Locchio dellairone - Le guin Ursula Kroeber 8 стр.


— Il modo in cui parla, il modo in cui si comporta, il modo in cui si siede, il suo modo di essere… Beh! Il mio piccolo esercito, la mia grande casa, i miei servitori, i miei contadini, mia piccola Luz. Se fossi un uomo gli spaccherei la testa contro il muro.

Vera rise. Non rideva spesso: di solito, soltanto quando era sorpresa. — No, non lo faresti!

— Lo farei. Lo ucciderei.

— Oh, no. Non lo faresti. Perché se fossi un uomo saresti forte come lui, o più forte, e non dovresti dimostrare di esserlo. Il guaio è che essendo una donna qui, dove ripetono sempre che siamo deboli, si finisce col crederlo. Quando ha detto che le valli del sud sono troppo lontane perché una ragazza possa arrivarci a piedi! Dodici chilometri!

— Non ho mai camminato tanto. Neppure la metà di quella distanza, probabilmente.

— È appunto quello che volevo dire. Ti dicono che sei debole e fragile. E se lo credi, t’infurii e provi l’impulso di fare del male agli altri.

— Sì — replicò Luz, girandosi verso Vera. — Voglio fare del male agli altri. Voglio farlo, e probabilmente lo farò.

Vera restò immobile a guardarla. — Sì. — Ora aveva un tono più grave. — Se sposi un uomo come quello e vivi la sua vita, allora sono d’accordo. Tu non vuoi davvero fare del male agli altri, ma lo farai.

Luz la fissò. — È odioso — disse infine. — Odioso. Parlare così. Dire che non ho scelta, che devo fare del male agli altri, che quello che voglio non è importante.

— Invece è importante, quello che vuoi.

— Non lo è. È questo che intendo dire.

— Lo è. Ed è questo che intendo dire io. Tu scegli. Scegli di compiere o non compiere certe scelte.

Luz continuò a fissarla. Le guance le si arrossavano per la rabbia, ma le sopracciglia non erano abbassate: erano inarcate, come per la sorpresa o il timore, come se qualcosa di completamente inatteso si fosse parato davanti a lei.

Si mosse, indecisa, e uscì nel giardino, che era il cuore della casa.

Il tocco della pioggerella sul suo volto era gentile.

Le gocce che cadevano nella piccola vasca della fontana, al centro del giardino, creavano cerchi delicati e intrecciati, e ogni cerchio spariva dilatandosi: un incessante tremito di cerchi sfuggenti sulla superficie dell’acqua, nella vasca rotonda di pietra grigia.

Tutt’intorno stavano i muri e le finestre chiuse, silenziose. Il giardino era come una stanza interna della casa, recintata e protetta. Ma era una stanza senza tetto. Una stanza dove pioveva.

Luz si sentì le braccia bagnate e infreddolite. Rabbrividì. Ritornò alla porta, alla stanza semibuia dove stava Vera.

Si fermò tra Vera e la luce, e disse con voce bassa e ruvida: — Che tipo di uomo è, mio padre?

Ci fu un silenzio. — È giusto che tu me lo chieda? E che io ti risponda?… Sì, credo di sì. Cosa posso dire? È forte. È un re, un vero re.

— È soltanto una parola: non so cosa significa.

— Ci sono vecchie favole… Il figlio del re che cavalcava la tigre… Ecco, voglio dire che ha un’anima forte, una grandiosità nel cuore. Ma quando un uomo è chiuso tra muri che ha reso più forti e più alti per tutta la sua vita, forse la forza non basta. Non può uscirne.

Luz attraversò la stanza, si chinò a raccogliere la cuffietta che aveva scagliato sotto una sedia, e si rialzò senza guardare Vera, lisciando la stoffa parzialmente ricamata.

— Neppure io posso uscirne.

— Oh, no, no — disse energicamente Vera. — Tu non sei rinchiusa con lui! Non è lui a proteggere te: sei tu a proteggere lui. Quando soffia il vento, non soffia su di lui ma sui tetti e sui muri della città, che i suoi padri hanno costruito come una fortezza, una protezione contro l’ignoto. E tu sei parte della città, dei tetti e delle mura, della sua casa, casa Falco. Come il suo titolo: senhor, consigliere, Padrone. E come tutti i suoi servi e le sue guardie, tutti gli uomini e le donne cui dà ordini. Sono tutti parte della sua casa, sono i muri che lo riparano dal vento. Capisci cosa intendo? Lo dico in modo così sciocco: non so come dirlo. Ecco, credo che tuo padre potrebbe essere un grand’uomo, ma ha commesso un grave errore. Non è mai uscito sotto la pioggia.

