu lieto quando, dopo il pasto, Veccia rimase con loro.
Scesero in città, perché Ged potesse imparare a conoscerla. Le vie di Thwil, sebbene fossero poche e corte, si snodavano curiosamente tortuose tra le case dai tetti aguzzi, ed era facile smarrirsi. Era una strana cittadina, e anche i suoi abitanti erano strani: pescatori e operai e artigiani come tutti gli altri, ma così abituati alla magia sempre in atto nell’isola dei Saggi da sembrare anche loro un po’ maghi. Parlavano (come Ged aveva già scoperto) per enigmi, e nessuno di loro avrebbe battuto ciglio nel vedere un ragazzo trasformarsi in pesce o una casa involarsi nell’aria: sapendo che si trattava di uno scherzo da studenti, avrebbero continuato a risuolare scarpe o a tagliare la carne di montone senza preoccuparsi.
Dopo essere passati davanti alla porta posteriore e aver attraversato i giardini della Grande Casa, i tre ragazzi superarono le chiare acque del fiume Thwil su un ponte di legno e proseguirono verso nord, tra boschi e pascoli. Il sentiero salì, tortuosamente. Passarono tra querceti dove le ombre erano fonde nonostante lo splendore del sole. C’era un bosco sulla sinistra, non molto lontano, che Ged non riusciva a scorgere chiaramente. Il sentiero non lo raggiungeva mai, anche se pareva sempre sul punto di arrivarci. Ged non riusciva neppure a distinguere che alberi fossero. Veccia, vedendolo intento a guardare, mormorò: — Quello è il bosco Immanente. Non possiamo andarci, per ora…
Nei pascoli riscaldati dal sole sbocciavano fiori gialli. — Erba-scintilla — disse Diaspro. — Cresce dove il vento lasciò cadere le ceneri di Ilien incendiata, quando Erreth-Akbe difese le isole Interne dal signore del fuoco. — Soffiò su un fiore appassito, e i semi liberati si sollevarono nel vento come scintille al sole.
Il sentiero li portò intorno alla base di una grande collina verde, tondeggiante e priva d’alberi, la stessa che Ged aveva scorto dalla nave quando erano entrati nelle acque incantate dell’isola di Roke. Sulle pendici, Diaspro si fermò. — A casa mia, a Havnor, ho sentito parlare molto della magia di Gont, e sempre in toni d’elogio: da molto tempo, quindi, desideravo vederla all’opera. Adesso abbiamo qui uno di Gont e siamo sulle pendici della collina di Roke, che affonda le radici fino al centro della Terra. Tutti gli incantesimi sono fortissimi, qui. Facci vedere qualcosa, Sparviero. Mostraci il tuo stile.
Confuso e sconcertato, Ged non disse nulla.
— Più tardi, Diaspro — disse Veccia, con quel suo fare semplice. — Lascialo in pace per un po’.
— Possiede l’abilità o il potere, altrimenti il custode non l’avrebbe lasciato entrare. Perché non ce lo mostra adesso, anziché più tardi? Giusto, Sparviero?
— Io possiedo abilità e potere — disse Ged. — Mostrami quello che intendi.
— Illusioni, naturalmente: trucchi, giochi di apparenze. Così!
Tendendo il dito, Diaspro pronunciò alcune parole strane: e nel punto che lui indicava, sul fianco della collina, tra l’erba verde sgorgò un rivoletto d’acqua che crebbe, finché l’acqua scaturita dalla sorgente prese a scorrere giù per il declivio. Ged immerse la mano nel ruscello e la sentì bagnata; bevve, e l’acqua era fresca. Tuttavia non poteva placare la sete, perché era soltanto un’illusione. Con un’altra parola, Diaspro arrestò l’acqua e l’erba ondeggiò asciutta nel sole. — Ora a te, Veccia — disse con quel suo sorriso sereno.
