La velocità del buio - Moon Elizabeth 4 стр.


— Vieni, Lou — dice Tom. — Ci siamo ammazzati a vicenda; adesso voglio la rivincita. — Le parole potrebbero esprimere collera, ma la sua voce è gentile e vedo che sorride. Alzo di nuovo le mie armi.

Questa volta Tom fa una cosa che non ha mai fatto: carica. Non sapendo cosa fare, mi giro, defletto la sua spada con la mia e cerco di tirare un affondo con lo stocco. Ma lui si sta muovendo troppo rapidamente, quindi lo manco. Tom alza lo stocco, esegue un allungo e mi colpisce alla sommità della testa.

— Toccato! — dice.

— Come hai fatto? — chiedo.

— È il colpo segreto che riserbo per i tornei — risponde Tom spingendo indietro la maschera. — Qualcuno lo inflisse a me dodici anni fa e io tornai a casa e mi allenai finché non riuscii a farlo bene… adesso però lo uso solo per le gare. Ma tu sei pronto per impararlo. Non è poi tanto difficile. Il trucco è uno solo.

— Ehi, non ho visto bene! — grida Don dall'altra parte del cortile. — Fallo di nuovo!

— Qual è il trucco? — domando.

— Lo dovrai capire da te. Te l'ho fatto vedere, no? Sarò felice se imparerai il mio colpo, ma la dimostrazione che te ne ho fatto basta e avanza.

— Tom, a me però non l'hai mostrato bene. Rifallo — dice Don.

— Tu non sei pronto — risponde Tom. — Dovrai guadagnartelo. — Adesso sembra in collera, come prima Lucia. Cos'ha fatto Don per farli irritare?

Mi tolgo la maschera e vado vicino a Marjory. Dall'alto vedo le luci che si riflettono nei suoi capelli. Mi chiedo cosa si proverebbe a toccarli.

— Prendi il mio posto — dice Lucia. — Voglio fare un altro incontro.

Mi siedo, molto conscio della vicinanza di Marjory. — Oggi non ti batti? — chiedo.

— No, dovrò andarmene presto. La mia amica Karen arriva all'aeroporto e devo andare a prenderla. Sono passata di qui solo per vedere… qualcuno.

Vorrei dirle che sono felice che l'abbia fatto, ma le parole mi restano in gola. — Da dove viene Karen? — domando alla fine.

— Da Chicago. È andata a far visita ai genitori. — Si volge a guardarmi. — Ti fermi molto qui, stasera?

— Non molto — dico. Se lei se ne va, io tornerò a casa.

— Vuoi venire all'aeroporto con me? Poi ti riporterei qui per prendere la tua macchina. Però farai un po' tardi, l'aereo arriva alle dieci e un quarto.

Andare in auto con Marjory? Sono così sorpreso e felice che per un lungo istante non riesco a muovermi. — Sì — dico. — Sì. — Sento un gran caldo alla faccia.

Mentre andiamo all'aeroporto guardo dal finestrino. Mi sento leggero come se potessi fluttuare nell'aria. — Quando si è felici sembra che la gravità si riduca — dico.

— Leggeri come piume? — Marjory sorride. — È così che ci si sente?

— Non proprio come una piuma, piuttosto come un palloncino — dico.

— Conosco questa sensazione — annuisce lei. Però non dice che si sente così adesso. Io non so come si sente. Le persone normali lo capirebbero, ma io non posso. Più la conosco, più cose non capisco di lei. Non so neppure perché Tom e Lucia sono così cattivi con Don.

— Tom e Lucia sembravano irritati con Don — dico. Marjory mi lancia uno sguardo in tralice.

— Don a volte è una viperetta — risponde.

Don non è una vipera: è una persona. Le persone normali si esprimono così, cambiando il significato delle parole all'improvviso, eppure si capiscono. Io so, perché qualcuno me lo ha detto anni fa, che "vipera" certe volte vuol dire "persona cattiva". Ma se una persona è cattiva e uno vuol dire che è cattiva, perché non lo dice? Perché la chiama "vipera"?

Io però più che altro vorrei sapere perché Tom e Lucia sono in collera con Don. — Ce l'hanno con lui perché non fa gli stiramenti? — domando.

— No. — Adesso anche Marjory sembra irritata e io mi sento desolato. Cosa ho fatto? — Lui è… certe volte è proprio maligno, Lou. Fa dell'umorismo a spese di altri, e non fa ridere nessuno.

