Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari 9 стр.


«In quale modo, mio signore, e da chi?»

«Dai bevitori.»

«Io non ho mai udito parlare da loro che aspettassero un Faraone.»

«Loro, forse no; quelli che tu sospetti giunti da Menfi, sì; dovevano saperlo od almeno sospettare che su questa barca si trovava il figlio di un grande Faraone,» disse Ata. «La festa non doveva essere che un pretesto per nascondere un agguato e uccidere il futuro Figlio del Sole.»

«Io non ho parlato con loro, quindi non potevo sapere nulla.»

«E perché ti volevano uccidere?» chiese Ounis.

«Per vendicare la morte dun giovane pescatore che era stato mio fidanzato e che, per appagare la mia smania di ricchezza, si era recato nel tempio di Kantapek a raccogliervi loro colà nascosto.»

«Che istoria ci narri tu?» chiese Ata, guardandola con diffidenza.

Nefer stava per rispondere, quando delle grida di stupore e anche di terrore salzarono fra gli etiopi che stavano tagliando lultimo tratto del sett.

«Tornano i beoni?» chiese Ata, slanciandosi verso prora.

«Guardate, padrone, guardate!» gridavano gli etiopi.

«Dove? Non vedo nessuno sulla riva,» rispose Ata.

«Là, in alto.»

Tutti alzarono gli occhi e con loro grande stupore scorsero volteggiare al di sopra delle palme, che coprivano la riva del Nilo, un numero infinito di punti luminosi che avevano dei riflessi azzurrognoli e che pareva si dirigessero verso il veliero.

«Che cosa sono?» chiese Mirinri. «Delle stelle?»

«Sì, delle stelle che portano fuoco alla nostra nave se non fuggiamo,» rispose Ata. «Quei miserabili non hanno avuto il coraggio di assalire un Faraone, ma si servono dei volatili.»

Si volse verso gli etiopi, che avevano sospeso il lavoro e che guardavano con ispavento quella falange immensa di punti luminosi, che saccostava con rapidità prodigiosa.

«Quanto manca perché il passo sia libero?» chiese.

«Fra cinque minuti la massa erbosa sarà tagliata,» rispose uno per tutti.

«Affrettatevi se vi è cara la vita. Questo pericolo è forse peggiore dellaltro. Sei uomini a bordo per spiegare le vele. Il vento è favorevole e la corrente è forte al di là della barra.»

Poi, tornando verso Ounis e Mirinri, aggiunse:

«Prendete gli archi e non risparmiate le freccie. Fra pochi minuti saremo avvolti in una rete di fuoco. Che il grande Osiride protegga il futuro re dellEgitto.»

CAPITOLO OTTAVO. I piccioni incendiarii

Luso dei piccioni viaggiatori in guerra e anche come rapidi ausiliari del servizio postale, risale alla più remota antichità e gli egizi sembra che siano stati i primi a servirsi di quei gentili messaggeri, come furono pure quelli che più lungamente degli altri popoli li adoperarono.

Li ammaestravano sopratutto per la guerra, onde ardere le città che resistevano troppo ai loro assalti, facendo di essi degli uccelli incendiarii. Possessori di materie ardenti, che non si spegnevano nemmeno collacqua e che dovevano essere forse simili ai famosi fuochi greci di cui fu perduto per sempre il segreto, usavano attaccarli alla coda di quei graziosi ed intelligenti volatili ed a colpi di freccia dirigevano grosse schiere sulle città assediate, determinando in tal modo degli incendii spaventevoli, che costringevano ben presto i difensori alla resa.

Non furono daltronde i soli antichi egizi a servirsi dei piccioni viaggiatori. Anche i greci, molte migliaia danni più tardi, li adoperarono pei servizi di guerra, del commercio e sopratutto nei giuochi olimpici. I giostratori che prendevano parte a quelle sfide atletiche, li mandavano regolarmente ai lontani parenti ed amici, apportatori di loro novelle.

Dicesi che Anacreonte, che visse 500 anni avanti lêra volgare, spedì un piccione a Bathyll, latore duna sua lettera e Pherekraters narrò ai suoi tempi, 430 anni prima della nascita di Cristo, che in Atene i piccioni servivano di messaggeri per le corrispondenze fra paesi e paesi.

Anche i romani se ne servirono, avendo appreso dai Greci larte di ammaestrarli e Plinio anzi racconta dei messaggi di guerra scambiatisi per loro mezzo, durante lassedio di Mutina, e, secondo Geliano, lo stesso avvenne fra Pisa e Algina.

Nessuno però giunse ad addestrare quei volatili come i sudditi dei Faraoni e servirsene per incendiare le città e talvolta perfino le flotte nemiche, che simpegnavano nei canali dellimmenso delta del Nilo.

Erano forse quei piccioni di specie diversa e più intelligente di quella odierna? Può darsi che appartenessero a quella chiamata più tardi di Bagdad, di cui si servirono i mussulmani per una lunga serie di anni e che è anche oggidì la migliore.

Lo stormo immenso, segnalato dagli etiopi, savvicinava rapido al Nilo, solcando le tenebre come una tromba di scintille, spinte da un vento impetuoso. La sua mèta era decisa: la barca montata dal giovane Faraone.

