La velocità del buio - Moon Elizabeth 2 стр.


Cameron estrae dalla tasca un prospetto e lo spiega sul tavolo. Ci è vietato anche portar fuori documenti dal campus, per paura che possano cadere in mani sbagliate, però è una cosa che facciamo tutti. Molte volte è arduo parlare, mentre è tanto più facile scrivere ciò che si vuole spiegare o fare un disegno.

Sul prospetto riconosco gli schemi che Cameron ha collegato con una ricursione parziale che ha l'eleganza sobria di molte delle sue soluzioni. Tutti quanti li guardiamo e facciamo cenno di sì con la testa. — Molto bello — dice Linda. Le sue mani accennano un movimento di lato. Se fossimo al campus agiterebbe le braccia a mulinello, ma qui lei cerca di non farlo.

— Davvero — assente Cameron, e rimette in tasca il prospetto.

So che questo scambio di opinioni tra noi non piacerebbe alla dottoressa Fornum. Lei avrebbe voluto che Cameron spiegasse il prospetto, benché il suo significato sia chiaro a tutti noi; avrebbe voluto che noi facessimo domande, commentassimo, parlassimo del lavoro. Invece non c'è proprio nulla di cui parlare: tutti noi abbiamo visto perfettamente qual era il problema e sappiamo che la soluzione di Cameron è ottima sotto tutti i punti di vista. Qualunque altra aggiunta sarebbe solo fiato sprecato, e tra noi questo proprio non è necessario.

— Io mi stavo chiedendo quale sia la velocità del buio — dico abbassando gli occhi. Tutti si volgeranno a me, anche se per poco, e non voglio vedermi addosso i loro sguardi.

— Non ha una velocità — risponde Eric. — È solo uno spazio dove non c'è la luce.

— Cosa succederebbe se uno mangiasse una pizza in un mondo con una gravità maggiore di uno?

— Non lo so — dice Dale con aria preoccupata.

— La velocità della non conoscenza — commenta Linda.

Cerco d'interpretare ciò che lei ha voluto dire e ci riesco. — La non conoscenza si espande più velocemente della conoscenza — dico. Linda sorride e fa cenno di sì con la testa. — Quindi la velocità del buio potrebbe essere maggiore di quella della luce. Se davvero deve esserci sempre buio intorno alla luce, il buio deve trovarsi là prima della luce.

— Adesso voglio andare a casa — dice Eric. La dottoressa Fornum probabilmente vorrebbe che io gli domandassi se si è annoiato, ma io so che non lo è: vuole andare a casa perché è l'ora del suo programma favorito in TV. Ci salutiamo e io ritorno al campus. Voglio guardare ancora le mie girandole e le mie spirali occhieggiare per un poco, prima di tornare a casa a dormire.

Io e Cameron siamo in palestra e ci scambiamo qualche parola mentre rimbalziamo sui trampolini. Abbiamo fatto molto buon lavoro negli ultimi giorni e ci stiamo rilassando.

Joe Lee entra e io guardo Cameron. Joe Lee ha solo ventiquattro anni e sarebbe stato uno di noi se non gli fossero stati fatti i trattamenti che sono stati sviluppati troppo tardi per aiutarci. Lui pensa di essere uno di noi perché sa che lo sarebbe stato e possiede alcune delle nostre caratteristiche: infatti, per esempio, è molto bravo nelle astrazioni e nelle incursioni, gli piacciono alcuni dei nostri giochi, gli piace la nostra palestra. Però è assai più bravo nell'abilità d'interpretare i pensieri e le espressioni: i pensieri e le espressioni dei normali, intendo. Non sa farlo bene con noi, che siamo dopo tutto i suoi affini più stretti.

— Ciao, Lou — mi dice. — Ciao, Cam. — Vedo Cameron irrigidirsi. Lui odia sentir accorciare il suo nome e lo ha detto parecchie volte a Lee, che però se ne dimentica perché passa troppo tempo con i normali.

— Avete sentito? — domanda Joe Lee, e continua senza aspettare una risposta. — Qualcuno sta elaborando una procedura per annullare l'autismo. Pare abbia funzionato con i ratti e adesso la stanno provando sui primati. Scommetto che tra non molto voi ragazzi potrete diventare normali come me.

Joe Lee ha sempre detto che lui è uno di noi, ma le sue parole rivelano chiaramente che non lo ha mai creduto davvero. Noi siamo "voi ragazzi" e i normali sono "come me".

