«Ah Volete assassinarmi!» gridò il dottore.
Cacciò le mani entro la fascia che portava sotto la giacca e le ritrasse stringendo in ognuna una pistola.
Due lampi balenarono, seguiti da due detonazioni e da due rantoli.
Due uomini caddero luno sullaltro, senza mandare un grido; gli altri, dopo una breve esitazione, si precipitarono allimpazzata giù per la riva, balzando nel fiume e scomparendo sottacqua.
Il dottore, ancora sorpreso da quellaggressione ingiustificabile, era rimasto sulla cima della discesa per vedere se i due uomini tornassero a galla, quando, nel volgere gli sguardi verso la capanna, scorse altre persone che salivano cautamente la riva.
Immaginandosi che fossero altri compagni del battelliere e trovandosi colle pistole scariche, stimò prudenza battere precipitosamente in ritirata.
Se aveva delle braccia solide, aveva anche delle gambe buone. In due salti raggiunse la via che costeggiava la riva e si slanciò verso la sua casa, che non era lontana più di cinque o seicento metri.
Già non distava che qualche centinaio di passi, quando vide due uomini muniti di lanterna di carta oliata corrergli incontro.
Si arrestò, indeciso sul da farsi, credendoli nuovi avversari, quando una voce a lui ormai ben nota gridò:
«Veniamo in vostro soccorso, dottore!»
Erano il generale e Feng, entrambi armati di fucile e di catane.
«Siete voi che avete fatto fuoco?» chiese Lakon-tay, con voce alterata.
«Sì, generale,» rispose Roberto.
«Contro chi?»
«Contro degli uomini che avevano tentato di assassinarmi, dopo avermi attirato verso il fiume.»
«Dalla veranda vi avevo veduto parlare con un uomo, poi allontanarvi, quindi ho udito due colpi di pistola.
Credendo che foste stato voi, sono accorso. Chi può avervi preparato un agguato? E poi, assalire un europeo! Un simile caso non è avvenuto mai in Bangkok.»
«Non si dirà più così,» rispose Roberto, sorridendo. «Me la sono cavata bene e ho ucciso due dei miei aggressori.»
«Chi erano?»
«Mi parvero battellieri o pescatori.»
«Andiamo a vederli. Abbiamo due buone carabine e le catane e nessuno oserà affrontarci. Avete mai avuto questioni con qualche battelliere?»
«Mai, generale.»
«Che quei miserabili vi abbiano assalito per derubarvi?»
«Lo suppongo.»
«O che ci sia sotto la mano di qualcuno dei miei nemici?»
«A quale scopo?»
«Non so, forse per impedirvi di seguirmi.»
«Se fosse così, hanno completamente fallito il loro scopo.»
Si misero in cammino, dirigendosi verso il fiume, preceduti da Feng, il quale rischiarava la via e teneva la carabina armata.
In pochi minuti giunsero sulla riva del Menam. Per non cadere in una imboscata scesero a ispezionare la capanna e la trovarono deserta.
Anche sulla riva non si scorgeva alcun essere umano.
«Avranno avuto una barca nascosta fra i canneti e avranno attraversato il fiume,» disse il dottore.
«È probabile,» rispose Lakon-tay.
Risalirono la riva per cercare i due cadaveri; anche quelli erano scomparsi. I loro compagni, per evitare che i due morti potessero venire riconosciuti, dovevano averli portati via e gettati nel fiume.
Si vedevano invece sulla sabbia due larghe macchie rosse e limpronta di numerosi piedi nudi.
«Non potremo sapere nulla,» disse il dottore. «Che il diavolo se li porti, e che»
Si interruppe, prendendo per mano il generale.
«Vi ricordate del rumore che abbiamo udito presso la finestra, quando eravamo nella vostra stanza?»
«Sì,» rispose il generale, «ed aggiungo che ora sono convinto che qualcuno abbia udito i nostri discorsi.»
«Era possibile una scalata?»
«Sì, essendo la facciata della casa coperta di piante rampicanti, abbastanza robuste per reggere il peso di un uomo.»