Un isolato dopo lei aggiunge a bassa voce: — Fa dell'umorismo su di te, e a noi questo non piace.

Non so cosa dire. Don scherza su tutto, anche su Marjory. A me non piacciono i suoi scherzi, ma non reagisco. Avrei dovuto farlo? Marjory torna a guardarmi e capisco che vuole che io dica qualcosa. Ma cosa?

— I miei genitori dicevano che arrabbiarsi con una persona non la fa comportare meglio — dico infine.

Marjory fa un suono buffo; non so cosa significhi. — Lou, a volte penso che tu sia un filosofo.

— No — dico. — Non sono abbastanza intelligente per essere un filosofo.

Marjory fa di nuovo quel suono.

Siamo arrivati all'aeroporto. Marjory si ferma al parcheggio a breve termine e ci dirigiamo al terminale.

Quando sono solo, mi diverto a vedere i cancelli automatici aprirsi e chiudersi, ma questa sera non ci faccio caso. Marjory si ferma a leggere il cartello degli arrivi e delle partenze. Io ho già visto il volo che dobbiamo aspettare: da Chicago, atterraggio previsto per le 10.15, porta diciassette.

All'entrata di sicurezza per gli arrivi mi sento un poco inquieto. So come si fa, me lo hanno insegnato i miei genitori e l'ho fatto altre volte. Bisogna vuotare le tasche di tutti gli oggetti metallici e metterli in un canestrino, poi si aspetta il proprio turno e si passa sotto un arco. Se nessuno mi fa domande, la cosa è facile. Ma se mi parlano non sempre posso sentir bene ciò che mi dicono: qui c'è troppo rumore, troppi echi rimbalzano in questo ambiente cavernoso.

Marjory passa per prima: mette la borsetta sul nastro trasportatore e le chiavi nel canestrino. Passa sotto l'arco e nessuno le dice niente. Io metto le mie chiavi, il portafogli e il portamonete nel canestrino e passo sotto l'arco. Tutto tranquillo. L'uomo in uniforme mi guarda mentre riprendo le mie cose e me le rimetto in tasca. Mi volto verso Marjory che aspetta qualche metro più in là. Ma l'uomo parla.

— Posso vedere il suo biglietto, per favore? E un documento d'identità?

Un brivido freddo mi scuote. Sono entrate diverse altre persone prima di me e lui non ha chiesto niente a nessuno. E poi non c'è bisogno di un biglietto per entrare nella parte dell'aeroporto riservata agli arrivi; il biglietto si esibisce solo all'entrata riservata alle partenze.

— Non ho un biglietto — dico.

— E un documento d'identità? — insiste l'uomo. Mi fissa e la sua faccia comincia a diventare lucida. Tiro fuori il portafogli e lo apro allo scomparto riservato alla carta d'identità. Lui le dà un'occhiata e poi torna a guardarmi. — Se non ha un biglietto, cosa sta facendo qui? — domanda.

Sento il mio cuore battere forte e un gran calore alla nuca. — Io… io… io…

— Parli, su — dice l'uomo accigliandosi. — O forse è balbuziente?

Io so che non sarò capace di parlare per diversi minuti, ormai. Frugo nel taschino della camicia e tiro fuori un cartoncino che tengo sempre lì. Lo porgo all'uomo che lo legge.

— Autistico, eh? Però lei prima parlava: un secondo fa mi ha risposto. Chi deve incontrare?

Marjory si è mossa e sta arrivando alle spalle dell'uomo. — Qualcosa non va, Lou?

— Non s'impicci, signora — la zittisce l'uomo senza guardarla.

— Quest'uomo è un mio amico — dice lei. — Dobbiamo incontrarci con una persona che arriverà col volo tre-otto-due alla porta diciassette. Non ho sentito suonare l'allarme… — Nella sua voce si sente una vibrazione di collera.

Adesso l'uomo si volge a guardarla e sembra rilassarsi. — Quest'uomo è con lei?

— Sì. C'è qualche problema?

— No, signora… lui sembrava solo un po' strano. Credo che questo… — alza il cartoncino che ha ancora in mano — spieghi tutto. Ma se è con lei…

— Io non sono la sua guardiana — dice Marjory con lo stesso tono che ha usato quando ha definito Don "una viperetta". — Lou è mio amico.

