Ged restò immobile per lunghi istanti, come chi ha ricevuto una grande notizia e deve schiudere lo spirito ad accoglierla. Era un gran dono, quello che gli aveva fatto Veccia: la conoscenza del suo vero nome.
Nessuno conosce il vero nome di un uomo, tranne lui stesso e colui che gliel’ha dato. Alla fine può decidere di rivelarlo al fratello, o alla moglie, o a un amico: eppure neanche costoro l’useranno mai quando una terza persona potrebbe udirlo. Di fronte agli altri, come tutti, lo chiameranno col suo nome d’uso, il suo nomignolo: come Sparviero, e Veccia, e Ogion che significa «pigna d’abete». Se gli uomini comuni nascondono il loro vero nome a tutti, eccettuati quei pochi che amano e di cui si fidano assolutamente, tanto più devono farlo i maghi, poiché sono più pericolosi ed esposti a maggiori pericoli. Chi conosce il nome di un uomo ha in custodia la sua vita. Perciò, a Ged che aveva perso la fede in se stesso, Veccia aveva fatto il dono che solo un amico può fare, la prova della fiducia più incrollabile.
Ged si sedette sul pagliericcio e lasciò spegnere il globo di luce incantata, che si dissolse irradiando una lieve zaffata di gas di palude. Accarezzò l’otak, che si sdraiò comodamente e si addormentò sul suo ginocchio come se non avesse mai fatto altro. La Grande Casa era immersa nel silenzio. Ged pensò che era la vigilia dell’anniversario del suo passaggio, il giorno in cui Ogion gli aveva dato il nome. Erano trascorsi quattro anni. Ricordò il freddo della sorgente montana che aveva attraversato nudo e senza nome. Cominciò a pensare ad altre polle luminose del fiume Ar, dove un tempo aveva l’abitudine di andare a nuotare; e al villaggio di Dieci Ontani sotto le grandi foreste della montagna; alle ombre del mattino sulla via polverosa del villaggio, al fuoco che balzava sotto gli sbuffi del mantice nella fucina in un pomeriggio d’inverno, alla capanna buia e fragrante della strega, dove l’aria era appesantita dai fumi e dai sortilegi. Da molto tempo non pensava a queste cose. Ora tornavano a lui, nella notte del suo diciassettesimo compleanno. Tutti gli anni e i luoghi della sua vita breve e infranta gli tornarono alla mente e si ricomposero. Finalmente seppe di nuovo, dopo quel lungo e amaro tempo perduto, chi era e dov’era.
Ma dove sarebbe andato negli anni a venire, questo non lo vedeva; e aveva paura di vederlo.
La mattina dopo partì per attraversare l’isola, con l’otak sulla spalla come un tempo. Questa volta impiegò tre giorni, non due, per giungere alla Torre Isolata, ed era stanco morto quando arrivò in vista della torre sopra i mari schiumanti e sibilanti del promontorio settentrionale. All’interno c’era buio e freddo, come ricordava, e Kurremkarmerruk sedeva sul suo alto seggio, scrivendo elenchi di nomi. Diede un’occhiata a Ged e gli disse, senza porgergli il benvenuto: — Va’ a letto: chi è stanco è stupido. Domani potrai aprire il Libro delle Imprese dei Creatori e impararne i nomi.
Al termine dell’inverno, Ged tornò alla Grande Casa. Venne proclamato incantatore, e questa volta l’arcimago Gensher accettò la sua promessa di devozione. Poi studiò le arti superiori e gli incantamenti, passando dalle arti dell’illusione alle opere della vera magia e imparando ciò che doveva sapere per guadagnarsi il bastone di mago. La difficoltà nel pronunciare gli incantesimi si attenuò col passare dei mesi, e l’abilità ritornò nelle sue mani; eppure non fu più rapido nell’apprendere com’era stato un tempo, poiché la paura gli aveva insegnato una dura lezione. Tuttavia non ci furono portenti nefasti o incontri maligni, neppure quando operava i Grandi Incantesimi della creazione e della forma, che sono pericolosissimi. Talvolta si chiedeva se l’ombra da lui scatenata si era indebolita, o se era fuggita dal mondo, perché non appariva più nei suoi sogni. Ma in cuor suo sapeva che quella speranza era una follia.
