Il giorno prima della rivoluzione - Le guin Ursula Kroeber 2 стр.


Di nuovo la scissione. «Lei«» e «il suo corpo». La vecchiaia e la malattia ti portavano a scindere così, a evadere; il tuo cervello insisteva: "Non sono io, non sono io". E invece eri tu. Forse ai mistici era possibile separare intelletto e corpo: lei aveva sempre invidiato loro questa possibilità, senza sperare di poterli emulare. L’evasione era un gioco al quale non aveva mai giocato. Piuttosto aveva cercato la libertà, subito, per il corpo e per l’anima.

Prima autocommiserazione, poi autoincensamento; eccola sempre lì col nome di Asieo tra le mani. Per amor di Dio, ma perché? Non conosceva già quel nome senza avere il bisogno di tenerlo sotto gli occhi? Forse c’era in lei qualcosa che non andava? Portò alle labbra la cartellina e baciò con decisione e determinazione quel nome scritto a mano; ripose la cartellina nel cassetto, lo richiuse e si appoggiò eretta allo schienale. La mano destra le formicolava. La grattò, poi l’agitò nell’aria con rabbia. Non si era mai ripresa del tutto dal colpo. Così pure la gamba destra, e l’occhio destro, e l’angolo destro della bocca. Restavano insensibili in parte, inerti, pieni di formicolii. La facevano sentire come un robot con un cortocircuito.

Intanto il tempo passava, Noi sarebbe arrivato, e lei cos’aveva fatto dopo colazione?

Si alzò così all’improvviso che barcollò e si dovette afferrare alla sedia per essere certa di non cadere. Infilò il corridoio dirigendosi in bagno e si guardò nel grande specchio. La grigia crocchia le scendeva giù disfatta: non l’aveva pettinata bene, prima di colazione. Si affannò cercando di risistemarla. Com’era arduo tenere le braccia sollevate in aria. Amai, entrata di corsa per andare alla toilette, si fermò e le disse: — Faccio io! — ; e gliel’annodò con cura e perizia in un attimo, con quelle sue piacevoli dita tonde e forti, sorridendo in silenzio. Amai aveva vent’anni, meno di un terzo degli anni di Laia. I suoi genitori erano stati entrambi membri del Movimento: uno era rimasto ucciso nell’insurrezione del ’60, l’altro era ancora alla ricerca di nuove adesioni al partito nelle province meridionali. Amai era cresciuta nelle Case odoniane: nata per la rivoluzione, vera figlia dell’anarchia. Una bambina così tranquilla e libera e bella che il solo pensiero commuoveva: è per questo che abbiamo lavorato, è questo che volevamo costruire, questo, ed eccola qui, viva, il nostro futuro felice e radioso.

L’occhio destro di Laia Asieo Odo pianse alcune minuscole lacrime, mentre lei stava lì in piedi tra i lavabi e le latrine e mentre la figlia che lei non aveva generato le acconciava i capelli; ma l’occhio sinistro, quello forte, non piangeva e ignorava cosa faceva il destro.

Laia ringraziò Amai e tornò in fretta nella propria stanza. Nello specchio aveva notato una macchia sul colletto. Probabilmente succo di pesca. Vecchia bavosa. Non voleva che Noi entrasse e la trovasse con quella sbavatura sul colletto.

Mentre s’infilava dalla testa la camicia pulita pensò: "Ma cos’ha Noi di così speciale?"

Allacciò lentamente gli alamari del colletto con la mano sinistra.

Noi era sui trent’anni, esile, muscoloso, con una voce calda e vivi occhi scuri. Questo era tutto ciò che lo caratterizzava. Semplicissimo. Il buon sesso di una volta. Gli uomini biondi o grassi non avevano mai esercitato su di lei il minimo fascino, e nemmeno si era mai sentita attratta dai tipi alti e dotati di grandi bicipiti, no, nemmeno quando aveva quattordici anni e cadeva come una pera cotta al passare di un ganimede qualunque. Bruno, smilzo e focoso: questa era la sua ricetta. Taviri, naturalmente. Quel ragazzino non si poteva certo paragonare a Taviri per intelligenza e nemmeno fisicamente, ma il punto era questo: lei non voleva che la vedesse con quella sbavatura sul colletto e con i capelli tutti in disordine.

Quei suoi capelli sottili, grigi.

Entrò Noi, che si era trattenuto appena un attimo sulla soglia. Santo Dio, lei non aveva nemmeno chiuso la porta mentre si cambiava la camicia! Lo guardò e vide se stessa. Una vecchia.

Che si spazzoli i capelli e si cambi la camicia, o invece indossi la camicia della settimana prima e si porti in giro le trecce della notte prima o ancora si metta un abito intessuto d’oro e si cosparga con polvere di diamanti la testa rasata, non fa la minima differenza. Una vecchia appare soltanto poco più o poco meno grottesca.

