La quarta volta, o la quinta, Hugh restò molto a lungo nel luogo del ruscello, nuotò, accese un fuoco e vi rimase seduto accanto; di primo pomeriggio, mentre lavorava da Sam’s, si sentì stordito, semiaddormentato. Se si fosse fermato e se avesse dormito nel luogo del ruscello, non sarebbe stato costretto a star sveglio per venti ore consecutive. Avrebbe vissuto due vite. Anzi, avrebbe vissuto due vite nello spazio di una, il doppio nella stessa durata di tempo. Stava sistemando il sedano nel banco espositore quando ci pensò. Rise, e si accorse che gli tremavano le mani. Un cliente che stava esaminando le verdure, un vecchio ossuto, guardò cupamente i funghi a $ 2,24 e disse: — Quei pazzi che parlano di droghe psicologiche avrebbero bisogno di una lezione. — Hugh non capì se il vecchio parlava di lui o dei funghi o di qualche altra cosa.
Durante l’ora di pranzo andò al negozio d’articoli sportivi a prezzi scontati, nel centro commerciale dall’altra parte della superstrada. Spese quasi tutta la paga settimanale per un sacco a pelo, una scorta di viveri da campeggio, un robusto coltello a serramanico bilama, e un completo per cucina d’acciaio, irresistibilmente compatto. Mentre si avviava verso la cassa tornò indietro e aggiunse uno zaino d’occasione, un residuato militare. Mentre riponeva le confezioni dei viveri nello zaino si rese conto che non avrebbe potuto portarlo a casa. Quella sera, sua madre non sarebbe uscita. Sarebbe stata là, al suo arrivo. Cos’è tutta quella roba, Hugh, perché hai comprato uno zaino, un sacco a pelo, ma per comprarne uno che valga davvero qualcosa bisogna spendere un patrimonio, e quando credi che userai tutti questi oggetti costosi? Era stato uno sciocco a comprare tutto quanto. Cosa credeva di fare? Portò il materiale, nell’afa, a Sam’s Thrift-E-Mart, lo chiuse nel frigorifero del magazzino in fondo, e andò dal direttore, a chiedere il permesso di uscire un’ora prima.
— Perché? — chiese quello in tono acido, acquattato nell’ufficio pieno di scatoloni vuoti, odoroso di vecchio yogurt e di sigari.
— Mia madre sta male — disse Hugh.
Mentre pronunciava quelle parole impallidì, e il sudore cominciò a coprirgli il volto.
Il direttore lo guardò, forse impressionato, forse indifferente. Dopo averlo fissato a lungo in silenzio, disse: — Va bene — e gli voltò le spalle.
Hugh lasciò l’ufficio del direttore: sentiva il pavimento e le pareti sussultare e ondeggiare. Il mondo divenne bianco e piccolo come un albume d’uovo, come la sclerotica di un occhio. Hugh stava male. Sua madre stava male, sì, stava male, e aveva bisogno di aiuto.
E io l’aiuto. Mio Dio, cosa posso fare, ancora, più di quello che faccio? Non vado mai in nessun posto, non conosco nessuno, non frequento una scuola, lavoro vicino a casa, dove lei sa sempre dove sono, rientro a casa tutte le sere, passo con lei i weekend, faccio tutto quello che vuole… cosa posso fare, più di quel che faccio?
Quell’autocritica era ingiusta, e lo sapeva, e non importava che fosse giusta o ingiusta, era il giudizio, e lui non poteva sottrarvisi. Si sentiva le viscere sconvolte ed era ancora un po’ stordito. Continuò il suo lavoro, goffamente, commettendo continui errori stupidi alla cassa. Era venerdì, un pomeriggio pesante. Non riuscì a chiudere la sua cassa fino alle cinque e dieci, e ce la fece solo perché pregò Donna di sostituirlo. — Ti senti male, caro? — gli chiese lei, quando le passò la chiave del registratore. Lui non osò ripetere la menzogna perché non divorasse di nuovo la verità. — Non so — disse.
— Ma abbiti cura, Buck.
— Certo.
Si avviò verso il fondo del supermercato, impacciato, fra le corsie affollate. Tirò fuori il sacco a pelo e lo zaino dalla cella frigorifera e si avviò per la strada, verso est e non verso ovest, in direzione della fabbrica di vernici, dei campi abbandonati, della porta. Doveva andare là. Tutto sarebbe andato bene, quando fosse arrivato là. Era il suo posto. Là stava bene.