L'uomo alza le sopracciglia e fa una smorfia; poi mi restituisce il cartoncino e si volta. Io mi allontano con Marjory, che cammina con un passo un po' troppo veloce. Non diciamo nulla finché non arriviamo al salone d'aspetto per le porte da quindici a trenta.

Dalle grandi finestre si vede la pista che scintilla di luci: luci verdi e rosse sulle punte delle ali degli aeroplani, file di luci quadrate e più opache lungo i loro fianchi, a indicare dove sono i finestrini, fari dei piccoli veicoli che tirano i carrelli dei bagagli. Luci ferme e luci ammiccanti.

— Adesso puoi parlare? — chiede Marjory mentre io guardo le luci.

— Sì. — Posso sentire il suo calore… lei mi è molto vicina. Socchiudo gli occhi un momento. — Vedi, talvolta rimango confuso. — Indico un aereo che si sta dirigendo verso una porta. — È quello il nostro?

— Credo di sì. — Fa un passo di lato e adesso mi sta davanti. — Stai bene?

— Sì. Sai… certe volte mi succede così. — Mi imbarazza il fatto che mi sia accaduto stasera, la prima volta che sono solo con Marjory. Ricordo quando mi succedeva al liceo, le volte che volevo parlare con qualche ragazza che non voleva parlarmi. Adesso anche Marjory se ne andrà? Potrei prendere un taxi per tornare da Tom e Lucia, ma non ho molto denaro con me.

— Sono contenta che tu stia bene — dice lei, e poi la porta si apre e la gente comincia a uscire dall'aeroplano. Lei cerca con gli occhi Karen e io guardo lei. Eccola: Karen è una donna piuttosto anziana, dai capelli grigi. Presto siamo di nuovo fuori e in macchina, diretti a casa di Karen. Io siedo zitto sul sedile posteriore e ascolto Marjory che parla con l'amica: le loro voci fluiscono e mormorano come acqua sulle rocce. Non posso seguire ciò che dicono, parlano troppo in fretta per me e poi non conosco le persone e i luoghi di cui parlano. Ma sono felice lo stesso, perché posso guardare Marjory senza bisogno di dover parlare.

Quando torniamo alla casa di Tom e Lucia, dov'è la mia macchina, Don se n'è andato e gli ultimi schermidori si stanno congedando. Io ricordo che non ho riposto le mie armi e la maschera ed esco in cortile per prenderle, ma Tom mi dice che sono state già rimesse al loro posto. Non sapeva precisamente quando io e Marjory saremmo tornati e non voleva lasciare la mia roba fuori al buio.

Saluto Tom, Lucia e Marjory e mi dirigo verso casa.

3

Il mio schermo sta lampeggiando quando arrivo a casa. È il codice di Lars: vuole che esamini la mia e-mail. È tardi e non vorrei rischiare di non svegliarmi in orario e non arrivare in tempo al lavoro domani mattina. Lars però sa che il mercoledì io vado a lezione di scherma e di solito non mi chiama mai. Deve trattarsi di qualcosa d'importante.

Accendo e trovo il suo messaggio. Mi ha inviato un articolo ritagliato da un giornale: parla di una ricerca sulla reversione dei sintomi di tipo autistico nei primati adulti. Lo leggo in fretta, col cuore che mi batte furiosamente. Oggi è diventata comune la reversione dell'autismo genetico nel neonato o di una lesione cerebrale che abbia dato luogo a sindromi di tipo autistico nei bambini piccoli; però mi avevano detto che per me era troppo tardi. Se l'articolo dice la verità, invece, non è troppo tardi. Proprio alla fine l'autore dell'articolo istituisce questa connessione, stabilendo l'ipotesi che la ricerca si potrebbe applicare agli esseri umani e suggerendo ulteriori indagini.

Mentre leggo, altre icone si accendono sullo schermo: il logo della società autistica locale, quello di Cameron e quello di Dale. Allora anche loro hanno saputo questa notizia. Per il momento li ignoro e continuo a leggere. Anche se qui si parla di cervelli come il mio, questo non è il mio campo e non riesco a capire come si pensa che funzioni il trattamento. Gli autori continuano a riferirsi ad altri articoli dove i procedimenti vengono spiegati più diffusamente. Ma quegli articoli non sono accessibili: non a me e non stanotte. Io non so cosa sia "il metodo di Ho e Delgracia". Non so neppure il significato di molti vocaboli, e il mio dizionario non li riporta.