Dai maestri e dagli antichi libri apprese tutto ciò che poteva sugli esseri simili all’ombra da lui scatenata; ma c’era poco da imparare. Quelle creature non venivano descritte, e non se ne parlava direttamente. C’erano solo accenni, qua e là nei vecchi libri, a cose che potevano essere come la bestia-ombra. Non era lo spettro di un umano, e non era una creatura delle Vecchie Potenze della Terra, eppure sembrava che avesse con loro qualche legame. Nel Libro dei Draghi, che Ged lesse molto attentamente, c’era la storia di un antico signore dei draghi che era finito in balìa di una delle Vecchie Potenze, una pietra parlante che stava in una lontana terra settentrionale. «Al comando della pietra», diceva il libro, «il signore parlò per evocare lo spirito di un morto dal regno dei morti; ma la sua magia fu deviata dalla volontà della pietra, e con lo spirito del morto venne anche una cosa che non era stata chiamata e che lo divorò all’interno e con la sua forma si aggirò annientando gli uomini». Ma il libro non diceva cosa fosse quella «cosa», e non narrava la conclusione della vicenda. E i maestri non sapevano da dove poteva essere venuta quell’ombra; dalla nonvita, aveva detto l’arcimago; dalla parte sbagliata del mondo, diceva il maestro delle metamorfosi; e il maestro evocatore diceva «Non so». L’evocatore era venuto spesso a sedersi accanto al letto di Ged, durante la sua infermità. Era cupo e grave come sempre, ma adesso Ged conosceva la sua pietà e gli voleva bene. — Non so. Della cosa so soltanto questo: solo un grande potere ha potuto evocarla, e forse un solo potere. Solo una voce: la tua voce. Ma ciò che significa, non lo so. Lo scoprirai tu. Dovrai scoprirlo, o morirai, o avrai un fato peggiore della morte… — Parlava sommessamente, e i suoi occhi erano tristi mentre guardava Ged. — Come tutti i ragazzi, tu pensavi che un mago potesse fare qualunque cosa. Un tempo lo pensavo anch’io. Lo pensavamo tutti. E la verità è che quando il vero potere di un uomo cresce e la sua conoscenza si amplia, la via che può percorrere diventa sempre più stretta: finché lui non sceglie più nulla ma fa solo ed esclusivamente ciò che deve fare…
L’arcimago, dopo il diciottesimo compleanno di Ged, lo mandò a lavorare col maestro degli schemi. Di ciò che s’impara nel Bosco Immanente non si parla altrove. Si dice che là non si operino incantesimi, eppure quel luogo è un incantamento. Talvolta gli alberi del bosco si vedono e talvolta non si vedono, e non sono sempre nello stesso luogo dell’isola di Roke. Si dice che gli stessi alberi del bosco siano saggi. Si dice che il maestro degli schemi apprenda la sua suprema magia là nel bosco, e che se mai gli alberi morissero anche la sua saggezza morirebbe e in quel giorno le acque salirebbero e sommergerebbero le isole di Earthsea, che Segoy trasse dalle profondità degli abissi nel tempo anteriore al mito, tutte le terre dove dimorano uomini e draghi.
Ma sono tutte cose che si sentono dire: i maghi non ne parlano.
I mesi trascorsero, e finalmente, un giorno di primavera, Ged ritornò alla Grande Casa: non sapeva cosa gli avrebbero chiesto ancora. Alla porta che dà sul sentiero attraverso i campi, verso la collina di Roke, incontrò un vecchio che l’attendeva sulla soglia. In un primo momento non lo riconobbe; poi, riflettendo, ricordò che era colui che l’aveva fatto entrare nella scuola il giorno del suo arrivo, cinque anni prima.
Il vecchio sorrise, lo chiamò per nome e chiese: — Sai chi sono?
Ged aveva riflettuto varie volte che si parlava sempre dei nove maestri di Roke ma che lui ne conosceva otto soltanto: del vento, delle mani, erborista, cantore, delle metamorfosi, evocatore, dei nomi, degli schemi. Sembrava che la gente parlasse dell’arcimago come se fosse il nono. Eppure, quando c’era da scegliere un nuovo arcimago, nove maestri si riunivano per eleggerlo.
— Credo che tu sia il maestro custode della porta — disse Ged.
