Ursula Le Guin
L’occhio dell’airone
Il problema del pacifismo, il problema dell’utopia, la violenza degli altri… gli eserciti imperiali che varcano i confini. (Per cui tutte le utopie sono circolari, autosufficienti, isole, valli, pianeti). In America, dove il vicino di casa può avere un arsenale di armi individuali, la non-violenza dev’essere una scelta attentamente consapevole. Alla violenza come istituzione statale non è sinora stata data risposta pratica più coerente di quella di Gandhi e dei gandhiani, come ad esempio i militanti del movimento per i diritti civili nel sud degli Stati Uniti. Questo libro è nato come lettura gandhiana, semplice giustapposizione di violento e non-violento in un mondo in cui (grazie alla semplificazione possibile nella fantascienza) il loro scontro non è offuscato da tutte le complessità storiche e geopolitiche del mondo reale.
Un esperimento mentale, dunque. Un esperimento controllato, con il più ridotto numero possibile di variabili. Ma l’umanità stessa è una variabile infinita. I due sessi. I ruoli sessuali… La volontà scissa… Ed anche un pianeta inventato, immaginario, è un’altra immensa variabile: non un laboratorio sterilizzato, bensì un’ecologia, una trama vivente. Ogni passaggio della spola cambia le figure, il disegno. E così i «soggetti» dell’esperimento diventano i soggetti delle frasi che essi dicono: «Io sono», «Io faccio», «Io scelgo». E i «risultati» dell’esperimento non sono risposte ma domande, non ipotesi ma sussurri e grida di coraggio, disperazione, amore, dolore.
Giugno 1987
I
Nel sole, al centro di un cerchio d’alberi, Lev stava seduto a gambe incrociate, la testa china sulle mani.
Un esserino era accovacciato nel cavo tiepido e poco profondo dei suoi palmi. Lui non lo teneva stretto: il piccolo animale aveva deciso o accettato di star lì. Sembrava un rospiciattolo alato. Le ali, ripiegate sopra il dorso, erano di un bruno chiaro, a striature ombrose, e il corpo era color ombra. Tre occhi dorati, come grosse capocchie di spillo, gli ornavano la testa, uno per lato e uno al centro del cranio. L’occhio centrale, rivolto verso l’alto, sorvegliava Lev. Lev sbatté le palpebre. L’esserino cambiò. Fronde rosee spuntarono sotto le ali piegate. Per un momento sembrò una palla piumata, ed era difficile vederlo chiaramente perché le fronde o piume tremolavano di continuo, confondendo i contorni. A poco a poco il tremolio cessò. Il rospetto alato era ancora lì, come prima, ma adesso era celeste. Si grattò l’occhio sinistro con la zampa sinistra posteriore, l’ultima delle tre zampe sinistre. Lev sorrise. Rospo, ali, occhi e zampe sparirono. Nel palmo di Lev rimase una forma piatta, simile a una falena, quasi invisibile perché — eccettuate alcune chiazze ombrose — aveva esattamente lo stesso colore e la stessa consistenza della sua pelle. Lev restò immobile. Lentamente il rospo celeste riapparve, sorvegliandolo con un occhio dorato. Cominciò a camminare attraverso il palmo, su per la curva delle dita. Le sei minuscole zampette calde facevano presa e si ritiravano, delicate e precise. Indugiò sulla punta delle dita e inclinò la testa per guardare Lev con l’occhio destro, mentre il sinistro e il centrale scrutavano il cielo. Si raccolse irt forma di freccia, estromise due ali traslucide lunghe il doppio del corpo, e s’involò in un’agile planata verso un pendio assolato, oltre il cerchio d’alberi.
— Lev?
— Tenevo compagnia a un cose. — Lev si alzò e raggiunse Andre, fuori dal cerchio d’alberi.
— Martin pensa che potremmo arrivare a casa stanotte.
