Lo scarabeo nel formicaio - Strugackij Arkadij and Boris 9 стр.


— Come? E lei?

— Mi scusi, ma di solito dopo il tè ho l’abitudine di fare un riposino sull’amaca…

Indubbiamente sarebbe bastato un unico sguardo avvilito perché il dottor Goannek si ammorbidisse subito e cambiasse le sue abitudini in nome delle leggi dell’ospitalità. Perciò il grossolano e coriaceo Kammerer si affrettò a dare l’ultima pennellata.

— Maledetti anni, — esclamò pieno di comprensione. Era il tocco finale.

Ribollendo di muta indignazione, il dottor Goannek si diresse verso la sua amaca, e io mi tuffai in mezzo ai cespugli di sorbo, aggirai il padiglione medico e, tagliando obliquamente il pendio, mi diressi al cottage del nevrastenico.

2 giugno dell’anno 78. Nell’isba numero sei

Era abbastanza chiaro che, con ogni probabilità, «I Pioppi» non avrebbero più rivisto Lev Abalkin e che, nella sua temporanea residenza, non avrei trovato niente di utile. Ma due cose non mi erano del tutto chiare. Come aveva fatto Lev Abalkin a finire proprio ai «Pioppi», e perché? Dal suo punto di vista, se si stava nascondendo sarebbe stato molto più logico e meno pericoloso rivolgersi ad un medico in una grande città. Per esempio, a Mosca, che distava dieci minuti di volo, oppure a Valdai, che distava appena due minuti di volo. Probabilmente era finito lì per puro caso: o non aveva fatto caso alla previsione della tempesta di neutrini, oppure per lui un posto valeva l’altro. Aveva bisogno di un medico, con urgenza, a ogni costo. Perché?

E un’altra cosa era strana. Possibile che un medico centenario e dalla lunga esperienza si fosse sbagliato al punto di giudicare un esperto Progressore come non adatto a questa professione? È difficile. Tanto più che la questione dell’orientamento professionale di Abalkin non è la prima volta che me la trovo davanti… Sembra una cosa senza precedenti. Una cosa è inviare alla scuola dei Progressori una persona nonostante le sue inclinazioni professionali, tutt’altra è far diventare Progressore una persona che non ha il sistema nervoso adatto. In un caso del genere bisognerebbe allontanarlo dal lavoro, e non temporaneamente, ma per sempre, perché puzza non di inutile spreco dell’energia umana, ma di morte… A proposito, Tristan è già morto… E pensai che, trovato Lev Abalkin, dopo avrei dovuto assolutamente trovare le persone per colpa delle quali è successo questo pasticcio.

Come mi aspettavo, la porta del temporaneo rifugio di Lev Abalkin non era chiusa. Il piccolo ingresso era vuoto, su un basso tavolino tondo, sotto la lampada a gas, troneggiava un giocattolo: un orsetto panda che chinava con solennità la testa, facendo lampeggiare gli occhietti color rubino.

Diedi un’occhiata a destra, nella camera da letto. Evidentemente, qui da almeno due o tre anni non entrava nessuno; persino l’impianto automatico di illuminazione non era stato messo in funzione, e sopra il letto rifatto pendevano, scure nell’angolo, le ragnatele intessute da ragni ormai stecchiti.

Aggirai il tavolino e mi diressi in cucina. Questa era stata utilizzata. Sul tavolo ribaltabile c’erano dei piatti sporchi, la finestrella della linea di approvvigionamento era aperta, e nella cassetta di ricevimento faceva bella mostra di sé un pacchetto non ritirato con alcune banane. Evidentemente, là nel quartier generale «Ž», Lev Abalkin era abituato a valersi dei servigi di un attendente. Però, poteva essere benissimo che non sapesse come far funzionare l’automa pulitore.

La cucina in un certo qual modo mi preparò a quello che avrei trovato in salotto. Per la verità, solo in parte. Il pavimento era completamente ricoperto di pezzi di carta, l’ampio divano in disordine, i cuscini colorati buttati qua e là, sul pavimento, negli angoli più lontani della stanza. La poltrona era rovesciata; sul tavolino, in disordine, piatti col cibo ormai secco e piatti sporchi; al centro svettava una bottiglia stappata di vino, mentre un’altra bottiglia, che aveva lasciato dietro di sé, sul tappeto, una scia appiccicosa, era appoggiata ad una parete. C’era, chissà perché, un solo boccale con residui di vino, ma poiché la tenda della finestra era strappata e rimaneva appesa solo per un pelo, pensai subito che il secondo boccale fosse volato fuori, attraverso la finestra aperta.