— Lo sono. Ged, tu sei entrato a Roke dicendo il tuo nome. Ora puoi ottenere la libertà dicendo il mio. — Così disse il vecchio sorridendo, e attese. Ged restò ammutolito.
Conosceva mille modi e arti e mezzi per scoprire i nomi delle cose e degli uomini: quell’arte faceva parte di tutto ciò che aveva imparato a Roke, perché senza quella sarebbe stato possibile operare ben poche magie utili. Ma scoprire il nome di un mago e maestro è ben diverso. Il nome di un mago è nascosto meglio di un’aringa nel mare, è meglio difeso della tana di un drago. Un incantesimo rivelatore viene sempre parato da un incantesimo più forte, le sottigliezze sono inutili, le domande subdole ricevono subdole risposte, e la forza ricade rovinosamente su chi la usa.
— Tu custodisci una porta stretta, maestro — disse infine Ged. — Dovrò sedere qui fuori nei campi, credo, e digiunare fino a quando sarò abbastanza magro da poter passare.
— Come vuoi — replicò sorridendo il custode della porta.
Perciò Ged si allontanò un poco e si sedette sotto un ontano sulle rive del torrente Thwil, lasciando che il suo otak corresse giù a giocare nelle acque e a cercare granchiolini sulle rive fangose. Il sole tramontò, luminoso e a ora tarda, poiché ormai era primavera avanzata. Le lanterne e le luci incantate brillavano alle finestre della Grande Casa, e ai piedi della collina le vie della cittadina di Thwil si riempirono di oscurità. Le civette chiurlavano sui tetti e i pipistrelli svolazzavano nell’aria del crepuscolo sopra il torrente, e Ged era ancora là a chiedersi come poteva apprendere — con la forza, l’astuzia o la magia — il nome del custode. Più rifletteva e meno riusciva a trovare, tra tutte le arti magiche che aveva imparato in quei cinque anni a Roke, una che servisse a strappare un simile segreto a un mago.
Si sdraiò sul prato e dormì sotto le stelle, con l’otak raggomitolato in tasca. Dopo il levar del sole si avviò, ancora digiuno, alla porta della Casa, e bussò. Il custode aprì.
— Maestro — disse Ged, — non posso strapparti il tuo nome poiché non sono abbastanza forte, e non posso estorcertelo con l’astuzia poiché non sono abbastanza saggio. Perciò mi accontenterò di restare qui, e d’imparare o servire, come vorrai: a meno che per caso tu voglia rispondere a una mia domanda.
— Chiedi.
— Qual è il tuo nome?
Il custode sorrise e disse il proprio nome; e Ged, ripetutolo, entrò per l’ultima volta nella Casa.
Quando la lasciò di nuovo portava un pesante mantello azzurro-cupo, dono della cittadinanza di Torning Bassa, dov’era diretto, perché là attendevano un mago. Portava anche un bastone alto come lui, intagliato nel legno di tasso e col puntale di bronzo. Il custode gli disse addio aprendogli la porta posteriore della Grande Casa, la porta di corno e d’avorio, e lui scese per le vie di Thwil, verso la nave che l’attendeva sulle acque luminose del mattino.
IL DRAGO DI PENDOR
A occidente di Roke, affollate tra le due grandi terre di Hosk e di Ensmer, stanno le Novanta Isole. La più vicina a Roke è Serd, e la più lontana è Seppish, che si trova quasi nel mare di Peln; e che siano veramente novanta in tutto è una questione che non è mai stata risolta, perché se contate solo le isole che hanno sorgenti d’acqua dolce sono appena settanta, mentre se contate tutte le rocce potete arrivare a più di cento senza aver terminato e poi la marea cambierebbe. I canali tra le isolette sono angusti, e le miti maree del mare Interno, irritate e sconvolte, salgono e scendono, così che dove all’alta marea ci sono magari tre isole, con la bassa marea può darsi che ce ne sia una soltanto. Eppure, nonostante i pericoli delle maree, ogni bambino capace di camminare sa anche remare, e ha la sua barchetta; le massaie attraversano a remi i canali per prendere una tazza di tè di canna con le vicine; i venditori ambulanti magnificano le loro mercanzie gridando al ritmo cadenzato dei loro remi. Tutte le strade, là, sono d’acqua salata, ostruite soltanto dalle reti tese da una casa all’altra per catturare i pesciolini chiamati turby, il cui olio è la ricchezza delle Novanta Isole. Ci sono pochi ponti, e non ci sono grandi città. Ogni isoletta è coperta da fattorie e case di pescatori, e dieci o venti isole formano una municipalità. Una di queste era Torning Bassa, la più occidentale, che non guardava sul mare Interno bensì verso l’oceano vuoto, quell’angolo solitario dell’arcipelago dove sta soltanto Pendor, l’isola devastata dai draghi, e più oltre ci sono le acque desolate dello stretto Occidentale.