Ci si tiene in ordine per puro senso della decenza, per pura e semplice igiene mentale, per consapevolezza del prossimo.

E poi anche questo non vale più, e ci si sbava addosso senza ritegno.

— Buongiorno — disse il ragazzo, con quella sua voce gentile.

— Ciao, Noi.

No, perdio, non era soltanto per un senso di decenza. Al diavolo la decenza. Se l’uomo che lei aveva amato, e per il quale la sua età non sarebbe stata importante, perché era morto, soltanto per quel motivo lei doveva fingere di essere ormai asessuata? Per questo doveva reprimere la verità, come una qualunque stupida puritana autoritaria? Solo sei mesi addietro, prima del colpo apoplettico, era tale che gli uomini si voltavano, e con piacere, a guardarla; e adesso, pur non essendo in grado di dare piacere agli altri, perdio poteva almeno piacersi.

Quando lei aveva sei anni e un amico di papà — Gadeo — veniva a parlare con lui di politica dopo cena, lei si metteva la collana dorata che la mamma aveva trovato in un mucchio di ciarpame e portato a casa nascosta nel colletto dove nessuno la poteva vedere. Ma lei sapeva che a Gàdeo questo piaceva. Era bruno, aveva denti bianchi che risplendevano. A volte la chiamava «la sua bella Laia». «Ecco che arriva la mia bella Laia!». Sessantasei anni prima.

— Cosa? Mi sento la testa vuota. Ho passato una notte terribile -. Era vero. Aveva dormito meno ancora del solito.

— Ti ho chiesto se hai letto i giornali di oggi.

Lei fece segno di sì col capo.

— Soddisfatta di Soinehe?

Soinehe era la provincia di Thu che la sera precedente aveva dichiarato la secessione dallo Stato di Thu.

Lui ne era soddisfatto. I bianchi denti gli splendevano sul volto bruno e pieno di vita. La bella Laia.

— Sì. E preoccupata.

— Lo so. Ma questa volta è l’ora della verità. È l’inizio della fine per il governo di Thu. Non hanno nemmeno cercato di far arrivare truppe a Soinehe, capisci? Non farebbero altro che portare i soldati alla ribellione prima dell’inevitabile, e lo sanno.

Lei era d’accordo. Aveva provato la sua stessa certezza. Ma non riusciva a condividere il suo compiacimento. Dopo una vita spesa nella speranza perché nient’altro era concesso, si perdeva il gusto della vittoria. Un vero senso di trionfo dev’essere preceduto da vera disperazione. E lei aveva disimparato a disperare tanto tempo prima. Il trionfo non era più possibile. Si tirava avanti.

— Oggi facciamo quelle lettere?

— Va bene. Quali lettere?

— Per quelli del nord — disse con pazienza Noi.

— Quelli del nord?

— Parheo, Oaidun.

Lei era nata a Parheo, città sporca su quel suo fiume sporco. Non era venuta alla capitale che a ventidue anni, quando si era sentita pronta per portare la rivoluzione, sebbene allora, prima che lei e gli altri la rimeditassero, la loro rivoluzione fosse molto acerba e puerile. Scioperi per migliorare i salari, per far entrare in parlamento una rappresentanza femminile. Voti e salari: potere e denaro, per amor di Dio! Be’, dopotutto, in cinquant’anni qualcosa si impara!

E poi si ridimentica tutto.

— Incomincia con Oaidun — disse, sedendosi nella poltrona. Noi era alla scrivania, pronto per il lavoro. Lesse brani dalle lettere che aspettavano la risposta di Laia. Lei cercò di essere attenta, e ci riuscì abbastanza bene da dettare una lettera intera e iniziarne un’altra. — Ricorda che a questo stadio il tuo sentimento di fratellanza può essere messo in forse da… no, in pericolo… da… — Annaspò con le parole fino a quando Noi le suggerì: — Il pericolo del culto della personalità?

— Bene. E che niente si lascia corrompere dalla brama del potere quanto l’altruismo… No. E che niente corrompe l’altruismo… No. Oh, per amor di Dio, tu sai quello che intendo dire: scrivilo tu. Anche loro, lo sanno. Sono sempre le stesse cose. Ma perché non se le leggono nei miei libri!

— Restare in contatto — disse Noi con gentilezza, citando uno dei temi centrali della filosofia odoniana.

— D’accordo, ma io sono stanca di essere in contatto. Se tu scrivi la lettera io la firmo, ma questa mattina non ho voglia di occuparmene. — Noi la guardava con un’espressione leggermente interrogativa o preoccupata. Laia disse, con irritazione: — Ho altro da fare!