Vera cominciò ad avvolgere il filo in matassa, scrutandolo nella fioca luce. — E quindi, siccome non vuole soffrire, fa torto a coloro che ama di più. Poi se ne rende conto, e dopotutto ne soffre.

— Ne soffre? — chiese di scatto la ragazza.

— Oh, è l’ultima cosa che scopriamo sul conto dei nostri genitori. È l’ultima cosa perché quando la scopriamo non sono più i nostri genitori: sono soltanto altre persone come noi…

Luz si sedette sul divano di giunchi e si appoggiò sul ginocchio la cuffietta, continuando a lisciarla delicatamente con due dita. Dopo un po’ disse: — Sono lieta che tu sia venuta qui.

Vera sorrise e continuò ad avvolgere il filo.

— Aspetta: ti aiuto.

Luz s’inginocchiò, svolgendo il filo dal fuso perché Vera potesse avvolgerlo regolarmente. — Sono stata stupida, a dire così. Vorrai tornare dalla tua famiglia: qui sei in carcere.

— Un carcere molto piacevole! E non ho famiglia. Certo, vorrei tornare. Per andare e venire come preferisco.

— Non ti sei mai sposata?

— C’erano tante altre cose da fare — disse Vera, sorridente e serena.

— Tante altre cose da fare! Non c’è altro da fare, per noi.

— No?

— Se una non si sposa, è una vecchia zitella. Ricama cuffiette per i bambini delle altre. Ordina alla cuoca di preparare la zuppa di pesce. E gli altri ridono di lei.

— È di questo, che hai paura? Che ridano di te?

— Sì. Moltissimo. — Luz impiegò qualche istante per districare il filo che le si era impigliato. — Non m’importa se ridono gli stupidi — disse, più calma. — Ma non mi piace essere disprezzata. E il disprezzo sarebbe meritato. Perché occorre coraggio per essere veramente una donna, tanto quanto ne occorre per essere un uomo. Ci vuole coraggio per sposarsi e mettere al mondo i figli e allevarli.

Vera la guardò in faccia. — Sì. È vero. Un grande coraggio. Ma non c’è altra scelta? Il matrimonio e la maternità oppure niente?

— E cos’altro c’è, per una donna? Cos’altro conta veramente?

Vera girò la testa e guardò il grigio giardino. Sospirò: un sospiro profondo, involontario.

— Desideravo moltissimo un figlio — disse. — Ma vedi, c’erano altre cose… che contavano. — Sorrise, vagamente. — Oh sì, è una scelta. Ma non è l’unica. Si può essere madre e anche molte altre cose. Si può fare tanto. Con la volontà e la fortuna… Io non ho avuto fortuna, o forse ho sbagliato, ho compiuto una scelta errata. Non amo i compromessi, capisci? Avevo dato il cuore a un uomo che… l’aveva dato a un’altra. Era Sasha… Alexander Shults, il padre di Lev. Oh, molto tempo fa, prima che tu nascessi. Così lui si è sposato, e io ho continuato il lavoro che sapevo fare, perché mi aveva sempre interessata, ma non c’erano altri uomini che m’interessassero. Ma anche se mi fossi sposata, avrei dovuto starmene rinchiusa in una stanza per tutta la vita? Vedi: se ce ne stiamo rinchiuse, con i bambini o senza i bambini, e lasciamo agli uomini il resto del mondo, allora naturalmente gli uomini fanno tutto e sono tutto. E perché dovrebbero? Sono soltanto la metà del genere umano. Non è giusto lasciare che facciano tutto il lavoro. Non è giusto né per loro né per noi. Inoltre… — Vera sorrise di nuovo — gli uomini mi sono simpatici, ma qualche volta… sono così stupidi, così imbottiti di teorie… Procedono solo in linea retta, e non vogliono fermarsi. E questo è pericoloso. È pericoloso lasciare tutto agli uomini, sai. È per questo che vorrei tornare a casa, almeno per una visita, per vedere cosa stanno combinando, Elia con le sue teorie e il mio caro giovane Lev con i suoi ideali. Temo che marcino troppo in fretta, troppo diritto, e che ci conducano in una trappola dalla quale non usciremo. Vedi, penso che talvolta gli uomini siano deboli e pericolosi a causa della loro vanità. Una donna ha un centro, è un centro. Ma un uomo non lo è: allunga le mani, afferra le cose e le ammucchia intorno a sé e dice: io sono questo, io sono quello, questo è me, quello è me, dimostrerò che io sono io! E può distruggere molte cose, cercando di dimostrarlo. È ciò che sto cercando di dire a proposito di tuo padre. Se fosse soltanto Luis Falco, questo basterebbe. Ma no, dev’essere il Padrone, il consigliere, il padre, e così via. Che spreco! E Lev: anche lui è terribilmente vanitoso, forse nello stesso modo. Un grande cuore, ma non sa dov’è il centro. Oh vorrei poter parlare con lui solo per dieci minuti e assicurarmi… — Vera aveva dimenticato di avvolgere il filo. Scosse tristemente la testa e abbassò sull’arcolaio uno sguardo lontano.