Cameron si acciglia e posso quasi sentire il groviglio di parole che gli gonfia la gola e che gli rende impossibile parlare. Parlerò io.

— Quindi tu ammetti di non essere uno di noi — dico, e Joe Lee sobbalza mentre il suo viso assume un'espressione che, mi hanno detto, significa "essere contrariati".

— Come puoi dire una cosa simile, Lou? Sai bene che è solo il trattamento…

— Se tu restituisci l'udito a un bambino sordo, lui non apparterrà più alla categoria dei sordi — dico. — E se fai questo abbastanza presto, lui non sarà stato mai sordo. — La mia voce adesso si è fatta fredda e meccanica. Da come la sento io potrebbe sembrare che sono adirato, invece ho solo paura, paura di non farmi capire. — Tu sei stato curato prima che nascessi, Joe. Non hai vissuto neanche un giorno come uno di noi.

— Ti sbagli — dice lui, interrompendomi. — Dentro sono proprio come voi, tranne che…

— Tranne ciò che ti rende diverso dagli altri, quelli che chiami normali — dico io, interrompendo a mia volta. La signorina Finley, una delle mie terapiste, mi dava schiaffetti sulle mani quando interrompevo. Io però non posso sopportare che Joe continui a dire cose che non sono vere. — Tu potevi sentire e interpretare il linguaggio dei suoni, hai imparato a parlare normalmente. I tuoi occhi vedevano normalmente.

— Sì, ma il mio cervello lavora come il vostro.

Scuoto la testa. Joe Lee dovrebbe saperlo, glielo abbiamo spiegato tante volte. I problemi che noi abbiamo con la vista, l'udito e gli altri sensi non dipendono dai singoli organi ma dal cervello. Quindi il cervello di chi non ha i nostri problemi non lavora allo stesso modo del nostro.

— Però io faccio lo stesso lavoro…

Neanche questo è vero, anche se lui lo crede. Le soluzioni di Joe sono lineari; talvolta possono essere davvero efficaci, ma talvolta… Vorrei dire questo, ma taccio perché lui sembra così irritato e addolorato.

— Venite, su — dice dopo un poco. — Venite a fare uno spuntino con me, tu e Cam. Offro io.

— Non posso, ho un appuntamento — dice Cameron. Sospetto che abbia appuntamento con un suo amico giapponese col quale gioca a scacchi. Joe Lee si volge a guardarmi.

— Spiacente — mi ricordo di dire. — Io ho una riunione. — Sento il sudore scorrermi sulla schiena e spero che Joe Lee non mi domandi quale riunione. Se dovessi rispondergli con una bugia mi sentirei depresso per giorni e giorni.

Gene Crenshaw sedeva su una vasta poltrona a un capo del tavolo; Pete Aldrin, come gli altri, sedeva su una comune sedia lungo uno dei lati. Era tipico, pensò Aldrin: lui convocava riunioni perché così poteva far vedere quanto era importante nella sua poltrona. Era la terza riunione in quattro giorni, e Aldrin aveva sulla scrivania un sacco di lavoro arretrato che non riusciva a smaltire a causa delle riunioni. Gli altri si trovavano nella stessa situazione.

L'argomento del giorno era la negatività che regnava nell'ambiente di lavoro: per negatività s'intendeva qualunque disaccordo con Crenshaw. Tutti dovevano invece "afferrare la visione" (la visione di Crenshaw) e concentrarsi su di essa tralasciando qualunque altra cosa. Inutile fare appello alla democrazia: loro erano uomini d'affari, non membri di un partito. Crenshaw ripeté questa dichiarazione diverse volte, poi si riferì come esempio al gruppo di Aldrin, noto nell'ambiente come sezione A, come a un modello di scarso funzionamento.

Aldrin si sentì bruciare lo stomaco e salire in bocca un sapore amaro. La sezione A aveva una produttività impeccabile, e nella sua cartella personale c'erano parecchi encomi che lo dimostravano. Come poteva Crenshaw pensare che non funzionasse?

Prima che lui potesse obiettare, Madge Demont parlò. — Vedi, Gene, in questo dipartimento abbiamo sempre fatto un lavoro di gruppo. Adesso arrivi tu e ignori completamente la tecnica di lavoro comunitario che abbiamo adottato e che va bene per noi…

— Io sono un capo nato — dichiarò Crenshaw. — Il mio profilo mostra che sono strutturato per essere un capitano, non un membro dell'equipaggio.

