Il televisore vibrava di risate artificiali. Hugh lo spense, poi sentì squillare il contaminuti e corse in cucina per spegnere il forno. L’orologio della cucina segnava le nove meno cinque. Il tacchino era raggrinzito nella piccola bara d’alluminio. Lui cercò di mangiarlo, ma sembrava di pietra. Bevve un litro di latte e mangiò quattro fette di pane imburrato, mezzo litro di yogurt ai mirtilli e due mele; raccolse il sacchetto di noccioline dal pavimento del soggiorno, le sgusciò e le mangiò, seduto al tavolo di cucina, riflettendo. La camminata per ritornare a casa era stata lunga. Non aveva guardato l’orologio, ma doveva aver impiegato quasi un’ora. E senza dubbio aveva trascorso un’ora o più in riva al fiumicello; e aveva impiegato altro tempo per arrivare fin là, anche correndo: non era il tipo che copriva il miglio in quattro minuti, lui. Avrebbe giurato che fossero le dieci o addirittura le undici, se l’orologio della cucina e il suo orologio da polso non l’avessero contraddetto all’unanimità.
Non aveva mai amato le discussioni, quindi desistette. Finì le noccioline, andò in soggiorno, spense la lampada, accese il televisore, tornò a spegnerlo immediatamente e sedette in poltrona. La poltrona tremò e scricchiolò, ma questa volta lui pensò che fosse dovuto più all’inefficienza della poltrona che al suo peso. Si sentiva bene, dopo quella corsa. Provava quasi un senso di compassione per quella povera poltrona malconcia, più che irritazione verso se stesso. Perché era fuggito? Beh, non c’era bisogno di pensarci. Non aveva mai fatto altro in tutta la sua vita. Fuggire e nascondersi. Ma era una cosa nuova, essere arrivato in qualche posto. Non era mai arrivato in nessun posto, prima, un posto dove nascondersi, un posto dove esistere. E poi, cadere lungo disteso in un luogo come quello, un luogo selvaggio e segreto. Come se tutti i sobborghi, il quartiere le case bifamiliari le roulotte il supermarket il parcheggio le macchine usate i posti macchina i dondoli le pietre bianche i ginepri il bacon a fette in offerta speciale gli incarti di gomma da masticare fossero rimasti nei cinque stati diversi in cui era vissuto durante quegli ultimi sette anni, come se tutto fosse in fondo senza importanza, impermanente, diverso da come doveva essere la vita, perché appena oltre, appena al di là del suo limitare, c’erano il silenzio, la solitudine, l’acqua che scorreva nel crepuscolo, il sapore di menta.
Non avresti dovuto bere quell’acqua. Inquinamento. Febbre tifoidea. Colera… No! Quella era la prima acqua purissima che avessi mai bevuto. Tornerò là a bere ogni volta che ne avrò voglia.
Il ruscello. Fiumicello, l’avrebbero chiamato negli stati dove lui aveva frequentato le medie superiori, ma la parola «ruscello» gli venne in mente dall’oscurità profonda del ricordo, una parola crepuscolare, adatta a quell’acqua nel crepuscolo, la corrente rapida e il baluginio che gli riempivano la mente. Le pareti della stanza in cui si trovava risuonavano debolmente dei rumori di un programma trasmesso dalla televisione nell’appartamento al piano di sopra, ed erano striate dalla luce che filtrava dal lampione attraverso le tendine di pizzo, qualche volta dal fioco vorticare dei fari d’una macchina di passaggio. Lì dentro, sotto quella mezza luce irrequieta e non silenziosa, c’era il luogo tranquillo, il ruscello. Da quel ricordo, la sua mente fluì alla deriva su vecchie correnti del pensiero: Se andassi dove voglio andare, se andassi all’università, qui, e parlassi con la gente, forse ci sarebbero prestiti per studenti, per la scuola per bibliotecari, oppure, se risparmiassi abbastanza e cominciassi e magari ottenessi una borsa di studio… e via, via, avanti, come una barca che andasse alla deriva oltre le isole in vista della costa, addentrandosi in un futuro più lontano, sognato nel passato, un edificio dall’ampia, affollata gradinata, le scalinate all’interno e sale grandiose e alte finestre, e gente che lavorava in silenzio, a suo agio tra gli interminabili scaffali carichi di libri, come i pensieri sono a loro agio nella mente, la Biblioteca Civica durante una gita della quinta classe in occasione della Settimana Nazionale del Libro, la meta e il rifugio dei suoi desideri.
