Alcuni hanno un atteggiamento amichevole e parlano con noi. Oggi Emmy mi viene subito incontro. È più piccola di statura di me, ha capelli neri e lisci e occhiali dalle lenti spesse. Non so perché non si sia mai fatta operare agli occhi e chiederglielo non è educato. Emmy sembra sempre in collera. Le sue sopracciglia sono perpetuamente aggrottate, ai lati delle labbra ha piccoli noduli di muscoli rigidi e piega gli angoli della bocca sempre all'ingiù. — Tu hai una ragazza — mi dice.
— No — rispondo.
— Sì. Me l'ha detto Linda. Lei non è una di noi.
— No — ripeto io. Marjory non è la mia ragazza (non ancora) e non voglio parlare di lei con Emmy. Linda non avrebbe dovuto dire nulla a Emmy, e certo non avrebbe dovuto parlarle di questo. Io non ho mai detto a Linda che Marjory era la mia ragazza, perché non è vero.
— Dove vai a giocare con le spade c'è una ragazza… — insiste Emmy.
— Non è una ragazza — la correggo. — È una donna e non è la mia ragazza. — Non ancora, penso. Sento un gran caldo alla nuca pensando a Marjory e all'espressione del suo viso la settimana scorsa.
— Linda dice che lo è. Ma lei è una spia, Lou.
— Cosa vuoi dire? Perché "spia"?
— Lei lavora all'università. Dove fanno quelle ricerche, sai. — Mi lancia un'occhiataccia, come se fossi io a fare quelle ricerche. Si tratta di ricerche sugli handicap fisici e mentali; ma i ricercatori, come dicevano sempre i miei genitori, si preoccupano più di pubblicare rapporti per ottenere sovvenzioni che di curarsi degli handicappati. La nostra società comunque esige che i ricercatori dicano chi sono e a che scopo s'incontrano con noi, e non permette che siano presenti alle nostre riunioni.
Anche Emmy lavora all'università come custode; forse per questo sa che Marjory lavora lì.
— Tanta gente lavora all'università — dico. — E non tutti sono impegnati in quelle ricerche.
— Lei è una spia, Lou — ripete Emmy. — S'interessa solo alla tua diagnosi, non alla tua persona.
Mi sento un gran vuoto dentro: sono sicuro che Marjory non è una ricercatrice, ma la mia certezza non è assoluta.
— Per lei tu sei un anormale — insiste Emmy. — Un soggetto. — Sulla sua bocca "soggetto" suona osceno, ammesso che io capisca il significato di "osceno". Penso al nuovo trattamento: quelli che lo subiranno prima ne saranno i soggetti, proprio come le scimmie sulle quali è stato tentato da principio.
— Questo non è vero — dico. Ma posso sentire il sudore sprizzarmi dalle ascelle e dal collo, e provo il lieve tremito di quando mi sento minacciato. — E comunque, lei non è la mia ragazza.
— Sono contenta che tu non sia stupido del tutto — dice Emmy.
Vado alla riunione perché se la evitassi Emmy parlerebbe con gli altri di Marjory e di me. È difficile ascoltare il conferenziere che parla del protocollo della ricerca e delle sue implicazioni. Non riesco a fare attenzione a quanto dice. Non stavo pensando a Marjory quando Emmy mi ha abbordato, ma adesso non posso smettere di pensare a lei.
Marjory ha simpatia per me. Ne sono certo. E sono certo che le piaccio per me stesso, il Lou che si esercita alla scherma con il gruppo, il Lou che ha invitato ad andare con lei all'aeroporto mercoledì scorso. Lucia ha detto che piacevo a Marjory e Lucia non mente.
Ma ci sono diversi modi di farsi piacere qualcuno o qualcosa. A me per esempio piace il prosciutto come cibo; ma non mi curo di quel che pensa il prosciutto quando lo mangio. E se io piacessi a Marjory come dice Emmy… come una cosa, come un soggetto, come l'equivalente di un boccone di prosciutto? Se le piacessi più di altri soggetti di ricerca perché sono calmo e di buon carattere?
Non mi sento affatto calmo e di buon carattere. Vorrei picchiare qualcuno.
Il consulente che parla non dice nulla più di quello che abbiamo già letto nell'articolo. Non può spiegare il metodo, non sa a chi bisognerebbe rivolgersi per avere ulteriori schiarimenti. Non sa nemmeno che la compagnia per la quale lavoro ha acquistato il protocollo di ricerca. Forse non lo sa. Io non dico niente.