— Il lavoro di gruppo è sempre importante — disse Aldrin. — Anche i capi devono imparare come lavorare con gli altri…

— Non è questa la mia specialità — rispose Crenshaw. — Io sono particolarmente capace d'ispirare gli altri e fornire loro una guida ferma.

La sua capacità, pensò Aldrin, era di fare il tiranno senza averne guadagnato il diritto, ma Crenshaw era fortemente raccomandato dalle alte sfere. Tutti loro sarebbero stati licenziati molto prima di lui.

— I tuoi dipendenti devono rendersi conto che non hanno alcuna particolare importanza per la nostra compagnia — riprese Crenshaw rivolto a lui. — È loro dovere uniformarsi, dedicarsi a eseguire il lavoro che sono pagati per fare…

— Noi abbiamo un obbligo contrattuale — ribatté Aldrin. — Secondo i termini del contratto, dobbiamo fornire loro un ambiente lavorativo favorevole alle loro peculiarità.

— E lo facciamo, no? — sbottò irritato Crenshaw. — E con grande spesa, anche. Palestra privata, sistema sonoro, parcheggio, ogni genere di giocattoli… Io sono certo che anche ad altri bravi lavoratori piacerebbe avere una palestra privata; invece fanno il loro lavoro senza lamentarsi.

— Lo fa anche la sezione A — puntualizzò Aldrin. — Il loro indice di produttività…

— È adeguato, ammettiamolo. Ma se impiegassero il loro tempo a lavorare senza perderlo a baloccarsi, potrebbe migliorare di molto.

Aldrin sentì un gran calore salirgli al collo. — La loro produttività non è soltanto adeguata, Gene, è straordinaria. I dipendenti della sezione A, presi uno per uno, sono più produttivi dei membri di qualsiasi altro dipartimento…

— Pete, io so che hai un fratello maggiore affetto da autismo — lo interruppe Crenshaw con voce falsamente gentile. — Comprendo i tuoi sentimenti, ma devi renderti conto che siamo nel mondo reale e non all'asilo. I tuoi problemi familiari non possono influenzare la politica aziendale.

Aldrin avrebbe tanto voluto afferrare la brocca dell'acqua e lanciarla sulla testa di Crenshaw, ma non era il caso. Nulla avrebbe potuto convincerlo che le sue ragioni per ergersi a campione della sezione A non avevano nulla a che vedere col fatto che aveva un fratello autistico. Anzi: al principio aveva quasi rifiutato di lavorare là a causa di Jeremy. Ricordava la sua infanzia contristata dalle collere incoerenti del fratello e dal ridicolo di cui lo coprivano i compagni perché aveva un fratello "pazzo e cretino". Quando aveva lasciato la sua casa, aveva giurato che sarebbe vissuto solo tra persone sane e normali per tutta la vita.

Adesso invece era proprio la differenza tra Jeremy e gli uomini e le donne della sezione A che lo rendevano pronto a difenderli. Talvolta gli era ancora difficile osservare quello che avevano in comune con Jeremy e non rabbrividire; però, lavorando con loro, si sentiva meno colpevole per il fatto che non vedeva Jeremy e i suoi genitori più di una volta l'anno.

— Ti sbagli, Gene — disse a Crenshaw. — Se cercherai di togliere alla sezione A gli elementi di supporto, costerai alla compagnia una perdita di produttività maggiore del guadagno. Noi dipendiamo dalle loro abilità uniche: gli algoritmi di ricerca e l'analisi degli schemi elaborati da loro hanno ridotto i passaggi dalle materie prime al prodotto finito in modo tale da renderci superiori alla competizione…

— Io non lo credo. È tuo dovere mantenere i tuoi dipendenti all'apice della produttività, Aldrin. Vedremo se ne sarai capace. — Seguì una pausa. — Inoltre — riprese Crenshaw — è usato un nuovo studio pubblicato da un laboratorio europeo: ancora sperimentale, ma promettente.

— Un nuovo trattamento?

— Sì. Non ne so molto, tuttavia se si dimostrasse efficace sarebbe interessante. Pare sia capace di rendere normali gli autistici. Se i tuoi dipendenti fossero normali non avrebbero bisogno di tanti lussi.