«Ci hanno spiati.»
«Ne sono convinto anchio.»
«E a quale scopo?»
«Per conoscere i miei progetti. Quando hanno saputo che voi mi accompagnerete hanno cercato di sopprimervi.»
«Non ne capisco il motivo.»
«Nemmeno io per ora; ma chissà che un giorno non riusciamo a capirlo.»
«Andiamo, dottore, vi scorteremo fino alla porta della vostra casa e domani faremo i nostri preparativi.»
Capitolo IX. Sul Menam
A mezzodì, dopo aver pranzato in compagnia, Lakon-tay ed il dottore a piedi e Len-Pra in palanchino lasciarono la phe, avviandosi verso il fiume.
Premeva loro abbandonare la città prima che quei misteriosi nemici rinnovassero contro il dottore lattentato che per poco non aveva avuto terribili e irreparabili conseguenze.
Nella mattinata avevano tutto preparato per quel lungo viaggio, che poteva durare moltissimi mesi, in regioni assolutamente selvagge e popolate da tribù bellicose, poco ben disposte verso gli stranieri in generale e verso i Siamesi in particolare.
Il balon, ossia la grande scialuppa del generale, era stata fatta venire dal cantiere dove era stata inviata in riparazione qualche settimana prima, e Feng, che aveva ricevuto tutte le istruzioni, laveva equipaggiata con gente scelta e robusta e fornita di tutto il necessario occorrente per quella pericolosa spedizione: viveri, armi, vesti di ricambio, coperte, tende ed altre cose ancora, suggerite dal dottore che non era nuovo ai lunghi viaggi.
Roberto aveva indossato un nuovo costume di leggera flanella bianca, si era strette le gambe entro alte uose di cuoio per difenderle dai morsi dei serpenti, numerosi non meno che nellIndia e nelle foreste Siamesi, e riparato il capo da un casco di midolla di bambù coperto di tela, leggero e ottimo riparo contro i colpi di sole.
Lakon-tay, che apprezzava la praticità dei vestiti europei, aveva rinunciato senza rimpianti alle sue camicie, alle sue fasce di seta ricamate e alle sue babbucce dalla punta rialzata, assolutamente inefficaci a riparare i piedi dalle erbe dure e talvolta taglienti delle foreste, per indossare un costume simile a quello del dottore.
Ad una cosa sola non aveva rinunciato: allalto cappello conico in forma di pagoda, col cerchio doro, distintivo del suo grado, e forse aveva fatto bene, contando appunto su quel distintivo datogli dal re per farsi rispettare e anche temere.
Len-Pra invece indossava una graziosa casacchina di seta fiorata a ricami doro, stretta alla cintura da unalta fascia, calzoncini di seta azzurra non così ampi come usano le nobili Siamesi, aveva sostituito alle scarpette degli stivali altissimi, di pelle gialla, e si era messa in capo un ampio cappello di paglia a forma di fungo, ornato dun piccolo gallone dorato.
Prima di lasciare la phe, Lakon-tay aveva mandato il suo maggiordomo al palazzo reale con un messaggio per Phra-Bard, in cui lo avvertiva che, obbedendo ai suoi ordini, partiva per le regioni settentrionali del regno, alla ricerca del desiderato driving-hook.
Stavano per giungere sulla riva del fiume, dove il balon li aspettava, quando notarono presso la bellissima barca uno sconosciuto che stava chiacchierando coi battellieri.
Non pareva che fosse un siamese, quantunque ne indossasse il costume; aveva la pelle più fosca, la faccia più larga con una certa espressione di selvaggia ferocia, ed era forse più tarchiato e più robusto.
«Chi sarà quelluomo che sta interrogando i vostri battellieri?» chiese il dottore, che, dopo laggressione notturna, era diventato eccessivamente sospettoso. «Non sarà uno dei vostri, suppongo.»
«Qualche curioso,» rispose il generale.
«Sapete perché vi ho fatto questa domanda?»
«No davvero, dottore.»
«No davvero, dottore.»
«Perché gli uomini che ieri sera mi hanno aggredito, avevano tutti quella taglia e quelle spalle così massicce.»
