Gli osservatori - Силверберг Роберт 2 стр.


Correzione: quasi l’unica cosa.

— Miciolino ritroverà papà e lo farà ritornare? — domandò Jill.

— Lo spero, tesoro. Adesso dormi e sogna il tuo Miciolino. E papà.

Kathryn armeggiò con il quadro comandi del monitor, predisponendolo per una leggera vibrazione nel materasso della bambina. Jill sorrise. I suoi occhi si chiusero. Kathryn abbassò la luce, poi la spense del tutto. Tornando in soggiorno decise di vedere se il notiziario TV delle otto diceva qualcosa a proposito di quell’affare nel cielo. «I dischi volanti sono atterrati…» o roba del genere. Posò la mano a coppa sul pomo sporgente dalla parete, ed il video si illuminò vividamente. Appena in tempo.

«… rapporti da Taos ed ancora più a sud da Albuquerque. È stata osservata anche a Los Alamos, Grants e Jemez; Pueblo. Si tratta di una delle meteore più luminose che siano mai state viste, secondo il dottor J.F. Kelly dell’ufficio tecnico di Los Alamos. Un gruppo di scienziati inizierà domani le ricerche dei resti dell’enorme palla di fuoco. Per coloro che non l’avessero vista, trasmetteremo tra novanta secondi una registrazione dell’evento. Ripetiamo che non c’è motivo di allarme, assolutamente nessun motivo di allarme per questa insolita meteora.»

Grazie a Dio, pensò Kathryn. Una meteora. Una stella cadente. Non un jet in fiamme, né un razzo esploso. Niente vedove, stanotte. Non voleva, che qualcuno soffrisse come aveva dovuto soffrire lei.

Se adesso fosse ritornato il gattino! Non sperava di vedere ricomparire Ted sulla porta di casa, ma il gattino poteva essere ancora vivo, magari al sicuro chissà dove, forse dentro qualche garage. Kathryn spense il televisore, e tese le orecchie per cogliere eventuali miagolii. Al di fuori il silenzio era assoluto.

Il colonnello Tom Falkner non vide il globo infuocato. Mentre solcava il cielo, lui si trovava nella sala di ritrovo degli ufficiali della base aerea, a bere dello scotch giapponese fin troppo a buon mercato e a guardare senza interesse la gara di basket in TV, fra New York e San Diego. Udì, al di sopra della voce ronzante del telecronista, due tenenti che parlavano in tono sommesso di dischi volanti. Uno dei due era fermamente convinto che si trattasse proprio di navi provenienti dallo spazio. L’altro aveva assunto la tipica posizione dello scettico: mostrami un uomo venuto da un altro pianeta, mostrami un frammento del carrello d’atterraggio di un disco volante, mostrami qualsiasi cosa che io possa toccare, ed io ci crederò. Altrimenti no.

Dovevano essere entrambi un po’ alticci, si rese conto Falkner, sennò non avrebbero parlato affatto di dischi volanti. Non con lui presente nella stanza. In ogni caso, si illudevano di tenere per sé la loro conversazione, risparmiando al colonnello Falkner l’imbarazzo di dover udire per l’ennesima volta quelle due stupide parole, «disco volante». Tutti nella base erano pieni di tatto, con il povero colonnello Falkner. Tutti sapevano che il destino lo aveva toccato duramente, e cercavano di facilitargli il più possibile le cose.

Si sollevò sui gomiti ed emerse dalla sua sedia vibrante, dirigendosi rigidamente verso il bar. Il giovane e compiacente sottufficiale che si trovava dietro il bancone gli rivolse un ampio sorriso.

— Signore?

— Un altro scotch. Fammelo doppio.

Vi era forse un’ombra di riprovazione negli occhi del barista? Un barlume di disprezzo per il colonnello ubriaco? Un barista non dovrebbe trattare con condiscendenza i suoi clienti, anche se si dava il caso che il barista in questione fosse un bel ragazzo dell’Oklahoma, il quale non avrebbe toccato un goccio di alcool a meno che non gli fosse espressamente ordinato da un superiore. Falkner aggrottò la fronte, dicendosi che era troppo sensibile, che in quei giorni leggeva troppo nelle espressioni, nelle parole e perfino nei silenzi della gente. Era solo un fascio di terminazioni nervose messe a nudo, ecco il suo problema. Beveva quel puzzolente surrogato di pseudo-Glenlivet per alleviare la sua tensione, solo per ritrovarsi poi con un ulteriore fardello di sconforto e di senso di colpa.