— Spero che abbia ragione — disse Lev. Raccolse lo zaino e si accodò ai sette uomini. Si mossero in fila indiana; non parlavano, tranne quando qualcuno in fondo alla fila chiamava per indicare al primo una strada più agevole o quando il secondo — che portava la bussola — diceva al primo di puntare a destra o a sinistra. Erano diretti a sudovest. Il cammino non era difficile, ma non c’erano né sentieri né punti di riferimento. Gli alberi della foresta crescevano in cerchi, da venti a sessanta alberi che formavano un anello intorno a uno spiazzo centrale. Nelle valli di quel territorio ondulato i cerchi crescevano così vicini, spesso intrecciandosi, che i viaggiatori erano continuamente costretti ad avanzare a forza nel sottobosco fra gli scuri tronchi irsuti, per poi attraversare i cerchi assolati, sull’erba spugnosa e addentrarsi di nuovo fra l’ombra e il fogliame e gli steli e i tronchi. Sui fianchi delle colline i cerchi erano meno fitti, e qualche volta si poteva vedere lontano fino alle tortuose valli sempre screziate dagl’irregolari anelli rossi degli alberi.
Verso il tardo pomeriggio la foschia fece impallidire il sole. Le nubi si addensarono da occidente. Cominciò a cadere una pioggerella finissima, mite, senza vento. Le spalle e i petti nudi dei viaggiatori luccicavano come se fossero spalmati d’olio. Le gocciole s’impigliavano nei capelli. Continuavano a dirigersi verso sudovest. La luce divenne più grigia. Nelle valli, nei cerchi degli alberi, l’aria era nebbiosa e scura.
L’uomo che procedeva in testa, Martin, arrivò in cima a una lunga salita sassosa, si voltò e diede una voce agli altri. A uno a uno lo raggiunsero sulla cresta del dosso. Sotto di loro, un ampio fiume scorreva lucente e incolore fra scure rive.
Il più anziano del gruppo, Holdfast giunse in cima e indugiò a guardare il fiume con un’espressione profondamente soddisfatta. — Ehilà — mormorò, come se si rivolgesse a un amico.
— Da che parte, per raggiungere le barche? — chiese il ragazzo con la bussola.
— Verso monte — rispose Martin, incerto.
— Verso valle — intervenne Lev. — Non è quello il punto più alto della cresta, là a ovest?
Ne discussero per un po’ e decisero di provare a scendere verso valle. Ancora qualche istante, prima di proseguire, rimasero in silenzio sulla cresta del dosso: da lassù potevano vedere più lontano di quanto fosse stato possibile da molti giorni. Oltre il fiume la foresta continuava verso sud in infiniti cerchi intrecciati, sotto le basse nubi. Verso est, a monte, il terreno saliva scosceso; verso ovest il fiume si snodava grigio tra colline più basse. Nel punto dove scompariva alla vista c’era un lieve alone luminoso, un accenno di sole sul mare aperto. Verso nord, alle spalle dei viaggiatori, le colline alberate — i giorni e i chilometri del loro cammino — si andavano oscurando nella pioggia e nella notte.
Piegarono a ovest, seguendo la cresta della catena. Dopo circa un chilometro Welcome, il ragazzo che adesso procedeva in testa, diede una voce e indicò due sgorbi neri nell’ansa di una spiaggia di ghiaia, le barche che avevano tirato in secco tante settimane prima.
Scesero alla spiaggia, scivolando giù per il ripido argine. In riva al fiume sembrava che facesse più buio e più freddo, sebbene fosse cessata la pioggia.
— Presto sarà notte. Dobbiamo accamparci? — chiese Holdfast, in tono riluttante.
Guardarono la grigia massa del fiume che scorreva accanto a loro, sovrastata da un cielo altrettanto grigio.
— Sull’acqua sarà più chiaro — disse Andre, tirando fuori i remi nascosti sotto una delle canoe rovesciate.
Una famiglia di pipistrelli marsupiali aveva fatto il nido tra i remi. I piccoli fuggirono lungo la spiaggia saltellando e squittendo stizziti, mentre i genitori, infuriati, li seguivano a volo radente. Gli uomini risero e si issarono sulle spalle le leggere canoe.
Le spinsero in acqua e partirono, quattro per imbarcazione.
Quando i remi si sollevavano, riflettevano l’argentea luce che veniva da ovest. Al centro del fiume il cielo sembrava più chiaro e più alto, le rive erano basse e nere.
Oh, quando arriveremo,
Oh, quando arriveremo a Lisbona,
Le bianche navi ci attenderanno,
Oh, quando arriveremo…
Un uomo, sulla prima canoa, cominciò a cantare, e due o tre voci, sulla seconda, si unirono alla sua. Intorno a quel breve canto nostalgico si stendeva il silenzio della foresta disabitata.