— Cosa ci fai lì seduto al buio? Senza il televisore acceso? E la porta d’ingresso non è chiusa a chiave? Perché non hai acceso le luci? Credevo che non ci fosse nessuno. — E quando sua madre ebbe finito di parlarne trovò il tacchino, che lui non aveva nascosto abbastanza bene nel portaimmondizie sotto il lavello. — Che cos’hai mangiato? Cos’aveva che non andava? Non sei capace di leggere le istruzioni? Devi avere un principio d’influenza, faresti bene a prendere un’aspirina. Davvero, Hugh, non sei capace di badare a te stesso, non sai fare neanche le cose più semplici. Come posso stare tranquilla, quando esco dopo il lavoro per stare un po’ con le mie amiche, se tu sei così irresponsabile? Dov’è il sacchetto di noccioline che avevo comprato per portare domani da Durbina? — E sebbene in un primo momento lui la vedesse, come la poltrona, semplicemente inefficiente e impegnata a svolgere una funzione cui non era adatta, non seppe trattenersi dal vederla da quel suo luogo tranquillo, ma venne ritrascinato indietro e imprigionato, fino a quando tutto ciò che poté fare fu non ascoltare, e dire — Sta bene — e dopo che sua madre ebbe acceso il televisore che trasmetteva l’ultima pubblicità dopo il film che avrebbe voluto vedere, — Buonanotte, mamma. — E fuggì a nascondersi nel letto.
Nel piccolo supermercato dell’ultima città, dove Hugh era stato promosso per la prima volta da fattorino a cassiere, la vita era stata tranquilla, con tanto tempo per chiacchierare ed oziare nei magazzini, ma da Sam’s c’era molto da fare, e ogni lavoro era specializzato, e senza possibilità di sostituzioni. Magari avevi l’impressione che la coda davanti alla tua cassa dovesse finire con il prossimo cliente, ma ne arrivava sempre qualcun altro. Hugh aveva imparato a pensare a frammenti; non era un buon metodo, ma era l’unico disponibile. In una giornata lavorativa riusciva a pensare abbastanza, se continuava a ritornare sull’argomento; un pensiero lo attendeva, come un cane paziente, fino al suo ritorno. Quel giorno, quando si svegliò, il suo cane lo stava aspettando; e andò al lavoro con lui, dimenando la coda: voleva ritornare al ruscello, al luogo in riva al ruscello, e avere il tempo per restarci un po’. Alle dieci e mezzo, dopo aver sbrigato la vecchia con una scarpa ortopedica, quella che spiegava sempre che una volta il salmone in scatola costava dieci cents ma adesso era scandalosamente caro perché veniva spedito tutto all’estero in conto dei prestiti ai paesi socialisti, mentre pagava il pane e la margarina con i tagliandi dell’assistenza pubblica, Hugh aveva già deciso che il momento migliore per andare in riva al ruscello sarebbe stato il mattino, non la sera.
Sua madre e la sua nuova amica, Durbina, stavano studiando insieme una sorta di occultismo; e ultimamente sua madre aveva preso l’abitudine di andare da Durbina almeno una volta la settimana, dopo il lavoro. Così, lui aveva una serata libera, ma una sola per settimana, e non sapeva mai in anticipo quale sera fosse, e poi avrebbe dovuto fare in modo di tornare a casa prima di sua madre.
A lei non dispiaceva rientrare a casa per prima, di giorno; ma se si aspettava di trovarlo e non lo trovava, o se al ritorno trovava la casa vuota, non le andava più bene. E da un po’ di tempo non le andava più bene neppure restare in casa da sola quando veniva buio. Quindi era inutile pensare di uscire di sera: era come la scuola serale, proprio non c’era neppure da pensarci.
Ma la mattina lei usciva alle otto per andare al lavoro. Allora lui avrebbe potuto andare al luogo in riva al ruscello. Aveva a disposizione due ore, comunque. Di giorno poteva esserci gente, pensò (nel pomeriggio, quando Bill badava alla cassa numero Sette per dargli il cambio), poteva esserci altra gente, o cartelli che annunciavano «proprietà privata — divieto d’accesso»; ma avrebbe corso quel rischio. Non gli sembrava un posto dove andavano in molti.