Quando Noi se ne fu andato Laia si sedette alla scrivania e mosse le carte come per lavorare, perché si era sorpresa — spaventata — per le parole che aveva pronunciato. Non sapeva fare altro. Non aveva mai fatto altro. Era quello il suo lavoro: il lavoro della sua vita. I viaggi di propaganda e le riunioni e la piazza erano ormai fuori dalla sua portata; ma poteva sempre scrivere, e questo era il suo lavoro. E comunque, se lei avesse avuto altro da fare Noi l’avrebbe saputo: teneva in ordine l’agenda e le ricordava con tatto certe cose, come ad esempio la visita degli studenti stranieri proprio quel pomeriggio.

Oh, accidenti! I giovani le piacevano, e da uno straniero s’imparava sempre qualche cosa, ma adesso era stanca di facce nuove e di stare in mostra. Lei imparava dagli stranieri, ma gli stranieri non imparavano da lei: tutto quello che aveva da insegnare l’avevano imparato tanto tempo prima, dai suoi libri e dal Movimento. Venivano soltanto a guardare, come se lei fosse stata la grande torre di Rodarred o il canyon di Tulaevea. Un fenomeno, un monumento. Osservavano con timore mistico, adorante. Parlava loro con violenza: «Siate voi a pensare senza farvi dare l’imbeccata!». «Questo non è anarchismo, ma puro e semplice oscurantismo». «Non penserete mica che libertà e disciplina siano incompatibili, vero?». E quelli accoglievano le staffilate docili come agnellini, riconoscenti, come se lei fosse stata una dea-madre, l’idolo del grembo universale. Proprio lei! Lei che aveva minato i cantieri navali di Seissero e che aveva insultato il presidente del consiglio Inoilte di fronte a settemila persone, quando gli aveva detto che se mai avesse pensato di trarne un utile si sarebbe tagliato da sé i testicoli, li avrebbe fatti laminare in bronzo e poi li avrebbe venduti come ricordini; lei che aveva urlato, imprecato, preso a calci poliziotti e sputato contro preti, e che aveva orinato in pubblico in piazza del Campidoglio sulla grande targa di ottone che diceva QUI FU FONDATO LO STATO SOVRANO DELLA NAZIONE DI A-IO (ecc. ecc.)! Pppuuuhhh a tutto questo! E adesso era la nonnina di tutti, la cara vecchietta, il buon vecchio monumento, venite ad adorarne il grembo. Il fuoco s’è spento, ragazzi: fatevi appresso, non c’è più pericolo.

— No — disse ad alta voce. — Non ci sarò -. Non si spaventava di parlare da sola, perché l’aveva sempre fatto. «Il pubblico invisibile di Laia», lo chiamava Taviri, mentre lei andava in giro per la stanza borbottando. — Non c’è bisogno che veniate, io non ci sarò — disse al suo pubblico invisibile. Aveva appena deciso cosa fare. Se ne sarebbe uscita. Per le strade.

Era irriguardoso deludere studenti stranieri. Era una stramberia tipica della senilità. Era molto poco odoniano. Pppuuuhhh a tutto questo! Che senso c’era a lottare tutta la vita per la libertà e poi finire col non averne neanche un briciolo? Se ne sarebbe uscita a fare una passeggiata.

«Che cos’è un anarchico? Colui che per scelta accetta la responsabilità della scelta».

Stava scendendo le scale quando decise, riluttante, di restare e ricevere gli studenti stranieri. Sarebbe uscita dopo.

Erano giovanissimi, serissimi, con occhi di cerbiatto, irsuti, affascinanti: venivano dall’emisfero occidentale, dal Benbili e dal regno di Mand. Le ragazze indossavano pantaloni bianchi, i ragazzi gonnellini lunghi, marziali e arcaici. Parlavano delle loro attese. — In Mand siamo così lontani dalla rivoluzione che forse ci siamo vicini — disse una delle ragazze con assorta malinconìa, sorridendo: — Il cerchio dell’esistenza! — E mostrò l’incontrarsi degli estremi nel cerchio delle dita esili e brune. Amai e Aevi servirono loro vino bianco e pane nero, l’ospitalità della casa. Ma i visitatori con molta modestia si alzarono tutti per prendere congedo dopo non più di mezz’ora. — No, no, no — disse Laia, — restate, parlate con Aevi e Amai. È solo che se sto seduta m’indolenzisco tutta, capite, e devo muovermi un po’. Mi ha fatto molto bene incontrarvi. Fratellini e sorelline, tornerete presto a trovarmi? — Il suo cuore era con loro, e il loro con lei; e prima di ritirarsi li salutò tutti con un bacio, ridendo, piena di gioia per quelle giovani guance brune, quegli occhi affettuosi, quei capelli profumati. Era davvero un po’ stanca, ma andarsene di sopra a fare un sonnellino sarebbe stato un riconoscersi sconfitta. Prima aveva avuto l’intenzione di uscire. E sarebbe uscita. Non usciva da sola da… da quando? Dalla fine dell’inverno, prima del colpo. Non c’era da stupirsi che fosse un po’ strana. Proprio come essere stata in prigione. Fuori, in strada: il suo mondo era quello.