I campi erano caldi come fornaci. Fradicio di sudore e con la bocca arida come l’intonaco, Hugh si addentrò nei boschi, si lasciò indietro l’afa e la luce viva del giorno, via via che il sentiero scendeva e attraversava la soglia del crepuscolo. Depose il suo carico e, come sempre, andò diritto alla riva del ruscello, s’inginocchiò e bevve. Il suo respiro si spezzò in un «ah!» d’estasi dolorante, nel sentire il freddo dell’acqua, la pressione e la forza turbinosa della corrente, la superficie granulosa delle pietre sotto i suoi piedi, contro le palme delle mani. Scivolò nella lanca profonda, s’immerse, lasciò che l’acqua s’impadronisse di lui, e l’acqua era in lui e lui era nell’acqua, in un’unica gioia oscura. Tutto il resto era dimenticato.
Riaffiorò, accecato dai capelli, galleggiò per un poco sotto il cerchio del cielo senza colore e senza nuvole; e poi, alla fine, quando il freddo dell’acqua gli arrivò alle ossa, toccò il fondo e risalì sguazzando a riva. S’immergeva sempre in silenzio, con reverenza, e ne usciva rumorosamente, pieno di vita. Si massaggiò, infilò i jeans, e sedette accanto allo zaino, per aprirlo con molta solennità. Avrebbe preparato il campo; avrebbe cucinato la cena. Avrebbe disposto il suo letto lì, al riparo degli arbusti, fra l’erba alta, e si sarebbe sdraiato, per dormire accanto all’acqua corrente.
Si svegliò sotto gli alberi scuri, con la testa pervasa dall’odore della menta e dell’erba. Il vento lieve gli toccava il viso e i capelli come una mano scura e trasparente.
Fu uno strano, lento risveglio. Non aveva sognato, eppure sentiva che stava sognando. Era pieno di una fiducia totale, d’una sicurezza assoluta. S’era sdraiato e aveva dormito su quel terreno, e quindi gli apparteneva. Non gli sarebbe accaduto nulla di male. Quello era il suo paese.
Si alzò, si lavò al ruscello; s’inginocchiò sopra la pietra sporgente e guardò l’erba pallida della radura, dall’altra parte, le masse scure di arbusti e di fogliame, la limpidezza del cielo sopra gli alberi. Poi si alzò, e si avviò attraverso il ruscello, a piedi nudi, questa volta senza immergersi nell’acqua, ma passando di pietra in pietra fino a quando l’ultimo, lungo passo lo portò sulla sabbia dell’altra sponda. Anche da quella parte, sulla proda erbosa, cresceva la menta. Hugh ne prese una foglia, come se fosse un rito, e la masticò. La menta dell’altra riva aveva lo stesso sapore. Non c’erano confini. Era tutto territorio suo. Ma per questa volta s’era già spinto abbastanza lontano; non sarebbe andato oltre. In parte, il piacere di essere lì era motivato dal fatto che poteva ascoltare e obbedire a tutti gli impulsi e i comandi che venivano da dentro di lui, incontaminati dalle pressioni e dalle pulsioni esterne. In quell’obbedienza, per la prima volta dall’infanzia, sentiva l’euforia della libertà, la serenità del potere. Ora aveva deciso di non andare oltre. Quando avesse deciso di andare oltre l’avrebbe fatto. Masticando la foglia di menta, riattraversò il ruscello con lunghi passi regolari.
Si vestì, arrotolò con cura il sacco a pelo e lo nascose scrupolosamente nella cavità sotto un cespuglio, sistemò lo zaino con i viveri sulla biforcazione di un albero (aveva letto che bisognava far così, per proteggerlo da qualcosa… orsi, formiche, formichieri? comunque, sembrava meglio che lasciarlo abbandonato a terra) poi s’inginocchiò per bere di nuovo al ruscello e se ne andò.
Arrivò a Oak Valley Road alle sette della sera in cui aveva lasciato il lavoro alle cinque e un quarto. Sua madre non aveva preparato la cena; era troppo caldo per cucinare, gli disse; andarono a un ristorante per mangiare un hamburger, e poi al cinema.
Hugh credeva che sarebbe rimasto sveglio tutta la notte, perché aveva dormito nel luogo del ruscello, ma dormì profondamente nel suo letto; solo, si svegliò prima e più facilmente del solito, alle quattro e mezzo, prima del levar del sole, nell’altro crepuscolo, il primo, il crepuscolo del mattino. Quando raggiunse i boschi, il sole era sorto nel fulgido, immane splendore dell’estate. Hugh lo abbandonò, scendendo nella terra serotina, tranquillo e deciso, pronto ad attraversare l’acqua e ad esplorare, a imparare a conoscere quel regno che trascendeva la ragione e il dubbio, il suo luogo, il suo territorio. S’inginocchiò accanto all’acqua scura e limpida per bere. Alzò la testa per vedere dove sarebbe andato e vide di fronte a lui, al di là del movimento continuo, scintillante e sinuoso del ruscello, sull’altra riva, un cartello quadrato inchiodato a una tavola piantata per terra, nero su bianco: VIETATO L’ACCESSO.