Arrivò a casa all’ora solita, un quarto alle sette, quella sera, ma sua madre non arrivò e non telefonò. Oziò, leggendo il giornale, e rimpiangendo di non avere qualcosa da mangiare, come le noccioline, le noccioline che aveva mangiato la sera prima e che sua madre avrebbe voluto portare da Durbina l’indomani, cioè quella sera. Oh, diavolo, pensò, avrei potuto andare al luogo in riva al ruscello, dopotutto. Si alzò per uscire; ma non poteva andare proprio adesso, perché non sapeva quando sarebbe rientrata sua madre. Andò in cucina per prepararsi la cena, ma non trovò niente di appetitoso; mangiucchiò qualcosa, e bevve una lattina di succo d’arancio ghiacciato. Aveva il mal di testa. Avrebbe voluto avere un libro da leggere e pensò: Perché non compro una macchina? Così potrei andare in centro, in Biblioteca. Perché non vado mai in nessun posto, perché non ho una macchina? Ma a cosa serviva una macchina, se lui lavorava dalle dieci alle sei e la sera doveva restare a casa? Guardò l’attualità alla televisione per chiuder fuori il cane della sua mente, che gli si ribellava e ringhiava e mostrava i denti. Squillò il telefono. La voce di sua madre era brusca. — Volevo essere sicura, questa volta, prima di tornare a casa — disse lei, e riattaccò.
Quella sera, a letto, Hugh cercò di evocare immagini consolanti, ma divennero tormentose; alla fine ripiegò su una fantasia di molti anni fa, una cameriera che frequentava quando aveva quindici anni. Immaginò di succhiarle i seni, e così portò la masturbazione al culmine, e dopo rimase disteso, immerso nella desolazione.
La mattina dopo si alzò alle sette anziché alle otto. Non aveva detto a sua madre che intendeva alzarsi presto. A lei non piacevano i cambiamenti. Era seduta in soggiorno, con il caffè e una sigaretta, e guardava il telegiornale del mattino, con le sopracciglia tinte di nero e un po’ aggrondate. Per colazione non prendeva mai altro che un caffè. A Hugh piaceva far colazione: gli piacevano le uova, il bacon, il prosciutto, il toast, i panini, le patate, le salsicce, il pompelmo, il succo d’arancia, le focacce, lo yogurt, i cereali, tutto; e metteva latte e zucchero nel caffè. A sua madre la vista, i rumori e gli odori dei suoi preparativi davano la nausea. In quell’appartamento non c’era una porta che divideva la zona cucina dal soggiorno. Hugh cercò di muoversi senza far rumore. Sua madre lasciò cadere tazza e piattino nel lavello d’acciaio e disse: — Vado al lavoro. — Lui sentì in quella voce il terribile tono teso, tagliente, pensò (non lo disse), come la lama di un coltello. — Bene — disse senza voltarsi, sforzandosi di dare alla propria voce un suono sommesso, neutro e neutrale; perché sapeva che erano la sua voce profonda, la sua statura, i piedi grossi e le dita tozze, il suo corpo pesante e sessuale che lei non riusciva a sopportare, che le davano ai nervi.
Sua madre uscì subito, sebbene fossero soltanto le sette e trentacinque. Lui sentì il motore avviarsi, vide l’azzurra macchina giapponese passare davanti alla finestra panoramica, in fretta.
Quando andò all’acquaio, vide che il piattino di sua madre era incrinato, e il manico della tazza era staccato. Quella piccola testimonianza di violenza gli rivoltò lo stomaco. Restò immobile, con le mani sul bordo del lavello, a bocca aperta, dondolandosi un po’ su un piede e sull’altro, com’era sua abitudine quand’era angosciato. Lentamente tese la mano, girò il rubinetto dell’acqua fredda, la fece scorrere. Guardò il getto limpido e precipitoso che riempiva la tazza rotta e ne traboccava.