Dopo la riunione gli altri desiderano restare e parlare del nuovo procedimento, ma io me ne vado in fretta. Voglio andare a casa e pensare a Marjory senza Emmy attorno. Non voglio pensare a Marjory come ricercatrice. Voglio pensare a lei seduta accanto a me nell'automobile, al suo profumo, ai riflessi di luce nei suoi capelli e anche a come tira di scherma.
È più facile pensare a Marjory mentre faccio pulizia alla mia automobile. Tolgo il coprisedile di pelle di pecora e lo scuoto bene; lo stendo sul cofano e spolvero i sedili con una spazzola, poi passo l'aspirapolvere sul pavimento. Il rumore dell'apparecchio mi disturba, ma così si fa più presto e non respiro tanta polvere. Pulisco il parabrezza dall'interno, facendo attenzione agli angoli, poi i finestrini e gli specchietti. I negozi vendono prodotti speciali per pulire le macchine, ma il loro odore mi dà la nausea, perciò adopero solo uno straccio e acqua.
Rimetto il coprisedile a posto e lo assicuro bene. Adesso la mia automobile è tutta pulita, pronta per la domenica mattina. Per andare in chiesa prendo l'autobus, ma mi rallegra pensare alla mia macchina pulita e in abito da festa per la domenica.
Faccio la doccia in fretta, poi vado a letto e penso a Marjory. Nei miei pensieri lei si muove ininterrottamente eppure sta sempre immobile. Le espressioni sul suo viso permangono abbastanza a lungo perché io possa interpretarle. Quando mi addormento, lei mi sorride.
4
Dalla strada Tom guardava Marjory Shaw e Don Poiteau attraversare il cortile. Lucia pensava che Marjory si stesse affezionando a Lou Arrendale, e invece eccola lì insieme a Don. Va bene che Don le aveva tolto di mano lo zaino, ma… se lui non le piaceva, perché non se l'era ripreso?
Sospirò, facendosi scorrere una mano tra i capelli piuttosto radi. Lui adorava la scherma, gli piaceva avere allievi, ma il peso dei continui intrighi del gruppo, i suoi complicati intrecci di simpatie e antipatie, lo stancavano sempre più man mano che avanzava negli anni. Avrebbe voluto che la casa sua e di Lucia fosse un posto in cui i giovani potessero raggiungere il loro pieno potenziale fisico e morale, ma certe volte gli pareva di avere intorno una masnada di eterni adolescenti. Presto o tardi tutti ricorrevano a lui con i loro lamenti, i loro rancori, le loro sensibilità offese.
Oppure andavano da Lucia: per lo più le donne. Le sedevano accanto fingendo d'interessarsi ai suoi ricami o alle sue fotografie, e sfogavano le loro pene. Lui e Lucia passavano ore a discutere quello che andava succedendo, quale appoggio dare a chi ne aveva bisogno, come porgere aiuto senza assumersi responsabilità troppo gravose.
Mentre Don e Marjory si avvicinavano, Tom notò che lei era irritata. Don, al solito, non se ne accorgeva: parlava in fretta agitando avanti e indietro lo zaino della ragazza nel suo entusiasmo per quanto le andava dicendo. Quei due erano un perfetto esempio di ciò che accadeva continuamente, pensò Tom. Prima di sera, era certo che avrebbe saputo da Marjory cos'aveva fatto Don per mandarla in collera, e da Don avrebbe sentito che Marjory non aveva per lui un briciolo di comprensione.
— Lui deve tenere per forza le sue cose sempre esattamente allo stesso posto — stava dicendo Don.
— Perché è ordinato — rispose Marjory. Il tono duro della sua voce faceva capire che era molto irritata. — Non ti piace l'ordine?
— Non mi piace l'ossessione — disse Don. — Tu, mia cara, sei versatile: parcheggi sia da una parte che dall'altra della strada e porti abiti diversi. Lou porta gli stessi vestiti una settimana via l'altra… puliti, certo, ma insomma… e quanto alla fissazione su dove riporre le sue cose…
— Tu le hai messe al posto sbagliato e Tom te le ha fatte togliere, non è vero? — chiese la ragazza.
— Già, perché se no Lou ci sarebbe rimasto male — disse Don in tono imbronciato. — Non è giusto…
Tom vedeva benissimo che Marjory avrebbe voluto sgridare Don. Anche lui. Ma sgridare Don non serviva mai a niente. Per otto anni Don aveva avuto una brava e buona ragazza che aveva cercato di instillargli un po' di giudizio, però alla fine aveva dovuto rassegnarsi.