— Se fossero normali, non potrebbero svolgere il loro lavoro — replicò Aldrin.

— Ma almeno non dovremmo più coccolarli come stiamo facendo.

— In che cosa consiste il trattamento? — chiese Aldrin.

— Oh, credo si tratti di una combinazione tra potenziamenti neurologici e nanotecnologia. — Crenshaw abbozzò un sorrisetto perfido. — Perché non ti documenti, Pete, e me ne fai un rapporto? Se la cosa si dimostrasse valida, potremmo perfino acquistare i diritti al trattamento per il Nordamerica.

Aldrin comprese di essere caduto nella trappola: sarebbe stato lui ad apparire colpevole agli occhi della sezione A se le cose si fossero messe male per loro.

— Sai bene che non puoi costringere nessuno a sottomettersi a una cura — disse, sentendosi scorrere il sudore lungo la schiena. — È contrario ai diritti civili della gente.

— Non posso immaginare che a qualcuno piaccia trovarsi in quelle condizioni — disse Crenshaw. — E se a qualcuno piace, sarebbe giustificabile chiedergli di sottoporsi a visita psichiatrica. Chi preferisce essere malato…

— Loro non sono malati - disse Aldrin.

— Handicappati, allora, che tuttavia preferiscono un trattamento speciale a una cura. Ciò farebbe supporre che soffrano di squilibrio mentale, il che costituisce un valido motivo di licenziamento.

Aldrin lottò di nuovo col desiderio di lanciare contro la testa di Crenshaw qualche oggetto contundente.

— Il trattamento potrebbe anche essere utile a tuo fratello.

Era troppo. — Fammi il favore di lasciare in pace mio fratello — sibilò Aldrin tra i denti.

— Su, su, non volevo affliggerti — lo consolò l'altro continuando a sorridere. — Era solo un'idea… — Gli fece un cenno pacificatore e si volse alla prossima vittima. — Adesso, Jennifer, parliamo di quelle scadenze che il tuo gruppo non sta rispettando…

Cosa poteva fare Aldrin? Niente. Cos'avrebbe potuto fare chiunque? Niente. Uomini come Crenshaw salivano in alto perché erano fatti così… almeno a quanto pareva.

2

Il signor Crenshaw è il nuovo dirigente di sezione. Il signor Aldrin, il nostro capo, lo ha accompagnato da noi il primo giorno. Non mi è piaciuto, perché ha la stessa voce falsamente cordiale di un insegnante di educazione fisica che avevamo alla scuola media. Lui pensava che insegnare a noi fosse inutile e sciocco, date le nostre limitazioni, e noi lo odiavamo tutti. Io non odio il signor Crenshaw, ma non provo alcuna simpatia per lui.

Oggi, andando al lavoro, mi fermo a un semaforo rosso a un incrocio; davanti a me c'è un furgoncino blu notte con targa della Georgia. La luce passa al giallo e il furgoncino parte sparato. Prima che io possa pensare "Non farlo!", due altri veicoli saettano dalla direzione opposta, un altro furgone beige con una striscia marrone e un'automobile avana, e il furgone più grande sbatte in pieno contro la fiancata del furgoncino. Il fracasso è spaventoso, i due veicoli girano su se stessi, vetri rotti volano dappertutto… Vorrei sparire entro me stesso, chiudo gli occhi.

Il silenzio torna lentamente, interrotto dai claxon delle macchine che non sanno perché il traffico si è fermato. Apro gli occhi: il semaforo è verde. La gente è uscita dalle automobili, i guidatori dei veicoli coinvolti nell'incidente stanno parlando.

Il codice della strada dice che una persona coinvolta in un incidente deve fermarsi e prestare assistenza; ma io non sono stato coinvolto e ci sono anche troppe persone a dare assistenza. Così do un'occhiata alle mie spalle e lentamente aggiro la scena dell'infortunio. Non sto facendo niente di male: con l'incidente non c'entro e se mi fermassi arriverei tardi al lavoro.

Quando arrivo al campus sono ancora scosso, perciò invece di andare in ufficio vado prima in palestra. Metto su la Polka e Fuga da Schwanda lo Zampognaro, perché ho bisogno di fare grandi rimbalzi per calmarmi. Sono già più rilassato quando entra il signor Crenshaw con la faccia lucida e arrossata.

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