Lavò i piatti, chiuse a chiave la porta e se ne andò. A destra su Oak Valley, a sinistra su Pine View, e avanti. Camminare era piacevole, l’aria era dolce: il coperchio della giornata afosa non s’era ancora abbassato. Hugh si avviò a passo elastico, e dopo dieci o dodici isolati si liberò dell’influsso del malumore di sua madre. Ma mentre proseguiva, consultando l’orologio, cominciò a dubitare di poter arrivare al luogo del ruscello prima di dover tornare verso Sam’s, per essere al lavoro alle dieci. Come aveva fatto ad arrivare al ruscello, e a sostare e poi a tornare indietro, l’altra sera, in due ore soltanto? Forse adesso era fuori rotta, e non stava seguendo il percorso più breve, o forse aveva sbagliato completamente direzione. La parte della sua mente che pensava senza bisogno delle parole ignorò quei dubbi e quelle preoccupazioni, guidandolo da una strada all’altra, attraverso cinque miglia, Kensington Heights e Sylvan Dell e Chelsea Gardens, fino alla strada di ghiaia, sopra i campi.
Il grande edificio presso la superstrada era la fabbrica di vernici: da quel punto si vedeva la parte posteriore della grande insegna multicolore. Hugh arrivò fino alla recinzione intorno al parcheggio, e guardò giù, cercando di scorgere i campi dorati dal tramonto che aveva visto dalla macchina. Nella luce del mattino non avevano nessun incanto. Erano pieni d’erbacce, un tempo coltivati, ma ormai non venivano più arati, nessuna bestia ci pascolava; erano abbandonati. In attesa che qualcuno ci costruisse. Un cartello, VIETATA LA DISCARICA DEI RIFIUTI, affiorava da un fosso pieno di cardi, accanto alla carcassa arrugginita di un’automobile. Lontano, sui campi, macchioni d’alberi gettavano verso ovest le loro ombre; più oltre c’erano i boschi, che emergevano azzurri nell’aria nebbiosa e assolata. Erano le otto e mezzo passate, e cominciava a far caldo.
Hugh si tolse la giacca di tela jeans e si asciugò il sudore dalla fronte e dalle guance. Per un minuto rimase fermo a guardare il bosco. Se avesse proseguito, anche se non avesse fatto nulla di più che bere al ruscello per andarsene subito, probabilmente sarebbe arrivato in ritardo al lavoro. Imprecò a voce alta, rabbiosamente, girò sui tacchi, e tornò indietro lungo la strada ghiaiata che passava accanto alle fattorie malridotte e al vivaio degli alberi di Natale o quello che era, tagliò verso Chelsea Gardens Place, e procedendo a passo sostenuto lungo le vie curvilinee e prive d’alberi, fra prati, posti macchina, case, prati, posti macchina, case, arrivò a Sam’s Thrift-E-Mart alle dieci meno dieci. Era rosso in faccia e sudato, e Donna, nel magazzino, disse: — Hai dormito fino a tardi, Buck.
Donna aveva quarantacinque anni, più o meno. Aveva una quantità di capelli rossoscuri, che da un po’ di tempo si acconciava, secondo la moda, in una criniera di riccioli e viticci che le dava l’aspetto di una ventenne, vista di spalle, e di una sessantenne vista di fronte. Aveva una bella figura, brutti denti, un figlio disgraziato che beveva, e un bravo figlio che faceva il pilota degli stock-cars. Provava simpatia per Hugh, e chiacchierava con lui quando ne aveva l’occasione, e gli parlava (qualche volta da cassa a cassa, fra i carrelli e i clienti) dei suoi denti e dei suoi figli, e del cancro di sua suocera, della gravidanza della sua cagna e delle relative complicazioni; gli offriva i cuccioli; e si raccontavano vicendevolmente le trame dei film e degli sceneggiati televisivi. Donna l’aveva soprannominato Buck fin dal primo giorno. — Buck Rogers nel ventunesimo secolo, scommetto che sei troppo giovane per ricordartelo. — E aveva riso di quel paradosso. Quella mattina disse: — Hai dormito fino a tardi, Buck. Vergogna.
— Mi sono alzato alle sette — ribatté lui.
— E allora perché hai corso? Lanci nuvolette di vapore!
Hugh si fermò, senza sapere cosa dire, poi represse un’esclamazione. — Correre — disse. — Sai, dicono che fa bene.
— Sicuro, hanno anche pubblicato un libro di successo, no? È come il jogging, ma molto più impegnativo. Tu cosa fai, dieci volte il giro dell’isolato di corsa? Oppure vai in palestra o qualcosa del genere?
— Corro, così — disse Hugh, avvilito all’idea di rispondere con una menzogna all’interesse premuroso della donna; ma non gli passò per la mente di cercare di parlarle del luogo che aveva scoperto in riva al ruscello. — Sono un po’ grasso. Ho pensato di provare con questo sistema.