Uscì tranquilla dalla porta laterale, superò l’aiuola verde, e giunse in strada. Quella sottile striscia di acre terra cittadina era stata coltivata magnificamente e mostrava una buona messe di fagioli e ceëa, ma Laia non s’interessava alle coltivazioni. Certo, era apparso chiaro che le comunità anarchiche, anche durante i periodi di transizione, avrebbero dovuto operare in direzione di un’autosufficienza ideale, ma in che modo questa si dovesse ottenere in termini reali di terreno e di piante non era affar suo. C’erano contadini e agronomi, per questo. Affar suo erano invece le strade, le strade rumorose e puzzolenti, i selciati dove lei era cresciuta e dove aveva vissuto l’intera vita con l’eccezione di quei quindici anni di carcere.

Guardò con affetto la facciata della casa. Il fatto che fosse stata costruita per essere una banca dava agli abitanti attuali un piacere tutto particolare. Conservavano i sacchi di farina integrale nelle camere blindate, e ottenevano la stagionatura del sidro in barilotti collocati nelle cassette di sicurezza. Al disopra delle impeccabili colonne sul fronte della strada si leggeva ancora la scritta: Associazione Bancaria Nazionale per l’Agricoltura. Il Movimento non era particolarmente versato per le denominazioni. Non aveva una bandiera. Gli slogan andavano e venivano secondo necessità. C’era sempre il «cerchio dell’esistenza» da tracciare sui muri e sui marciapiedi dove le autorità l’avrebbero visto. Ma quando si trattava di denominare qualcosa si ritrovavano indifferenti, e accettavano oppure ignoravano i nomi in cui si imbattevano, per paura di essere vincolati e costretti e senza temere di essere contraddittori. E così quella casa cooperativa, prima per notorietà e seconda per vecchiaia, non aveva altro nome che «la banca».

Fronteggiava una strada spaziosa e tranquilla; ma a un isolato di distanza aveva inizio la Temeba, un mercato all’aperto, un tempo famoso come borsanera di sostanze psicogene e teratogene e ora ridotto a mercato di frutta e verdura e di vestiti di seconda mano, e a miserando luogo di avvenimenti secondari. La sua vitalità crapulona era sparita, lasciando dietro di sé soltanto alcolizzati semiparalitici, drogati, storpi, ambulanti, bagasce da mezza tariffa, banchi di pegno, bische volanti, indovini, scultori del corpo e alberghetti infimi. Laia ritornava a Temeba come l’acqua alla sua condizione di equilibrio.

Non aveva mai temuto né disprezzato la città. Era la sua patria. Non ci sarebbero più stati bassifondi come quelli quando la rivoluzione avesse vinto. Ma sarebbe rimasta la miseria. Ci sarebbero stati miseria, spreco, crudeltà. Lei non aveva mai preteso di cambiare la condizione umana, di essere la mammina che si porta via tutte le durezze della vita dei suoi piccoli perché non si facciano più male. Tutto ma non questo. Purché la gente fosse libera di scegliere, non era affar suo se poi viveva in cloache e beveva insetticida. Purché questo non fosse affare degli Affari, fonte di profitto e mezzo di potere per altri. Cose, queste, che aveva intuito assai prima di sapere qualcosa di preciso. Prima di scrivere il suo primo libello, prima di lasciare Parheo, prima di conoscere il significato di «capitale», prima di oltrepassare i confini di via del Fiume dove giocava con gli altri bambini di sei anni posando per terra le ginocchia piene di croste, sapeva già tutto questo: che lei e gli altri bambini e i suoi genitori e i loro genitori e gli ubriaconi e le prostitute e tutta le gente di via del Fiume stavano al fondo di qualcosa, erano le fondamenta, la realtà, la sorgente. Ma nessuno di coloro che si ritenevano fatti di materiale più nobile del fango era disposto a capire. Ora Laia, acqua in cerca della condizione di equilibrio, fango nel fango, avanzava stancamente lungo la strada sporca e rumorosa, e tutta la sconcia debolezza della sua vecchiaia si sentiva a proprio agio. Le sonnacchiose prostitute con la pettinatura laccata che stava tutta di sghimbescio ed era sul punto di sfasciarsi, la vecchia guercia che strillava stancamente i nomi delle sue verdure, il mendicante idiota intento a cacciar via le mosche a schiaffi: erano questi i suoi concittadini. Le assomigliavano, nella loro tristezza, nella loro ripugnanza, pochezza, spregevolezza, oscenità. Erano i suoi fratelli, la sua gente.

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