2.
Forse adesso la porta era sempre chiusa, chiusa per sempre, scomparsa. Andare al bosco di Pincus, e al luogo dove doveva essere, e vedere la stupida luce del giorno, i macchioni polverosi, il fosso, e poi la recinzione di filo spinato attraverso il primo pendio della collina, senza il sentiero che scendeva, senza la porta… era inutile continuare a insistere. La prima volta che l’aveva trovata chiusa, due anni prima, lei s’era fermata lì, dove avrebbe dovuto essere, e le aveva ordinato di aprirsi, le aveva comandato di esistere. Ed era ritornata il giorno dopo e quello successivo, e s’era accovacciata e aveva pianto. Poi, dopo una settimana, era ritornata ancora, e la porta c’era, e lei era entrata, così, facilmente. Ma non poteva esserne sicura. Probabilmente non ci sarebbe stata. Non aveva neppure tentato, per mesi; era stupido continuare a tentare. La faceva sentire sciocca, come una bambina che giocasse a nascondino senza nessuno con cui giocare. Ma la porta c’era. Lei la varcò ed entrò nel crepuscolo.
Avanzò, socchiudendo gli occhi, insospettita, camminando come se temesse che il terreno le potesse venire strappato sotto i piedi come un tappeto. Poi si lasciò cadere carponi e baciò la terra, premendovi contro la guancia, come una lattante. — Così — sussurrò, — così. — Si alzò, e tese le braccia verso il cielo, poi andò in riva al ruscello, s’inginocchiò, si lavò rumorosamente la faccia e le mani e le braccia, bevve, rispose al canto sonoro e incessante dell’acqua: — Così ci sei, così ci sono, così. — Sedette a gambe incrociate sulla roccia sporgente, immobile, e chiuse gli occhi per contenere la sua gioia.
Era trascorso tanto tempo, ma nulla era cambiato; non cambiava mai nulla. Lì era il «sempre». Lei doveva fare quel che faceva sempre quand’era una ragazzina di tredici anni, quando aveva trovato per la prima volta il luogo dell’inizio, prima ancora di attraversare il fiume; poteva fare le cose che faceva allora, il culto del fuoco e la danza interminabile, la volta che aveva sepolto le quattro pietre sotto l’albero grigio, più a monte. Dovevano essere ancora là. Nulla le avrebbe spostate. Quattro pietre disposte in quadrato, una bianca, una grigiazzurra, una gialla, una bianca, e le ceneri delle sue offerte; e la statua lignea che lei aveva intagliato, al centro. Era stata una sciocchezza, un’idea da bambina. Anche le cose che la gente faceva in chiesa erano sciocche. C’erano ragioni per farle. Lei avrebbe danzato la danza interminabile, se ne avesse avuto voglia; avrebbe continuato a danzarla; aveva quella caratteristica, non finiva mai. Quello era il luogo dove lei faceva ciò che voleva. Era il luogo dove era se stessa. Era a casa, a casa… No, ma era sulla via di casa, finalmente; ora poteva andare, ora sarebbe andata, attraverso il triplice fiume e avanti, verso la montagna scura, a casa.
Si alzò sulla roccia sporgente, e con le braccia allargate, le mani incurvate come se reggessero sonagli o bacili di fiamma o d’acqua, danzò sulla pietra, in rapidi movimenti ondeggianti, danzò per la spiaggia, per il guado… e si arrestò.
In un cerchio di pietre, sulla sabbia, pochi metri più a valle rispetto al guado, c’erano le ceneri di un fuoco.
E accanto, utensili e pacchi, seminascosti sotto i rami chini di un ontano. Plastica, acciaio, carta.
Senza far rumore, lei avanzò d’un passo. Le ceneri erano ancora calde, e si sentiva l’odore acre del legno bruciato.