Veccia si grattò la testa, con aria cupa, ma prese in mano un po’ di terra e cominciò a cantare con voce stonata, modellandola e plasmandola con le dita scure, premendola, accarezzandola: e all’improvviso la terra divenne un minuscolo essere, come un calabrone o una mosca pelosa, che s’involò ronzando sopra la collina di Roke e svanì.
Ged restò a guardare, depresso. Lui conosceva solo la magia dei villaggi, gli incantesimi per chiamare le capre, guarire le verruche, spostare pesi o aggiustare le pentole.
— Io non faccio simili trucchi — disse. Questo bastò a Veccia, che si mosse per proseguire; ma Diaspro ribatté: — Perché no?
— La magia non è un gioco. Noi di Gont non la usiamo per il nostro piacere o per acquisire elogi — rispose altezzosamente Ged.
— E per cosa la usate? — chiese Diaspro. — Per denaro?
— No…! — Ma non gli venne in mente altro che potesse dire per mascherare la sua ignoranza e salvare il suo orgoglio. Diaspro rise, piuttosto bonariamente, e proseguì, conducendoli intorno alla collina di Roke. E Ged lo seguì, incupito e ferito: sapeva di essersi comportato da sciocco, e ne dava la colpa a Diaspro.
Quella notte si sdraiò, avviluppato nel mantello, sul pagliericcio della cella fredda e buia, nel silenzio assoluto della Grande Casa di Roke: e la stranezza di quel luogo e il pensiero degli incantesimi e delle magie che vi venivano compiuti cominciarono a opprimerlo. L’oscurità lo circondava, e lo invadeva il timore. Avrebbe desiderato essere dovunque tranne che a Roke. Veccia, però, si presentò alla porta, con una piccola sfera azzurrognola di luce incantata che gli oscillava sopra la testa per rischiarargli la via, e chiese se poteva entrare a parlare un po’. Chiese a Ged di Gont, e poi parlò con affetto delle proprie isole dello stretto Orientale, e raccontò che il fumo dei focolari dei villaggi veniva spinto attraverso quello stretto tranquillo, la sera, tra quelle isolette dai nomi buffi: Korp, Kopp e Holp, Venway e Vemish, Iffish, Koppish e Sneg. Quando schizzò i contorni di quelle terre sulle pietre del pavimento, per mostrarne a Ged la disposizione, le linee che tracciava con l’indice brillarono fioche, come se fossero state disegnate con un bastoncino d’argento, prima di svanire. Veccia era alla scuola da tre anni, e presto sarebbe stato proclamato incantatore: per lui, operare le arti minori della magia era come per un uccello volare. Eppure possedeva una dote innata ancora più grande: l’arte della bontà. Quella notte, e poi sempre dopo quell’occasione, offrì e donò a Ged la propria amicizia, un’amicizia sicura e aperta che lo Sparviero non poté fare a meno di ricambiare.
Eppure Veccia era amichevole anche con Diaspro, che aveva fatto fare a Ged la figura dello sciocco quel primo giorno, sulla collina di Roke. Ged non l’aveva dimenticato, e a quanto pareva non l’aveva dimenticato neppure Diaspro, che gli parlava sempre in tono educato e con un sorriso beffardo. Ged non tollerava che il suo orgoglio fosse sminuito o divenisse oggetto di condiscendenza. Perché nessuno di loro, nonostante i trucchi ingegnosi, aveva salvato un villaggio mediante la magia. Di nessuno di loro Ogion aveva scritto che sarebbe diventato il più grande mago di Gont.
Perciò, facendo appello all’orgoglio, impegnò tutta la forza di volontà nei compiti che gli venivano assegnati: le lezioni e le arti e le storie e le abilità insegnate dai grigiovestiti maestri di Roke, che venivano chiamati «i nove».