C’era una casa pronta per il nuovo mago della municipalità. Stava su una collina, tra i verdi campi d’orzo, riparata dal vento occidentale grazie a un boschetto d’alberi di pendick che adesso rosseggiavano di fiori. Affacciandosi sulla porta si vedevano altri tetti di paglia e boschetti e giardini, e altre isole con i tetti e i campi e le colline, separate dai numerosi e lucenti canali tortuosi del mare. Era una casa povera, senza finestre, col pavimento di terra battuta, eppure era migliore di quella in cui era nato Ged. Gli isolani di Torning Bassa, pieni di soggezione al cospetto del mago venuto da Roke, si scusarono per la sua modestia. — Non abbiamo pietre da costruzione — disse uno. — Nessuno di noi è ricco, sebbene qui nessuno muoia di fame — disse un altro; e un terzo: — Almeno sarà asciutta, perché io stesso ho provveduto a sistemare la paglia del tetto, signore. — A Ged sembrava un palazzo. Ringraziò sinceramente i maggiorenti della municipalità, e diciotto di loro tornarono a casa, ognuno con la propria barca a remi e alla propria isola, ad annunciare ai pescatori e alle massaie che il nuovo mago era un giovane strano e tetro che parlava poco ma bene e senza orgoglio.
Forse c’erano ben pochi motivi d’orgoglio, in quel primo incarico di Ged. I maghi addestrati a Roke andavano solitamente nelle città e nei castelli, al servizio di grandi signori che li tenevano nel massimo onore. I pescatori di Torning Bassa, normalmente, avrebbero avuto tra loro soltanto una strega o un semplice incantatore, per affatturare le reti da pesca e cantare sortilegi augurali sulle barche nuove e guarire bestie e uomini dalle loro infermità. Ma negli ultimi anni il vecchio drago di Pendor aveva messo al mondo prole: adesso nove draghi, si diceva, si annidavano fra le torri diroccate dei signori del mare di Pendor, trascinando il ventre scaglioso su e giù per le scale marmoree e oltre le soglie devastate. Poiché in quell’isola morta mancava il cibo, un anno o l’altro, quando fossero cresciuti e li avesse spinti la fame, se ne sarebbero allontanati. Già ne erano stati visti quattro in volo sopra le spiagge sud/occidentali di Hosk: non erano atterrati, ma spiavano gli ovili, le stalle e i villaggi. La fame di un drago si desta lentamente, ma è insaziabile. Perciò gli isolani di Torning Bassa avevano inviato a Roke una supplica, chiedendo un mago che li proteggesse dal pericolo che incombeva all’orizzonte occidentale, e l’arcimago aveva giudicato fondati i loro timori.
— In quel luogo non ci sono comodità — aveva detto a Ged il giorno in cui l’aveva proclamato mago. — Né fama né ricchezza, forse neppure rischi. Andrai?
— Andrò — aveva risposto Ged, e non solo per ubbidienza. Dopo la notte sulla collina di Roke non desiderava più la fama e l’ostentazione, com’era avvenuto un tempo. Adesso dubitava sempre della sua forza e temeva di mettere alla prova il suo potere. Eppure, sentir parlare dei draghi aveva suscitato in lui una grande curiosità. Su Gont non c’erano più draghi da molti secoli; e nessun drago volerebbe mai nei pressi di Roke, e perciò anche là sono soltanto oggetto di favole e di canti, cose descritte e mai vedute. Ged aveva imparato alla scuola tutto ciò che poteva sui draghi, ma una cosa è leggere dei draghi e un’altra è incontrarli. L’occasione gli stava davanti, e perciò aveva risposto di slancio: — Andrò.
L’arcimago Gensher aveva annuito, ma il suo sguardo era triste. — Dimmi — aveva chiesto infine, — hai paura di lasciare Roke? Oppure sei ansioso di andare?