Carta spiegazzata se ne trovava non solo sul pavimento, e non tutta era spiegazzata. Alcuni fogli biancheggiavano sul divano, pezzi stracciati erano finiti nei piatti con il cibo, e piatti e vassoio erano stati spostati un po’ da una parte per far posto a un’intera risma di carta.

Feci cautamente qualche passo avanti, e subito qualcosa di duro mi rotolò sotto la pianta nuda del piede. Si trattava di un pezzetto di ambra, simile a un dente con due radici. Era stato traforato. Mi accoccolai, mi guardai in giro e trovai altri pezzettini uguali, e resti di una collana di ambra si trovavano sotto il tavolo, vicino al divano.

Sempre rimanendo coccoloni, presi il più vicino pezzo di carta e lo spiegai sui tappeto. Era la metà di un comune foglio di carta da lettere, su cui era stato tracciato con una stilografica un volto umano. Un viso di bambino. Un ragazzino dalle guance tonde sui dodici anni. Secondo me, una spia. Il disegno era stato eseguito con brevi tratti precisi e sicuri. Proprio un ottimo disegno. All’improvviso mi venne in mente che forse mi sbagliavo, che non Lev Abalkin, ma proprio un pittore professionista, vittima un insuccesso creativo, aveva lasciato quel caos dietro di sé.

Raccolsi tutta la carta sparpagliata, raddrizzai la poltrona e mi accomodai.

E di nuovo tutto mi sembrò piuttosto strano. Qualcuno, velocemente e con sicurezza, aveva disegnato sui fogli dei volti — soprattutto infantili — degli animaletti, chiaramente terrestri, edifici, paesaggi; persino, così mi sembrava, delle nuvole. C’erano degli schemi e degli abbozzi, tracciati dalla mano di un professionista: boschetti, ruscelli, paludi, incroci di strade, e lì, in mezzo a quegli scarni segni topografici, chissà perché, delle minuscole figurine umane, sedute, sdraiate, che correvano, e minuscole raffigurazioni di animali, cervi, alci, lupi, cani, e chissà perché alcune di queste figure erano cancellate con una croce.

Tutto ciò era incomprensibile ed in ogni caso si legava male col caos della stanza e con l’immagine dell’ufficiale di stato maggiore dell’Impero, che non aveva passato il ricondizionamento. Su uno dei fogli trovai il ritratto, mirabilmente eseguito, di Maja Glumova, e mi colpì l’espressione perplessa e sconcertata che era stata colta con grande maestria su quel viso sorridente e, nel complesso, allegro. C’era anche uno schizzo dell’insegnante, di Sergej Pavlovič Fedoseev, uno schizzo da maestro: proprio così doveva essere Sergej Pavlovič un quarto di secolo prima. Vedendo questo schizzo, capii finalmente cosa erano gli edifici raffigurati nei disegni. Un quarto di secolo fa questa era l’architettura tipica delle scuole-internato euroasiatiche… E tutto era stato disegnato con sveltezza, precisione, sicurezza, e quasi all’istante era stato strappato, accartocciato, buttato via…

Misi da parte le carte e ricominciai a osservare il salotto. Attirò la mia attenzione uno straccio azzurro, finito sotto il tavolo. Lo raccolsi. Era un fazzoletto da naso da donna, spiegazzato e lacero. Mi venne subito in mente il racconto di Akutagawa[15] e immaginai Maja Tojvovna, seduta proprio su quella poltrona davanti a Lev Abalkin, che lo guardava, lo ascoltava, e sul suo viso vagava quel sorriso, dietro cui solo come una pallida ombra trapelava quell’espressione perplessa e sconcertata, mentre le mani sotto il tavolo spiegazzavano e strappavano il fazzoletto…[16]

Vidi chiaramente Maja Glumova, ma non potei proprio immaginare che cosa lei avesse visto e sentito. Era tutto racchiuso in quei disegni, senza i quali avrei visto facilmente davanti a me, su quel divano in disordine, un qualsiasi ufficiale dell’Impero, appena uscito dalla caserma e che si gode il meritato riposo. Ma c’erano i disegni, e qualcosa di molto importante, molto complesso e molto oscuro si nascondeva dietro di essi…

Qui non c’era più nulla da fare. Mi avvicinai al videofono e feci il numero di Sua Eccellenza.