«Quel curioso mi sembra un malese.»
«Ebbene, se gli assalitori che tentarono di assassinarmi non erano Malesi, certo però che rassomigliavano.»
«Mi mettete addosso dei sospetti, dottore,» disse Lakon-tay. «Ora sapremo chi è quelluomo.»
Lo sconosciuto, vedendo avvicinarsi il palanchino, cercò di allontanarsi dal balon, ma il generale con una mossa abile e pronta gli sbarrò la via, impedendogli di risalire la riva.
«Chi sei tu e che cosa volevi dai miei battellieri?» gli chiese con voce quasi minacciosa.
Lo sconosciuto, che dal tipo sindovinava per malese, razza che si è largamente diffusa in tutti i reami indocinesi, guardò il generale con una certa sorpresa, poi rispose:
«Chiedevo se vi era un posto per me, mio signore. Sono un povero battelliere che cerca lavoro.»
«Interrogavi i miei uomini su altre cose, mi parve.»
«Chiedevo loro se andavano lontano.»
«Per incarico di qualcuno forse?» chiese il dottore.
Il malese lanciò sulleuropeo uno sguardo fosco, poi alzò le spalle dicendo:
«Non so, frengi (europeo), che cosa tu voglia dire.»
Ciò detto, con un salto che dimostrava in quelluomo unagilità da scimmia, balzò sulla riva, allontanandosi rapidamente.
«Lasciate che vada a farsi impiccare altrove,» disse Roberto, vedendo il generale fare atto di inseguirlo.
Feng, che si trovava nel balon, era accorso.
«Che cosa chiedeva quel malese ai nostri uomini?» chiese Lakon-tay al fedele Stiengo.
«Cercava di interrogarli per sapere dove eravamo diretti, signore,» rispose.
«Glielo hanno detto?»
«No, perché ho tenuto nascosto a tutti lo scopo del nostro viaggio.»
«Sii prudente, mio bravo Feng,» disse il generale. «Non occupiamoci più di quelluomo ed imbarchiamoci.»
Aiutarono a scendere Len-Pra, conducendola sotto il baldacchino di seta che si ergeva nel centro del balon, si sedettero accanto a lei sui soffici cuscini di seta cremisi e diedero il segnale della partenza.
Tosto le dieci pagaie, manovrate da dieci robusti garzoni, si tuffarono nellacqua ed il balon si staccò dalla riva rimontando la corrente del maestoso Menam.
Nelle loro barche i Siamesi sfoggiano un lusso inaudito, e tanta è la loro passione per quei mezzi di trasporto, che non vi è famiglia, per quanto povera, che non abbia la sua imbarcazione.
Avendo nel loro paese degli alberi immensi, si servono dei tronchi di quelle piante per costruire i loro balon, i quali sovente hanno più di cento piedi di lunghezza. Sono però anche abili costruttori di navi, assai leggere, molto lunghe e strette ed eccellenti velieri, da preferirsi alle pesanti e tozze giunche dei Cinesi e dei Tonchinesi.
Il balon di Lakon-tay non aveva che cinquanta piedi di lunghezza, con una larghezza di dieci ed era stato scavato nel tronco dun albero di tek, legno quasi incorruttibile e che può durare perfino un secolo, rimanendo sempre immerso. I costruttori gli avevano dato forme elegantissime e lavevano, col ferro e col fuoco, reso leggerissimo senza comprometterne la solidità.
La prora, altissima ed affilata, reggeva una mostruosa testa di drago dipinta in rosso e giallo; i bordi erano scolpiti artisticamente e dorati; la poppa, un po meno alta della prua, era munita duna specie di sedile imbottito, su cui stava il timoniere armato dun lungo remo che doveva servire da timone.
Nel centro salzava un bellissimo cup, specie di baldacchino di seta a frange doro, sorretto da quattro eleganti colonnine dorate, e arredato con soffici cuscini pure di seta, bastanti per quattro persone e volendo anche per sei, e sui quali i padroni potevano anche coricarsi comodamente.