— Allora va’ — disse Luz, a bassa voce.

Vera la guardò, sconcertata.

— Torna al paese. Questa notte. Ti farò uscire. E domani lo dirò a mio padre, che sono stata io. Posso fare qualcosa… qualcosa, oltre a starmene qui a cucire e imprecare e ascoltare quello stupido Macmilan!

Agile, energica, imperiosa, Luz era balzata in piedi, ritta accanto a Vera che restava immobile, quasi rattrappita.

— Ho dato la mia parola, Luz Marina.

— Cosa importa?

— Se non dico la verità, non posso cercare la verità — rispose Vera, in tono duro.

Si fissarono, serie, decise.

— Io non ho figli — disse Vera. — E tu non hai madre. Se potessi aiutarti, piccola, lo farei. Ma non è così. Io mantengo le promesse.

— Io non faccio promesse — disse Luz.

Liberò un tratto di filo dal fuso. Vera l’avvolse in matassa.

VI

Manici di frusta battevano sulle porte. Echeggiavano voci maschili; giù, alla Fattoria del Fiume, qualcuno gridava e urlava. Gli abitanti del villaggio si raccoglievano in gruppo nella fredda nebbia che odorava di fumo; non era ancora spuntato il giorno, e le case e i volti erano perduti nella nebbia e nel buio. Nelle casette i bambini, spaventati dalla paura e dalla confusione dei genitori, strillavano. Gli adulti cercavano di accendere le lampade, di trovare gli abiti, di acquietare i figli. Le guardie della città, eccitate, armate fra gli inermi e vestite fra quella gente svestita, spalancavano le porte, entravano nelle calde e buie case, spingevano gli uomini da una parte e le donne dall’altra, gridavano ordini; il loro ufficiale non poteva tenerle sotto controllo, disperse com’erano nell’oscurità, fra le case e la folla sempre più numerosa nell’unica via del villaggio: solo la docilità degli abitanti impediva che l’eccitazione della brutalità diventasse l’estasi dell’omicidio e dello stupro. Protestavano, discutevano e chiedevano: ma poiché quasi tutti credevano che li arrestassero, e tutti avevano deciso, alla Casa delle Riunioni, di non opporre resistenza all’arresto, ubbidivano prontamente ai comandi delle guardie; quando capivano gli ordini, li passavano agli altri — gli uomini sulla strada, le donne e i bambini nelle case — pensando che fosse il miglior mezzo di protezione; e così l’ufficiale trovò i prigionieri che si radunavano da soli. Appena ci fu un gruppo di una ventina di uomini, ordinò a quattro guardie — una era armata di moschetto — di condurli fuori dal villaggio. Due gruppi erano già stati fatti uscire del Villaggio del Tavoliere, e il quarto, dal Villaggio Sud, veniva radunato quando arrivò Lev. La moglie di Lione, Rosa, era corsa dal Tavoliere a Shantih, e aveva bussato sfinita alla porta degli Shults, ansimando: — Le guardie portano via gli uomini, portano via tutti gli uomini. — Lev era andato subito, da solo, lasciando a Sasha il compito di svegliare il resto del paese. Quando arrivò, ansimante dopo una corsa di tre chilometri, la nebbia si stava diradando e diventava luminosa: le figure degli uomini del villaggio e delle guardie, sulla Strada Sud, torreggiavano stranamente nella mezza luce, mentre lui tagliava attraverso i campi, diretto verso l’avanguardia del gruppo. Si fermò davanti all’uomo alla testa della fila irregolare. — Cosa succede?

— Precettazione di manodopera. Mettiti in fila con gli altri.

Lev conosceva la guardia, un uomo alto che si chiamava Angel: erano stati a scuola insieme per un anno. Southwind e le altre ragazze di Shantih avevano avuto paura di Angel, perché appena poteva le bloccava nel corridoio e metteva loro le mani addosso.

— Mettiti in fila — ripeté Angel, e brandì il moschetto appoggiando il calcio contro il petto di Lev. Ansimava quasi altrettanto forte, e aveva gli occhi dilatati. Proruppe in una specie di risata convulsa, guardando il calcio del moschetto che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro affannoso di Lev. — Hai mai sentito sparare uno di questi, ragazzo? Forte, forte, come un seme d’alberanello… — Spinse più energicamente il moschetto contro lo sterno di Lev, poi all’improvviso lo puntò contro il cielo e sparò.