Le rive si abbassarono ancora, si allontanarono, divennero più indistinte. Il fiume era un grìgio e silenzioso flusso ampio un chilometro. Il cielo si oscurava da un’occhiata all’altra. Poi, molto a sud, brillò un punto luminoso, remoto e chiaro, infrangendo l’oscurità.
Non c’era nessuno sveglio, negli abitati. Si avvicinarono attraversando le risaie, guidati dalle loro lanterne oscillanti. Aspirarono la pesante fragranza del fumo di torba nell’aria. Procedettero silenziosi come la pioggia lungo la via tra le casette addormentate, fino a quando Welcome gridò — Ehi, siamo arrivati! — e spalancò la porta di casa sua. — Sveglia, mamma! Sono io!
Cinque minuti dopo, metà del paese era in strada. Le luci si accendevano, le porte si spalancavano, i bambini saltellavano, cento voci parlavano, gridavano, interrogavano, lanciavano parole di benvenuto e di lode.
Lev andò incontro a Southwind, quando lei arrivò quasi di corsa, con gli occhi insonnoliti, un sorriso sulle labbra e uno scialle sui capelli scarmigliati. Lev tese le mani e prese le mani di lei, fermandola. Southwind lo guardò in faccia e rise. — Siete tornati, siete tornati!
Poi la sua espressione cambiò: guardò intorno, frettolosamente, girò lo sguardo sull’allegro scompiglio, e tornò a guardare Lev.
— Oh — disse. — Lo sapevo. Lo sapevo.
— Su, verso nord. A circa dieci giorni di marcia. Stavamo scendendo nella gola di un fiume. Le pietre gli sono scivolate sotto le mani. C’era un nido di scorpioni delle rocce. All’inizio sembrava che stesse bene. Ma c’erano decine di punture. Le mani gli si sono gonfiate…
Lev strinse le mani della ragazza; lei continuò a guardarlo negli occhi.
— È morto durante la notte.
— Ha sofferto molto?
— No — rispose Lev, mentendo.
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime.
— Adesso è là — disse lui. — Gli abbiamo fatto un tumulo di macigni bianchi. Vicino a una cascata. Adesso… adesso è là.
Dietro di loro, tra il chiasso e il chiacchiericcio, si levò chiara una voce di donna: — Ma dov’è Timmo?
Le mani di Southwind divennero inerti nelle mani di Lev; lei parve rimpicciolire, rattrappirsi, ritirarsi.
— Vieni con me — disse lui, e cingendole le spalle con un braccio la condusse in silenzio alla casa di sua madre.
La lasciò là, con la madre e con la madre di Timmo. Uscì dalla casa e si fermò esitando, poi ritornò a passo lento verso la folla. Suo padre gli venne incontro: alla luce delle torce Lev ne vide i grigi capelli ricciuti e gli occhi ansiosi. Sasha era piccolo e esile; quando si abbracciarono, Lev sentì le ossa sotto la pelle, dure e fragili.
— Eri con Southwind?
— Sì. Non posso…
Per un momento rimase abbracciato al padre, e la mano dura e magra gli accarezzò il braccio. Gli occhi gli s’inumidirono, offuscando la luce delle torce. Quando si staccò, Sasha indietreggiò e lo guardò, senza dir nulla, con gli occhi fissi e la bocca nascosta dagl’ispidi baffi grigi.
— Tu stai bene?
Sasha annuì. — Sei stanco. Vieni a casa. — Mentre s’incamminavano lungo la via, disse: — Avete trovato la terra promessa?
— Sì. Una valle. La valle di un fiume. A cinque chilometri dal mare. C’è tutto quello che ci occorre. È bellissima, dominata dalle montagne: una catena dopo l’altra, sempre più alte, più alte delle nubi, e più bianche… Non puoi immaginare quanto si debba guardare in su, per vedere le vette più alte. — Lev si era fermato.
— Ci sono montagne, fra qui e là? Fiumi?
Lev abbassò lo sguardo dalla bianca visione delle vette e fissò il padre negli occhi.
— Quanto basta per impedire che i Padroni ci seguano fin là?
Dopo un momento Lev sorrise. — Forse — disse.