2 giugno dell’anno 78. L’inattesa reazione di Sua Eccellenza

Mi ascoltò senza interrompermi, cosa che era di per sé un brutto segno. Provai a consolarmi pensando che la sua insoddisfazione non fosse legata a me, ma a circostanze che nulla avevano a che fare con me. Ma, dopo avermi ascoltato fino in fondo, disse accigliato:

— Con la Glumova non hai combinato quasi niente.

— Avevo le mani legate dalla mia storiella, — risposi freddo.

Non ribatté.

— Cosa pensi di fare adesso? — mi chiese.

— Secondo me, qui non ci torna più.

— Anche secondo me. E dalla Glumova?

— È difficile dirlo. Anzi, non so proprio che dire. Non capisco. Ma naturalmente, la possibilità esiste.

— Secondo te, perché si è incontrato con lei?

— Ecco, questo non lo capisco, Eccellenza. Stando alle apparenze, tutto lascia supporre che si siano amati e abbandonati ai ricordi. Solo che l’amore non era proprio amore e i ricordi non solo ricordi. Altrimenti la Glumova non sarebbe stata in quello stato. Certo, se lui si fosse ubriacato come un maiale avrebbe potuto offenderla… Specialmente se si tiene presente quali strani rapporti avevano avuto nell’infanzia…

— Non esagerare, — berciò Sua Eccellenza. — Non sono più dei bambini. Poniamo così la questione: se lui la chiama di nuovo, oppure va da lei, lei lo accoglie oppure no?

— Non so, — dissi. — Probabilmente sì. Lui è ancora molto importante per lei. Lei non avrebbe potuto trovarsi in uno stato di tale disperazione per un uomo che le fosse indifferente.

— Questa è letteratura, — brontolò Sua Eccellenza e all’improvviso gridò: — Tu dovevi cercare di sapere perché lui l’ha chiamata! Di che cosa hanno parlato! Che cosa lui le ha detto!

Mi arrabbiai.

— Non potevo sapere niente, — dissi. — Lei aveva un attacco isterico. E quando è ritornata in sé, le sedeva davanti un giornalista idiota con la sensibilità di un elefante…

Mi interruppe:

— Devi incontrarla di nuovo.

— Allora permettetemi di cambiare la storiella!

— Cosa proponi?

— Per esempio questo. Sono del COMCON. Su un pianeta è accaduta una disgrazia. Lev Abalkin ne è stato testimone. Ma la disgrazia lo ha così colpito che è scappato sulla Terra e ora non vuol vedere nessuno… La sua salute psichica è rimasta scossa, forse è malato. Noi lo stiamo cercando per sapere che cosa sia avvenuto precisamente…

Sua Eccellenza taceva, evidentemente la mia proposta non gli piaceva. Fissai per un po’ la sua faccia scontenta, calva e lentigginosa, che invadeva io schermo, e poi dissi di nuovo, un po’ sulle mie:

— Cerchi di capire, Eccellenza. Non si può più mentire come prima. Ormai ha avuto il tempo di capire che non sono capitato da lei per caso. Forse sono riuscito a farle cambiare idea, ma se le compaio di nuovo davanti, sarà un chiaro richiamo al suo buon senso! Delle due l’una: o lei ha creduto che sono un giornalista, e allora non ha più nulla da dirmi, e manderà semplicemente al diavolo questo idiota privo di tatto; oppure non ci ha creduto, e allora a maggior ragione lo manda al diavolo. Io al suo posto lo farei. Ma se, invece, sono un rappresentante del COMCON, allora ho il diritto di fare domande, e cercherò di domandare in modo che lei risponda.

Secondo me, tutto ciò suonava abbastanza logico. In ogni caso non riuscivo a farmi venire in mente niente di meglio. Ed inoltre non avevo nessuna intenzione di tornare da lei nella parte del giornalista idiota. In fin dei conti, per Sua Eccellenza era più chiaro cosa fosse più importante. trovare l’uomo o mantenere il segreto sull’indagine.

Chiese senza sollevare la testa:

— Perché stamattina sei andato al museo?