Stordito dal terribile rumore, Lev barcollò, arretrando, e spalancò gli occhi. La faccia di Angel era diventata grigia: rimase stordito per qualche secondo, scosso dal rinculo di quell’arma rudimentale.

Gli uomini del villaggio che stavano dietro Lev, credendo che Angel gli avesse sparato, avanzarono in massa, e le altre guardie corsero insieme a loro, gridando e imprecando; le lunghe fruste si snodarono e schioccarono, guizzando stranamente nella nebbia. — Sto bene — disse Lev. Sentiva la propria voce debole e lontana. — Sto bene! — gridò con tutte le forze. Sentì che anche Angel gridava, e vide un uomo del villaggio colpito in faccia da una frustata. — Rimettetevi in fila! — Si unì agli altri, in gruppo; poi ubbidendo alle guardie, si avviarono, a due o a tre, dirigendosi verso sud lungo l’accidentato sentiero.

— Perché andiamo a sud? Non è la strada per la città: perché andiamo a sud? — chiese a bassa voce un ragazzo di diciott’anni che stava accanto a Lev.

— Precettano manodopera — disse Lev. — Per chissà quale lavoro. Quanti ne hanno presi? — Scrollò la testa per scacciare lo stordimento.

— Tutti gli uomini della nostra valle. Perché dobbiamo andare?

— Per riportare indietro gli altri. Quando saremo tutti insieme, potremo agire insieme. Andrà tutto bene. Nessun ferito?

— Non so.

— Andrà tutto bene. Non mollare — bisbigliò Lev, senza sapere cosa diceva. Rallentò il passo e rimase indietro, finché si trovò accanto all’uomo che era stato colpito dalla frustata. Camminava coprendosi gli occhi con un braccio, e un altro gli teneva la spalla per guidarlo. Erano gli ultimi della fila: una guardia li seguiva, appena visibile nella bassa nebbia.

— Ci vedi?

— Non lo so — disse l’uomo, premendosi il braccio sulla faccia. I grigi capelli erano irti e scomposti; indossava una camicia da notte e un paio di calzoni, ed era scalzo; i grossi piedi nudi sembravano stranamente infantili, e inciampavano nei sassi e nel fango della strada.

— Scosta il braccio, Pamplona — disse ansiosamente l’altro uomo. — Lasciaci dare un’occhiata.

La guardia che li seguiva gridò qualcosa, una minaccia o l’ordine di affrettare il passo.

Pamplona abbassò il braccio. Teneva gli occhi chiusi. Uno era indenne. L’altro era perduto in uno squarcio sanguinante dalla tempia al naso, dove la frusta aveva colpito. — Fa male — disse Pamplona. — Cos’è stato? Non ci vedo, ho qualcosa nell’occhio. Lione? Sei tu? Voglio andare a casa.

Più di cento uomini furono rastrellati dai villaggi e dalle fattorie a sud e a ovest di Shantih per lavorare nelle nuove tenute della Valle Sud. Vi arrivarono a metà mattina, mentre la nebbia si alzava dal Fiume del Mulino in volute frementi. Parecchie guardie erano state piazzate sulla Strada Sud per impedire che da Shantih arrivasse qualcuno ad aiutare i forzati. Furono distribuiti gli attrezzi, zappe e vanghe e roncole; gli uomini furono messi al lavoro in gruppi di quattro o cinque, e ogni gruppo era sorvegliato da una guardia con frusta o moschetto. Non erano state costruite baracche per loro e per le trenta guardie. La sera accesero fuochi con la legna bagnata e dormirono sull’umido suolo. Erano stati portati i viveri, ma il pane era inzuppato di pioggia e ridotto in poltiglia. Le guardie borbottavano rabbiosamente. Gli uomini del villaggio parlavano e parlavano. All’inizio l’ufficiale che comandava l’operazione, il capitano Eden, aveva cercato di proibir loro di parlare, temendo un complotto; poi, quando si accorse che un gruppo stava discutendo con un altro per stabilire chi era favorevole all’idea di fuggire durante la notte, li lasciò parlare. Non aveva la possibilità d’impedire che si dileguassero, soli o a due a due, nell’oscurità: le guardie erano piazzate tutt’intorno con i moschetti, ma al buio non potevano vedere, ed era impossibile tenere i fuochi accesi sotto la pioggia, e non avevano potuto costruire un «recinto» com’era stato ordinato. Gli uomini del villaggio avevano lavorato duramente per sgombrare il terreno, ma si erano rivelati inetti quando avevano ricevuto l’ordine di costruire una palizzata o uno steccato con gli arbusti e i rovi recisi, e i suoi uomini non potevano abbandonare le armi per addossarsi quel compito.

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