Nessuno veniva lì. Nessuno, mai. Quel luogo era soltanto suo. La porta era per lei, il sentiero era per lei sola. Chi, standosene nascosto, aveva assistito alla sua danza, e aveva riso? Si voltò per cercare, rigida, per sfidare il nemico, «Vieni avanti, vieni fuori!», quando, con una scossa di paura assoluta che le tolse completamente il fiato, vide l’enorme braccio pallido tendersi brancolando verso di lei, sull’erba…
…e mentre vedeva la cosa mostruosa, comprese che cos’era, e scorse un sacco a pelo marrone, qualcuno in un sacco a pelo sull’erba, accanto ai cespugli. Ma la scossa era stata così violenta che lei si lasciò cadere accosciata, dondolandosi leggermente, fino a quando riprese il fiato e il biancore abbandonò i limiti della sua visuale. Poi, cautamente, si alzò di nuovo e scrutò attraverso l’orlo erboso del greto. Poteva dire soltanto che il sacco a pelo era immobile. Se avesse mosso un altro passo, in quel punto, avrebbe calpestato la sabbia soffice e vi avrebbe lasciato un’orma. Si ritrasse sulla pietra sporgente, poi passò sull’erba, e girò dietro gli arbusti di sambuco fino a quando poté vedere chiaramente l’intruso. Una bianca faccia pesante, resa inespressiva dal sonno, la bocca semiaperta, i capelli chiari in disordine, il lungo rilievo del sacco a pelo che sembrava un sacco di rifiuti, come sterco di cane sul suolo del suo luogo amatissimo, il terreno che lei aveva baciato, il suo paese.
Rimase immobile come il dormiente. Poi, all’improvviso, si voltò e a passi rapidi e leggeri, silenziosi nelle scarpe da tennis, raggiunse il guado, attraversò, passando di pietra in pietra, sopra le acque gaie, salì sull’altra sponda e si avviò sulla strada del sud, procedendo all’andatura dei viandanti, non una corsa o un trotto, ma un passo svelto, regolare, leggero che aumentava rapidamente le distanze. Mentre camminava guardava diritto davanti a sé, e per un lungo tratto, per molto tempo, non vi furono pensieri nitidi nella sua mente, solo il contraccolpo del terrore e della collera e, quando questo scomparve, il vuoto arido che conosceva troppo bene, comunque lo si chiamasse, e che forse era angoscia.
Non c’era nessun luogo dove andare, nessun luogo dove stare. Persino lì non c’era pace, non c’era posto.
Ma la direzione che percorreva le diceva stai andando a casa. La sua pelle toccava l’aria del suo paese, i suoi occhi guardavano le foreste del crepuscolo. Il ritmo del passo, dei pendii in salita, dei pendii in discesa, i fiumi, i lunghi ritmi della terra acquietavano l’angoscia, colmavano finalmente il vuoto. Più si addentrava nel crepuscolo e più apparteneva ad esso, interamente, fino a quando ogni pensiero dell’intruso nel luogo dell’inizio si smorzò, e la sua mente si sintonizzò su ciò che le stava intorno, mentre proseguiva verso la meta. Le foreste s’incupirono, il percorso divenne più scosceso. Era trascorso molto tempo dall’ultima volta che era venuta alla Città della Montagna.
E la via era lunga. Lei dimenticava sempre quanto fosse lunga e faticosa. Quando aveva trovato la via per la prima volta, usava interrompere il viaggio con una dormita al Terzo Fiume, ai piedi della montagna. Fin da quando aveva compiuto i sedici anni, era sempre riuscita a raggiungere Tembreabrezi in un’unica tappa; ma era dura, su per i ripidi pendii scuri, su, su, avanti, sempre più lontano di quanto lei ricordasse. Aveva i piedi doloranti, le gambe stanche e una gran fame, quando finalmente arrivò alla strada sgombra e alla lunga curva. Ma quella era la vera gioia, giungere lì esausta, bramosa di cibo e di calore e di riposo, lieta in cuor suo di vedere le finestre illuminate sul fianco freddo della montagna e contro il cielo, e di sentire l’odor di fumo dei fuochi, l’odore che fin dall’inizio del tempo sussurra, Hai lasciato i luoghi desolati, stai tornando a casa. E udire le voci che pronunciavano il suo nome.
— Irena! — gridò la piccola Aduvan, sulla via davanti al cortile della locanda, dapprima sbalordita e poi prorompendo in un sorriso e in un grido rivolto alle sue compagne di gioco: — Irena tialohadji! — Irena è ritornata!
Irene abbracciò la bambina e la fece roteare nell’aria fino a quando strillò, e le quattro piccole gridarono tutte, con le loro voci dolci ed esili, per farsi abbracciare e sollevare saltellando intorno a lei finché Palizot si affacciò dal cortile per vedere qual era la causa del chiasso, e si fece avanti asciugandosi le mani sul grembiule, calma, dicendo: — Entra, entra, Irena. Vieni da così lontano, sarai stanca. — Così aveva accolto Irene la prima volta che era giunta alla Città della Montagna, a quattordici anni, affamata, sporca, stanca, impaurita. Allora lei non conosceva la lingua, ma aveva compreso ciò che le diceva Palizot: Entra, piccola, vieni a casa.