Mi stupii:

— Come perché? Per parlare con la Glumova…

Sollevò lentamente la testa e vidi i suoi occhi. Aveva le pupille iridescenti. Indietreggiai. Evidentemente, avevo detto qualcosa di terribile. Balbettai come uno scolaretto:

— Ma è li che lavora… Dove dovevo parlare con lei? A casa non l’ho trovata…

— La Glumova lavora al Museo delle Civiltà Extraterrestri? — chiese scandendo chiaramente le parole.

— Sì, ma cosa è successo?

— Nel settore specifico degli oggetti di uso sconosciuto, — aggiunse piano. Un po’ chiedeva e un po’ informava. Sentii freddo lungo la spina dorsale, quando vidi l’angolo della sua bocca, le labbra sottili che si storcevano a Sinistra e in basso.

— Sì, — dissi in un sussurro.

Di nuovo non vedevo i suoi occhi. Di nuovo tutto lo schermo era invaso dalla sua calvizie lucente.

— Eccellenza…

— Sta’ zitto! — urlò. Ed entrambi tacemmo a lungo.

— Allora, — disse alla fine con la solita voce. — Ritornatene a casa. Resta a casa e non ti muovere. Posso avere bisogno di te in qualsiasi momento, più probabilmente di notte. Di quanto tempo hai bisogno per tornare?

— Due ore e mezzo.

— Come mai tanto?

— Devo anche attraversare a nuoto il lago.

— Va bene. Torna a casa e fammi rapporto. Sbrigati.

E lo schermo si spense.

Dal rapporto di Lev Abalkin (operazione “Mondo morto”)

Piove di nuovo più forte, la nebbia diventa sempre più fitta, tanto che non si riesce più a distinguere le case ai lati della strada. Gli esperti sono in preda al panico. Hanno paura che i trasformatori biottici non funzionino. Li tranquillizzo. Appena si sono tranquillizzati cominciano a far gli sfacciati e insistono perché io accenda il proiettore antinebbia Lo accendo. Gli esperti esultano, ma a questo punto Ščekn si mette seduto in mezzo alla strada e annuncia che non farà più un passo finché non spengo quello stupido arcobaleno, per colpa del quale gli fanno male le orecchie e gli è venuto prurito fra le dita. Lui, Ščekn, ci vede benissimo anche senza questi insulsi proiettori, e se gli esperti non ci vedono, non fa niente, tanto non hanno bisogno di vedere niente. Piuttosto sarebbe meglio che si occupassero di qualcosa di utile; per esempio potrebbero preparare per il suo ritorno, suo di Ščekn, una zuppa d’avena con le fave. Esplosione di sdegno. In genere gli esperti hanno paura di Ščekn. Ogni terrestre che faccia la conoscenza dei Testoni, presto o tardi comincia a temerli. Ma allo stesso tempo, per quanto sia paradossale, quello stesso terrestre non riesce a comportarsi con un Testone diversamente da come si comporterebbe con un grande cane parlante (come per esempio al circo, o con qualche prodigio della zoopsicologia, ecc.).

Uno degli esperti commette l’imprudenza di dire a Ščekn che se continua a ostinarsi così rimarrà senza pranzo. Ščekn alza la voce. Risulta chiaro che lui, Ščekn, tutta la vita se l’è cavata benissimo senza esperti. Inoltre qui eravamo stati benissimo fino a che esperti non se ne erano visti né sentiti. Per quanto riguarda personalmente quell’esperto che, a quanto pareva, ora ce l’aveva con lui, Ščekn, pensasse piuttosto alla zuppa di avena con le faveEccetera, eccetera.

Sto in piedi sotto la pioggia, che diventa sempre più forte, ascolto tutte queste sciocchezze e non riesco proprio a scrollarmi di dosso una certa sonnolenza. Mi sembra di far da spettatore a una stupidissima rappresentazione teatrale senza capo né coda, dove tutti i personaggi si sono dimenticati la parte e si mettono a improvvisare nella vana speranza di arrivare in qualche modo alla fine. Questa rappresentazione veniva tirata per le lunghe in mio onore, per tenermi fermo il più a lungo possibile, per non farmi fare nemmeno un passo, e nel frattempo qualcuno dietro le quinte fa in modo che mi sia definitivamente chiaro: è tutto inutile, non si può fare nulla, bisogna tornare a casa…

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