Gli ubriachi o almeno coloro che li avevano aizzati contro i naviganti, non osando assalire direttamente il Figlio del Sole, si erano serviti dei piccioni per combatterlo o meglio per annientarlo, prima che potesse giungere a Menfi. Era quella una prova chiara che alcuni conoscevano lesistenza del figlio del grande Teti, il vincitore dei Caldei e che qualcuno aveva tradito il segreto, così gelosamente conservato per tanti anni.

«Lo vedi, mio signore,» disse Ata, rivolgendosi verso Mirinri, che guardava, senza manifestare alcuna apprensione, quel turbine di fuoco che stava per abbattersi sulla nave sempre immobilizzata. «Tu non volevi credere che quegli uomini ti avevano preparato un agguato!»

«Sì, avevi ragione,» rispose il giovane. «Ed ora giungeranno qui quei volatili?»

«Certo.»

«Ma chi li dirige?»

«Non vedi, signore, sui fianchi di quellimmenso stormo, salire verso il cielo delle freccie fiammeggianti, per impedire ai colombi di disperdersi?»

«Sì, scorgo infatti delle linee di fuoco che salzano fra i palmizi e che formano come una rete ardente.»

«Sono gli adoratori di Bast.»

«Non mi sembra tuttavia che noi corriamo un pericolo così grave come credi, Ata» disse Ounis. «Le nostre vele sono ancora calate e quei volatili non fanno altro che passare in mezzo a noi.»

«È vero, ma molti cadranno qui arsi ed il fuoco che portano appeso alla coda sappiccherà al ponte. Avranno prima calcolata la durata della corda che sostiene la materia ardente. Guarda, guarda bene: non vedi che i fuochi cominciano già a cadere?»

«Facciamo affrettare il taglio del canale,» disse Mirinri.

«Se possiamo uscire dalle erbe prima che quei volatili siano qui, non avremo più nulla da temere.»

«Manca molto?» gridò Ata, rivolgendosi agli etiopi.

«Pochi colpi ancora, signore,» risposero.

«Sbrigatevi: i colombi giungono.»

In quel momento Nefer che fino allora era rimasta muta senza mai staccare, nemmeno un solo istante, gli sguardi da Mirinri, fece udire la sua voce.

«Io lancierò la maledizione sui messaggeri dellaria,» disse. «Iside, la grande dea delle incantatrici, mi udrà e ci proteggerà da questo nuovo pericolo.»

Un sorriso dincredulità apparve sulle labbra del giovane Faraone.

«Provati,» le disse.

Nefer, il cui viso bellissimo appariva in quellistante trasfigurato ed i cui occhi si erano nuovamente accesi di quella strana fiamma che aveva colpito Mirinri, si slanciò verso la poppa del piccolo veliero, salì sulla murata con un solo salto, poi, tendendo le braccia verso la tromba di fuoco che filava già al di sopra delle palme costeggianti la riva del Nilo, lasciando cadere di quando in quando delle fiamme che non si spegnevano nemmeno se andavano a finire fra gli umidi papiri, gridò, con voce stridula:

«O Iside, grande dea delle incantatrici, vieni a me e liberaci dal pericolo che minaccia il giovane Figlio del Sole. Vieni, Horus, col tuo sparviero! Egli è piccolo, ma tu sei grande! Egli è debole, ma tu puoi dargli la forza e disperderà i tristi volatili che stanno per piombare su di noi. Dea del dolore e dio del dolore, dea dei morti e dio dei morti, salvate vostro figlio che ha nelle sue vene il sangue di Horus. Io sono entrata nel fuoco, io sono uscita dallacqua e non sono morta. O Sole, fa parlare la tua lingua! O grande Osiride intercedi e scatena la tua potenza. Venite tutti, liberateci dal periglio, salvate il giovane Faraone. Dio del dolore, dea del dolore: dio dei morti, dea dei morti, accorrete!»

Così parlando, la maliarda vibrava tutta, come se una forza misteriosa facesse sussultare le sue carni. I suoi lunghi capelli neri, che erano sciolti sulle nude spalle, si attortigliavano come serpenti attorno al suo superbo collo ed i suoi braccialetti ed i suoi monili tintinnavano armoniosamente.

Mirinri la guardava stupito, chiedendosi se quella bellissima fanciulla era stata creata da un buon dio o da qualche genio del male. Vi era però nel suo sguardo qualche cosa più dello stupore: vi era dellammirazione.

«Questa fanciulla vale la Faraona che mi ha stregato» mormorò ad un tratto.

Quantunque avesse pronunciate quelle parole con una voce così bassa da non poterle udire nemmeno Ata che gli stava presso, la maliarda girò lentamente il capo verso di lui e un sorriso le apparve sulla piccola bocca.

Poi si rizzò tutta, mostrando le sue forme scultorie, che la leggera kalasiris multicolore appena velava e, fissando i suoi occhi sulle stelle, mormorò a sua volta:

«Morire, che importa? Scendere nel regno delle tenebre sì, ma col bacio del Figlio del Sole sulle labbra!»

Un gran grido, uscito dai petti degli etiopi, strappò Mirinri da quella contemplazione e fece sobbalzare Ata e Ounis.

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