— Anche a me piace che l'ambiente sia in ordine — intervenne Tom cercando di parlare con calma. — È tutto molto più semplice quando ognuno sa dove trovare le sue cose. E poi, lasciare la propria attrezzatura un po' qua e un po' là può essere ossessionante quanto volerla sempre allo stesso posto.
— Su, su, Tom: essere smemorati è esattamente l'opposto di essere ossessionati. - Non sembrava nemmeno irritato, solo divertito, come se Tom fosse stato un ragazzino ignorante. Tom si chiese se Don si comportasse così anche sul posto di lavoro. Se lo faceva, si spiegava perché cambiasse impiego tanto di frequente.
— Non biasimare Lou per le mie regole — disse. Don fece spallucce ed entrò in casa per prendere il suo equipaggiamento.
Pochi minuti di pace… Tom sedette accanto a Lucia che aveva cominciato gli stiramenti. Marjory si mise dall'altra parte di Lucia e si piegò in avanti, cercando di toccarsi le ginocchia con la fronte.
— Lou dovrebbe venire stasera — disse Lucia dando un'occhiata in tralice a Marjory.
— Mi chiedevo se non lo abbia disturbato chiedendogli di venire con me all'aeroporto — osservò la ragazza.
— Oh, non credo — la rassicurò Lucia. — Direi anzi che era molto contento. È successo qualcosa?
— No. Abbiamo incontrato la mia amica e io poi ho riaccompagnato qui Lou, nient'altro. Don ha detto qualcosa sulla sua attrezzatura…
— Oh, Tom gli aveva fatto riporre un mucchio di cose, e Don si stava preparando a buttare tutto sulle rastrelliere come capitava. Tom gliele ha fatte disporre in ordine. Don lo ha visto fare tante volte che ormai dovrebbe farlo a occhi chiusi, ma… è inutile, non vuole imparare. Adesso che non sta più con Helen, sta ritornando il ragazzotto confusionario che era anni fa. Quanto vorrei che si decidesse a crescere.
Tom ascoltava senza metter bocca. Finì gli esercizi e si alzò proprio mentre Lou arrivava svoltando l'angolo di casa.
Tom guardava Lou che stava eseguendo gli stiramenti: metodico come sempre, preciso. Alcuni potevano giudicare Lou monotono, Tom invece lo trovava estremamente interessante. Trent'anni prima, non avrebbe mai potuto condurre una vita normale: cinquant'anni prima avrebbe passato la vita in un'istituzione. Ma i miglioramenti nell'intervento precoce, nei metodi d'insegnamento e nelle tecniche specifiche di apprendimento guidato gli avevano conferito l'abilità di trovare un buon lavoro, di condurre una vita indipendente e di inserirsi nel mondo normale quasi alla pari.
Era un miracolo di adattamento, e secondo Tom anche un poco triste. Persone più giovani di Lou, nate con lo stesso handicap neurologico, potevano venir curate perfettamente con la terapia genetica nei primi anni di vita. Non dovevano affrontare le faticose terapie che Lou aveva padroneggiato con tanta pena e fatica.
E adesso lui era lì e si esercitava alla scherma. Tom ricordò per quanto tempo era sembrato che la scherma di Lou potesse essere soltanto una parodia della scherma autentica. A ogni stadio di sviluppo lui aveva dovuto affrontare gli stessi inizi lenti ed estenuanti e i progressi altrettanto lenti e ancora più estenuanti… nei passaggi dal fioretto alla spada, dalla spada allo stocco, dall'arma singola alle combinazioni di fioretto e daga, spada e daga, stocco e daga e così via.
Si era impadronito di ciascuna tecnica per puro sforzo, non per talento innato. Eppure, ora che aveva acquisito le capacità fisiche, le attitudini mentali che costavano anni di esercizio agli altri schermidori sembravano diventargli familiari in pochi mesi.
Tom intercettò lo sguardo di Lou e gli fece cenno di avvicinarsi. — Ricorda quel che ti ho detto: da ora in poi dovrai esercitarti solo con i migliori.