S’era in pieno periodo di raccolta del riso di palude, e molti dei coltivatori non potevano venire, ma tutti gli abitati mandarono a Shantih un uomo o una donna per sentire il racconto degli esploratori e ciò che diceva la gente. Era un pomeriggio, e pioveva ancora; il grande spiazzo davanti alla Casa delle Riunioni era gremito di ombrelli confezionati con le ampie foglie rosse e cartacee dell’albero-tettoia. Sotto gli ombrelli, la gente stava in piedi o accosciata sulle stuoie di foglie, nel fango, e schiacciava le noci e chiacchierava, fino a quando suonarono i rintocchi della piccola campana bronzea della Casa delle Riunioni: allora tutti guardarono il portico, dove Vera si accingeva a parlare.
Era una donna snella con i capelli grigio-ferro, il naso sottile, gli occhi scuri e ovali. Aveva una voce forte e chiara: mentre parlava non si udiva altro suono che il sommesso picchiettio della pioggia e di tanto in tanto il pigolio di un bambino tra la folla, prontamente azzittito.
Vera diede il bentornato agli esploratori. Parlò della morte di Timmo, e brevemente, con calma, di Timmo stesso, come l’aveva visto il giorno della partenza. Parlò del viaggio di cento giorni attraverso il territorio disabitato. Avevano scoperto una grande area a nordest della baia di Songe, disse, e avevano trovato ciò che volevano trovare: il sito per una nuova colonia, e un percorso transitabile per raggiungerlo. — Molti di noi, qui — disse, — non sono entusiasti all’idea di un nuovo insediamento tanto lontano da Shantih. E fra noi ci sono anche alcuni nostri vicini della città, che forse desiderano partecipare ai nostri piani e alle nostre discussioni. È necessario considerare attentamente e discutere liberamente la questione. Quindi, lasciamo anzitutto che Andre e Lev parlino per gli esploratori e ci dicano cos’hanno visto e trovato.
Andre, un uomo timido e robusto sulla trentina, riferì il loro viaggio al nord. Aveva la voce bassa e non parlava con scioltezza, ma la folla ascoltò attentamente la sua succinta descrizione del mondo che si stendeva aldilà dei loro campi. Alcuni, verso il fondo, allungavano il collo per vedere gli uomini della città, dei quali Vera aveva annunciato educatamente la presenza. Erano vicini al portico, sei uomini in giubbetto e stivali alti: guardie del corpo dei Padroni. Portavano un lungo coltello sulla coscia e una frusta arrotolata e infilata nella cintura.
Andre concluse in un mormorio il suo racconto e lasciò il posto a Lev, un giovane snello dalle ossa robuste e dai folti e lucenti capelli neri. Anche Lev esordì con qualche esitazione, cercando a tentoni le parole per descrivere la valle che avevano scoperto e per spiegare perché la ritenevano adatta a un insediamento. Via via che parlava, la sua voce acquistò calore; cominciò a dimenticare se stesso, come se vedesse davanti a sé ciò che descriveva: l’ampia valle e il fiume che avevano chiamato Sereno, il lago più in alto, gli acquitrini dove cresceva il riso selvatico, le foreste di buon legname, gli assolati pendii dove si potevano piantare frutteti e seminare campi e dove le case sarebbero state libere dal fango e dall’umidità, parlò della foce del fiume, una baia ricca di conchiglie e di alghe commestibili; e parlò delle montagne che torreggiavano sopra la valle, a nord e a est, riparandola dai venti che rendevano così freddi e fangosi gli inverni di Songe. — Le vette s’innalzano nel silenzio e nella luce del sole, sopra le nubi — disse. — Proteggono la valle come una madre che tiene il figlioletto fra le braccia. Le abbiamo chiamate Montagne del Mahatma. Siamo rimasti là a lungo, quindici giorni, per vedere se le montagne tenevano lontano i temporali. Là l’inizio dell’autunno è come qui la mezza estate, e solo le notti sono più fredde; i giorni erano soleggiati, e non pioveva. Holdfast ha pensato che vi si possono fare tre raccolti di riso all’anno. Nelle foreste ci sono molti frutti, e la pesca nel fiume e nella baia aiuterebbe a sfamare i coloni per il primo anno, fino al primo raccolto. Le mattine sono così luminose! Non è stato soltanto per vedere come si metteva il tempo, che siamo rimasti: era difficile abbandonare quel luogo, anche per tornare a casa.