Per una parte della giornata studiava col maestro cantore, imparando le gesta degli eroi e le ballate della saggezza, incominciando dal più antico di tutti i canti, la Creazione di Éa. Poi, insieme a una decina di altri ragazzi, si esercitava col maestro del vento nelle arti metereologiche. Trascorrevano intere giornate, in primavera e in estate, nella baia di Roke, a bordo di piccole imbarcazioni, esercitandosi a guidarle con la parola, e ad acquietare le onde, e a parlare al vento del mondo, e a suscitare il vento magico. Erano arti molto complesse, e spesso Ged veniva colpito alla testa dal boma che girava violentemente quando la barca virava, spinta da un vento che all’improvviso spirava al contrario, oppure la sua imbarcazione e un’altra si scontravano sebbene avessero a disposizione tutta la baia per muoversi, oppure tutti e tre i ragazzi nella sua barca finivano di colpo in acqua quando si levava un’ondata enorme e imprevista. Ci furono spedizioni più tranquille a riva, in altri giorni, col maestro erborista che insegnava le qualità e le proprietà dei vegetali; e il maestro delle mani insegnava la prestidigitazione e i giochi d’abilità e le arti minori della metamorfosi.
Ged riusciva bene in tutti questi studi, e dopo un mese se la cavava meglio di altri ragazzi che erano arrivati a Roke un anno prima di lui. I trucchi dell’illusione, soprattutto, gli venivano così facili che gli sembrava di conoscerli fin dalla nascita e di avere solo bisogno che gli venissero ricordati. Il maestro delle mani era un vecchio gentile e sereno, che trovava un divertimento inesauribile nello spirito e nella bellezza delle arti da lui insegnate. Ben presto Ged non provò più soggezione davanti a lui: gli chiedeva di questo e di quell’incantesimo, e il maestro sorrideva e gli mostrava tutto ciò che gli era stato chiesto. Ma un giorno, poiché era deciso a svergognare finalmente Diaspro, Ged disse al maestro delle mani, nel cortile delle apparenze: — Signore, tutti questi incantesimi si somigliano: quando ne conosci uno li conosci tutti. E appena cessa la tessitura dell’incantesimo, l’illusione svanisce. Ora, se io trasformo un sassolino in diamante… — (e lo fece, con una parola e un brusco movimento del polso) — cosa devo fare perché il diamante rimanga diamante? Come si può bloccare l’incantesimo della metamorfosi per farlo durare?
Il maestro delle mani guardò la gemma che scintillava sul palmo della mano di Ged, fulgida come il fior fiore del tesoro di un drago. Mormorò una parola, Tolk, e il sassolino tornò a essere un grigio e ruvido frammento di roccia. Il maestro lo prese e lo mostrò nel cavo della mano. — Questo è un sasso: tolk nella Vera Favella — disse, alzando lo sguardo verso Ged, con aria mite. — Un pezzo della pietra di cui è formata l’isola di Roke, un frammento della terraferma su cui vivono gli uomini. È se stesso. È parte del mondo. Con la metamorfosi-illusione puoi farlo sembrare un diamante o un fiore o una mosca o un occhio o una fiamma… — La pietruzza passò da una forma all’altra, via via che il maestro le nominava, e poi ritornò sasso. — Ma è soltanto apparenza. L’illusione inganna i sensi di chi osserva: lo induce a vedere, udire e sentire che l’oggetto è mutato. Ma non muta l’oggetto stesso. Per cambiare questo sasso in una gemma, devi mutare il suo vero nome. E far questo, figlio mio, anche a un così piccolo frammento di mondo, significa cambiare il mondo stesso. Si può fare. In verità si può fare. È l’arte del maestro della metamorfosi: e tu l’imparerai, quando sarai pronto ad apprenderla. Ma non dovrai cambiare una sola cosa, un solo sassolino o un solo granello di sabbia, se non quando saprai quale bene e quale male deriveranno da quell’atto. Il mondo è in equilibrio. Il potere di trasmutare e di evocare può alterare l’equilibrio del mondo. È pericoloso, quel potere. Molto pericoloso. Devi seguire la conoscenza e servire la necessità. Accendere una candela è gettare un’ombra…