— Certo — assentì Lou, ed eseguì il saluto. Lui e Tom si girarono intorno. Tom cambiava direzione, parava, sfalsava, inquartava e fingeva di abbassare la guardia, ma Lou non perdeva una battuta. C'era uno schema nei suoi movimenti, oltre alla risposta a quelli di Tom? Tom non avrebbe saputo dirlo. Ma sempre più spesso vedeva che Lou era vicino a penetrare la sua guardia… e ciò significava, pensò Tom, che lui stesso stava seguendo uno schema e che Lou lo aveva identificato.
— Analisi degli schemi — disse a voce alta, proprio nel momento in cui la lama di Lou eludeva la sua e lo toccava al petto. — Avrei dovuto capirlo!
— Mi dispiace — si scusò Lou. Lo diceva quasi sempre, e assumeva un'aria imbarazzata.
— No, mi hai toccato legittimamente — disse Tom. — Stavo cercando di capire cosa stavi facendo, invece di concentrarmi sull'incontro. Tu stai usando l'analisi degli schemi, vero?
— Sì — disse Lou. La sua voce esprimeva una certa sorpresa, e Tom si chiese se non stesse pensando: "Perché, non è questo che fanno tutti?".
— Io non sono in grado di farlo in tempo reale — spiegò Tom. — A meno che qualcuno usi uno schema proprio elementare.
— Quello che faccio non è giusto, allora? — chiese Lou.
— È giustissimo, se sei capace di farlo — rispose Tom. — Inoltre è la caratteristica del bravo schermidore… o anche del bravo giocatore di scacchi. Tu giochi a scacchi?
— No.
— Be'… allora vediamo se riesco a mantenere la mia attenzione fissa sull'incontro e prendermi la rivincita. — I due ricominciarono, ma Tom trovò difficile concentrarsi. A un certo punto gli parve di trovare una falla nella guardia di Lou e attaccò, ma solo per sentire sul suo petto il colpo di un altro tocco.
— Diamine, Lou, se continui a fare così, dovrò promuoverti ai tornei — disse, scherzando solo a metà. Lou s'irrigidì. — L'idea non ti garba?
— Io… io non credo che dovrei tirar di scherma in un torneo — rispose Lou.
— Dipende solo da te. — Tom eseguì di nuovo il saluto e si chiese perché Lou si era espresso in quel modo. Non aver voglia di entrare nelle competizioni era un conto, pensare che non avrebbe dovuto farlo era un altro. Se Lou fosse stato normale, avrebbe potuto partecipare ai tornei già da tre anni. Tom cercò di pensare solo all'incontro e di rendere i suoi attacchi più casuali.
Infine però gli mancò il fiato e dovette fermarsi, ansimando. — Ho bisogno di un intervallo, Lou. Vieni qui e rivediamo… — Lou lo seguì e sedette sul muretto che bordava il cortile mentre Tom prendeva una delle sedie. Osservò che Lou era sudato, ma non aveva affatto il respiro affannoso.
Tom infine si ferma, ansimando, e si dichiara troppo stanco per continuare. Mi conduce in disparte mentre altri due salgono sulla pedana. Il suo respiro è molto affannoso, tanto che lo costringe a spaziare le parole, così lo capisco meglio. Sono contento che lui mi creda tanto bravo.
— Ma guarda… tu non hai ancora il fiatone. Va' a fare un altro incontro, così io mi riposo un poco e poi potremo parlare.
Guardo Marjory che siede accanto a Lucia; avevo visto che lei mi osservava mentre mi battevo con Tom. Adesso lei ha abbassato gli occhi e ha la faccia rosea. Mi si serra lo stomaco, ma mi alzo e mi avvicino a lei.
— Ciao, Marjory — dico.
Lei alza gli occhi e mi offre un sorriso radioso. — Ciao, Lou — risponde. — Come ti va, stasera?
— Bene — dico. — Vorresti… vuoi fare un incontro con me?
— Ma certo. — Si china a raccogliere la maschera e se la infila. Anch'io rimetto la mia e adesso posso guardarla senza esser visto; il mio cuore riprende a battere normalmente.
Cominciamo con una ricapitolazione di sequenze dal manuale di scherma di Saviolo: passo passo, avanti e indietro, ci giriamo intorno e ci esploriamo. L'incontro è insieme rituale e conversazione. Io compenso le sue stoccate con le mie parate e le sue parate con le mie stoccate. I movimenti di Marjory sono più morbidi e meno scattanti di quelli di Tom. Giro, passo, domanda, risposta, il nostro è un dialogo in acciaio al ritmo di una musica che mi risuona nella mente.