Il ragazzo spinse un bicchiere verso di lui. Le bombolette vaporizzanti non andavano molto di moda nella mensa ufficiali. Finché c’era del personale per versare, gli ufficiali che si ritenevano gentiluomini preferivano farsi versare decentemente le loro bevande alcoliche dentro i bicchieri, anziché farsele iniettare come medicine nella maniera in uso nel 1982. Falkner borbottò qualche parola di assenso ed afferrò il bicchiere con la mano dalle nocche pelose. Giù nella gola. In un sorso che lo fece trasalire.

— Perdoni la mia indiscrezione, signore, ma com’è quella roba giapponese?

— Non l’hai mai bevuta?

— Oh, no, signore. — Il barista guardò Falkner come se il colonnello gli avesse proposto un modo particolarmente sgradevole per rovinarsi con le, sue mani. — Mai. Non sono affatto un bevitore. Credo sia proprio per questo che il calcolatore mi ha assegnato a questo lavoro di barista. Eh. Eh.

— Eh, eh — ripeté acido Falkner. Diede un’occhiata alla bottiglia di cosiddetto scotch. — Funziona, direi. C’è dell’alcool, dentro, ed ha quasi lo stesso sapore dell’originale. Solo che è terribile. E finché non riusciremo a riprendere i contatti con la Scozia, dovrò bermi questa roba. Maledetto embargo. Il presidente dovrebbe fare… — Falkner si riprese in tempo, mentre il ragazzo sorrideva timidamente. Suo malgrado, anche Falkner sorrise, poi si voltò e ritornò alla sua sedia.

Fissò lo schermo rilucente. Il pivot della squadra del San Diego, quel tipo alto due metri e dieci, volò a schiacciare la palla nel canestro. Aspetta, aspetta, pidocchioso bamboccione dalle gambe lunghe, pensò Falkner tra sé e sé. La prossima stagione ci saranno un paio di giocatori alti due metri e quaranta nella lega, ci scommetto. E ti sbatteranno giù dal tuo trono.

Un frammento di conversazione giunse alle sue orecchie. — Se ci sono degli alieni che ci osservano dallo spazio, come mai non ci hanno ancora contattato, eh?

— Forse lo hanno fatto.

— Come no, e Frederic Storm è il profeta del secolo, vero? Non venirmi a dire che appartieni al Culto del Contatto!

— Non ho detto…

Falkner si costrinse a tenere la testa rigidamente rivolta verso lo schermo TV sulla parete. Non voleva, non poteva permettersi di pensare ai dischi volanti nelle sue ore di libertà. Odiava perfino quel nome. Era tutto uno scherzo di cattivo gusto, quella storia del disco, e lo scherzo ricadeva su di lui.

Aveva quarantatré anni, benché a volte se ne sentisse centoquarantatré. Ricordava vagamente quando, per la prima volta, si era cominciato a parlare di dischi volanti. Era stato nel 1947, subito dopo la seconda guerra mondiale. Falkner non poteva ricordare la guerra vera e propria — era nato nel 1939, il giorno in cui era stata invasa la Polonia, e quando era finita la guerra lui faceva ancora la prima elementare — ma ricordava la storia dei dischi volanti, perché lo aveva spaventato a morte. Aveva letto qualcosa in proposito sulle riviste popolari del tempo, e gli aveva causato un vero terrore l’idea che un uomo, nel lontano Oregon o chissà dove, avesse avvistato astronavi provenienti da altri mondi. Il piccolo Tommy Falkner aveva sempre provato molta curiosità nei confronti dei pianeti, dello spazio, e la sua era diventata una vera e propria mania in un periodo in cui cose del genere costituivano un mistero per la gran parte della gente comune; ma quei dischi volanti del 1947 gli avevano fatto venire la pelle d’oca e gli avevano provocato incubi per una settimana di seguito.

C’era stato un andirivieni di storie sui dischi volanti. Erano sbucati fuori un po’ dappertutto degli esaltati a raccontare i loro voli nello spazio. Anche Tom Falkner voleva fare un volo nello spazio, ma uno vero e proprio. Quando, nel 1957, entrò nell’Accademia Aeronautica, aveva dimenticato del tutto la follia dei dischi volanti, ed aveva gettato via le sue riviste di fantascienza. Stava per entrare a far parte del programma spaziale americano, se mai avesse avuto inizio. Stava per diventare uno spaziale.