Quando guardo l'orologio, è passata mezzanotte. Devo andare a letto, devo dormire. Spengo lo schermo, carico la sveglia; nella mia mente i fotoni corrono dietro al buio ma non lo raggiungono mai.

Al campus il giorno dopo siamo tutti riuniti dell'atrio, senza guardarci in viso. Tutti sanno.

— Credo sia un'impostura — dice Linda. — Non è possibile che funzioni.

— Ma se funzionasse… — suggerisce Cameron — se funzionasse, potremmo essere normali.

— Io non voglio essere normale — si oppone Linda. — Io sono così, e sono felice. — Ma non ha un'aria felice: ha un'aria cupa e decisa.

— Anch'io — dice Dale. — Anche se funziona per le scimmie, cosa significa? Le scimmie non sono persone, sono più primitive di noi. Le scimmie non parlano. — La sua palpebra vibra più del solito.

— Noi già comunichiamo meglio delle scimmie — dice Linda.

— A me però piacerebbe non dover farmi vedere da un psichiatra ogni quadrimestre — dice Cameron.

Penso alla dottoressa Fornum: sarei tanto più felice se non dovessi andare da lei. E lei, sarebbe felice di non dovermi vedere?

— Lou, e tu che ne dici? — chiede Linda. — Tu già vivi in parte nel loro mondo.

Ma tutti noi lo facciamo, noi che abbiamo un lavoro e conduciamo una vita indipendente. Linda però non ama far nulla con gente che non sia autistica, e già prima ha detto che secondo lei io non dovrei farmela col gruppo di schermidori di Tom e Lucia o con la gente della mia Chiesa. Se sapesse quali sono i miei sentimenti verso Marjory, probabilmente direbbe cose cattive.

— Io me la cavo abbastanza bene. Non capisco perché dovrei cambiare. — Sento che la mia voce è più dura del solito, e vorrei che questo non mi accadesse quando sono turbato. Non sono in collera e non mi va di avere la voce di uno in collera.

— Vedi? — dice Linda rivolta a Cameron, che distoglie lo sguardo.

— Devo lavorare — dico, e vado nel mio ufficio dove accendo il ventilatore e guardo le lucine colorate girare e ammiccare. Vorrei rimbalzare un po', ma non voglio essere in palestra nel caso arrivasse il signor Crenshaw. Mi sento il petto oppresso e non riesco a interessarmi al problema al quale sto lavorando.

Mi chiedo come sarebbe essere normale. Allorché uscii dalla scuola mi costrinsi a non pensarci più; adesso, quando mi ritorna in mente, mi affretto a scacciare l'idea. Ora però… cosa significherebbe non doversi preoccupare che la gente pensi che sono matto quando balbetto o quando non posso rispondere e devo scrivere sul mio taccuino? Cosa significherebbe non dover portare sempre in tasca quel mio cartoncino? Essere in grado di vedere e sentire tutto? Sapere cosa pensa la gente solo interpretando la sua espressione?

L'insieme di simboli su cui sto lavorando di colpo mi appare del tutto privo di significato.

È questo forse? È per questo che le persone normali non fanno il mio tipo di lavoro? Dovrei scegliere tra questo lavoro che so fare tanto bene o essere normale? Mi guardo intorno, e le girandole e le spirali di colpo mi annoiano. Non fanno che girare su se stesse: sempre lo stesso schema ripetuto all'infinito. Spengo il ventilatore. Se è questo essere normali, non mi piace.

Ecco che i simboli riacquistano vita, significato e io mi tuffo nel lavoro.

Quando torno a emergere è passata l'ora del pranzo. Ho mal di testa per essere rimasto fermo troppo a lungo e per non aver mangiato. E non ho neppure fame, ma so che devo mangiare. Vado nel cucinino annesso alla nostra ala e prendo la mia scatola di plastica dal frigorifero: contiene carne affumicata e frutta.

Mangio una mela e qualche chicco d'uva, mordicchio la carne. Il mio stomaco non reagisce bene. Mi piacerebbe andare in palestra, ma ci trovo Linda e Chuy e torno indietro.

Il pomeriggio pare trascinarsi all'infinito. Esco in stretto orario e mi dirigo verso la mia macchina. Nella mia mente c'è una musica tutta sbagliata, acuta e stridente. Vedo uscire anche gli altri, e tutti mostrano segni di tensione. Nessuno parla. Entro in macchina e parto.

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