Falkner trangugiò rabbiosamente una sorsata dal suo bicchiere.

Un paio di settimane dopo essere divenuto un cadetto, i Russi lanciarono in orbita uno Sputnik. Alla fine prese forma un programma spaziale americano, zoppicante, in ritardo, ma autentico. Fu strano vedere la parola spaziale sparire dal vocabolario, ora che la fantascienza si stava trasformando in qualcosa di reale. Astronauti, ecco come vennero chiamati. Il tenente Thomas Falkner si mise in lista per il programma astronautico. Era troppo giovane per il progetto Mercury; stette a guardare con invidia gli astronauti della Gemini che partivano e ritornavano. Ma nel progetto Apollo c’era posto per lui. Era in lista per un viaggio verso la Luna da effettuarsi nel 1973. Con un po’ di fortuna, si disse allora, avrebbe anche potuto anche farcela per il viaggio su Marte prima di raggiungere i quarant’anni.

In quegli anni lo spazio era reale, una cosa seria. Trascorse i suoi giorni nel volo simulato, e le sue notti a combattere con la matematica. Dischi volanti? Idee da esaltati. «Robaccia californiana», Falkner definiva quelle storie, anche quando provenivano dal Michigan o dal Sud Dakota. In California credevano a tutto, compresi gli esseri dalla pelle purpurea che venivano dalle stelle per divorare gli uomini. Si impegnò nel lavoro. Il suo lavoro era lo spazio. Nel frattempo si sposò, e non fu un cattivo matrimonio, a parte il fatto che non vi furono figli.

Ricordava una sera del 1970 in cui lui ed un paio dei suoi colleghi dell’Apollo avevano tirato un po’ troppo la corda con un quinto di scotch, di quello autentico, un Ambassador con dodici anni di invecchiamento. E Ned Reynolds, ubriaco ed imprudente, gli aveva detto: — Tu non lascerai la Terra, Tom. E vuoi sapere perché? Perché tu non hai figli. Cattive relazioni pubbliche. Gli astronauti devono avere un paio di bei figlioli che aspettano il loro ritorno a casa, altrimenti manca la parte drammatica per la TV.

Falkner si era divertito, chissà perché, a quella battuta. Non era il genere di cose che un uomo sobrio avrebbe detto ad un amico, o il genere di cose che un uomo sobrio avrebbe accettato di sentire da un amico, ma aveva riso. — Tu non lascerai la Terra, Tom — In vino veritas. Sei mesi più tardi, nel corso di una delle normali visite psico-attitudinali, avevano scoperto qualcosa che non andava all’interno del suo orecchio, una disfunzione dell’organo preposto all’equilibrio del corpo, e questo aveva segnato la fine della sua carriera nel progetto Apollo. Lo avevano sbattuto tranquillamente fuori, spiegandogli con loro grande rincrescimento che non potevano mettere in orbita un uomo predisposto a soffrire di vertigini, anche se fino a quel momento non aveva manifestato alcuna tendenza evidente…

Gli trovarono un lavoro. Con il progetto Bluebook, il programma da quattro soldi dell’Aeronautica impostato per tranquillizzare il pubblico sull’inesistenza dei dischi volanti. Questo era successo dieci anni prima. Il progetto Bluebook si era allargato, così come richiede qualsiasi burocrazia, e adesso si chiamava SOA, Studio Oggetti Atmosferici. Ed il povero vecchio Tom Falkner, l’astronauta trombato, era il responsabile del SOA per Arizona, Nuovo Messico, Utah e Colorado. Era un colonnello della brigata dischi volanti. Se avesse stretto i denti e tenuto duro abbastanza a lungo, sarebbe diventato il prossimo generale dei dischi volanti in dotazione all’Aeronautica.

Terminò di bere il suo liquore. E nello stesso tempo si accorse che la partita di pallacanestro era stata interrotta, da circa mezzo minuto, per trasmettere un bollettino di notizie locali. Qualcosa a proposito di una meteora, una grande scia di luce… nessun motivo di allarme, assolutamente nessuno…

Falkner cercò di mettere a fuoco la mente. E dal fondo di essa emerse prepotente un pensiero sgradito: avvistamento di dischi volanti. Alla fine i bastardi dalla faccia blu di Betelgeuse sono arrivati. Nessun motivo di allarme, si sono limitati a mangiarsi Washington. Tutto a posto. Solo una meteora.

Udì il telefono che ronzava insistentemente al di là del bancone.

Poi il barista si rivolse a lui, dicendo: — È per lei, colonnello Falkner. Dal suo ufficio. Pare che siano piuttosto sconvolti, signore!

CAPITOLO SECONDO

A bordo dell’astronave Dirnana i problemi erano incominciati sopra il Polo. Si trattava di una normale nave da osservazione, del tipo che da decenni ormai pattugliava la Terra, e la possibilità di un guasto era così remota che una persona sana di mente non la prendeva nemmeno in considerazione. Quelle navi funzionavano bene: non c’era nulla da dire. Ma questa in particolare aveva qualcosa che non andava.

Il primo indizio si manifestò alla quota di trentamila metri, quando cominciò ad accendersi la luce di sicurezza. Istantaneamente i segnali d’allarme presero a vibrare nella carne dei tre membri dell’equipaggio. Tra i molti utili circuiti installati nei loro corpi ce n’era uno che consentiva loro di sapere subito quando si presentava qualche difficoltà tecnica. La prima regola di una missione era quella di non consentire agli osservati di accorgersi degli osservatori, e l’ultima cosa che un Dirnano poteva desiderare era proprio Un naufragio sulla Terra.

L’equipaggio era occupato ai propri compiti. Consisteva di un gruppo sessuale standard di tre elementi; in questo caso due maschi ed una femmina. Erano insieme da quasi un secolo, secondo il tempo terrestre, e da dieci anni erano impegnati nel loro compito di osservazione della Terra. La femmina, Glair, era addetta al sistema di registrazione delle informazioni ricavate direttamente dal pianeta. Mirtin trattava ed analizzava le informazioni, e Vorneen le trasmetteva al pianeta madre. Inoltre, avevano diversi altri incarichi che si dividevano su una base informale: manutenzione della nave, preparazione del cibo, contatto con altri osservatori, e così via. Costituivano una buona squadra. Quando giunsero i segnali d’allarme, ciascuno di essi sollevò lo sguardo dal proprio posto di lavoro, pronto ad intraprendere qualsiasi azione si rendesse necessaria per la salvezza della nave.

Mirtin — il più anziano, il più calmo, camuffato per sua stessa scelta da terrestre di mezza età — fu il primo a raggiungere il quadro comandi. Mosse rapidamente le dita, ricavò i dati e si volse verso gli altri.

— Lo scudo del plasma sta cedendo. Esploderemo tra sei minuti.

— Ma è impossibile — protestò Glair. — Noi…

Vorneen sorrise dolcemente. — Sta succedendo, Glair. È possibile. — Lui aveva il corpo di un terrestre giovane, ed era forse fin troppo orgoglioso del suo aspetto. Ma naturalmente un Dirnano in attività di osservazione doveva adottare la forma esteriore di un terrestre, ed era più che logico scegliere la configurazione che meglio esprimeva l’essenza del proprio essere. Se Vorneen aveva scelto di essere un po’ troppo bello, se Glair aveva ecceduto nel curare la voluttuosità del suo aspetto, se Mirtin desiderava essere anonimo ed incolore, erano pur sempre scelte perfettamente legittime.

Glair, riprendendosi dalla sua momentanea ottusità, si diede subito da fare. — Se smistiamo la corrente sul circuito opacizzante, questo potrebbe tenere insieme il plasma, giusto?

— Provaci — annuì Vorneen. Ma le mani di Glair erano già al lavoro.

Mirtin rise. — Adesso siamo visibili. È come essere nudi, non è vero? Come stare al mercato a mezzogiorno, nudi come vermi.

— Non possiamo rimanere visibili a lungo — disse Vorneen. — O finiremo diritti in una rete di intercettazione dei terrestri, inseguiti dai missili a testata nucleare.

— Ne dubito — ribatté decisa Glair. — Hanno già visto in precedenza le nostre navi e non le hanno mai attaccate. Facciamogli credito di questo. Loro sanno che noi siamo quassù. Almeno, i governi. Cinque minuti senza il nostro circuito opacizzante non saranno poi la fine del mondo.

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