Delle sue nozze niun frutto era anche venuto; cagione d'intima pena per lui, specie se pensava alla mamma, che un amor di bambino avrebbe attirata più spesso e trattenuta più lungamente a Venezia, come quegli altri due la trattenevano, e troppo volentieri, a Belluno. Ma bisognava striderci. La sua Livia, del resto, non si dava pensiero di queste malinconie.
Infine, gli diceva, che te ne fai, se mi ami? Se tu avessi quell'amor di bambino, come ti piace di chiamarlo, non dovresti spartire i tuoi sentimenti fra due? Un altro essere, ultimo venuto, comanderebbe in casa, tua. In quella vece, che cosa avviene? Tu non hai altro che me; mi amerai meglio.
Questo era un argomento perentorio, davanti al quale bisognava deporre le armi ed arrendersi a discrezione.
Sì, sì, hai ragione tu; gridava egli tutto racconsolato. Ma vedi? bisognerà dirmene spesso, di queste dolci parole.
Nel fatto, la signora Livia non sentiva nessuna tenerezza pei bambini, e l'esserne senza poteva anzi parerle una benedizione del cielo. Pensava ella pure che con simili impicci al fianco, gioventù e bellezza ad un tempo si sciupano? Certe cose si sentono, anche confusamente, nell'anima, senza bisogno di pensarci su; e voi le potreste leggere espresse a chiare note di serenità e di contentezza sulla fronte di parecchie donne, se non a dirittura di molte. Strano, non è vero! Si è tanto detto e creduto che Dio abbia spirato in ogni donna il senso della maternità, quel senso arcano e ineffabile che in tutte si rivela, fin dagli anni più teneri, nell'amor della bambola! E questo pensava alle volte anche Raimondo Zuliani; ma oramai senza fermarcisi troppo.
Oh, finalmente! diceva egli tra sè, che cos'è questa maternità? Un istinto. E che cos'è un istinto? Un moto interno, naturale, involontario, irresistibile; impulso oscuro, adunque, una forza cieca, che ci accomuna, nell'adempimento di certe funzioni, ad ogni specie di animali. È della natura umana, o dovrebb'essere, il ribellarsi a questa forza cieca, per seguir la ragione. È chiaro poi, che se avessi figliuoli, io dimezzerei l'amor mio. Livia dice benissimo; lasciamo dunque l'istinto alle bestie.
II.
Pentiti, don Giovanni!
San Silvestro era venuto, ma solo soletto, portando sul Canal Grande, nell'antico palazzo abitato dai signori Zuliani, una lettera di Belluno. La signora Livia ci aveva azzeccato; lettera o telegramma che fosse, la mamma, come si soleva chiamare in famiglia la vecchia signora Adriana, avrebbe scritto di non potersi muovere. Ragione, o pretesto? Pareva una ragione, poichè la lettera parlava di un nipotino che era a letto colla rosolia; pareva un pretesto, poichè la lettera soggiungeva non trattarsi di cosa grave, bensì di una forma benigna, assai benigna, di quella inevitabile malattia da bambini. Ma infine, pretesto o ragione che fosse, il piccino voleva sempre la nonna al suo capezzale, e non c'era modo di spiccarsene. Raimondo lesse, e sospirò, com'era il suo fare; ma non aggiunse parola.
Così, anche su d'un altro punto, aveva ragione sua moglie; avevano corso il rischio di essere in tredici per la cena del capo d'anno. Bisognava ad ogni costo mettere il sequestro, sulla persona del signor Brizzi; e il sequestro fu messo quella mattina, appena Raimondo ebbe fatto ritorno al suo banco.
Il signor Brizzi era il segretario del banco Zuliani, il braccio destro di Raimondo, quello che faceva andare la macchina, e diciamo pure la zecca, poichè era una macchina da far quattrini. L'onestà certamente è la base d'ogni commercio; e quantunque molti ne facciano senza, non bisognerà credere che sia utile imitarli, perchè allora si fabbrica sulla rena, e le case generalmente non durano. All'onestà, per cui la casa Zuliani era omai proverbiale, il signor Antonio Brizzi, grande scritturale nel cospetto del Signore, aggiungeva una diligenza scrupolosa, una prontezza mirabile, una esattezza esemplare, per cui la macchina bancaria andava come un orologio: s'intende, come un orologio che va, e che va bene; due cose che non sono di tutti gli orologi.
Compiamo il ritratto morale del signor Antonio Brizzi, soggiungendo ch'egli era un vecchio scapolo. Ad ammogliarsi prima gli era mancato il tempo; e di ammogliarsi poi non era più tempo. E non se ne doleva; che anzi! Era uomo di gusti semplici, che la compagnia d'una donna avrebbe sempre un po' contrariati; si contentava di poco, non ispendendo la metà di quel che guadagnava, tanto che gli amici lo accusavano di essere omai diventato milionario, o giù di lì. Soprattutto giù di lì, rispondeva egli ridendo; tanto giù, che più sotto c'è il Canale. Unico suo spasso e suo unico sfoggio era il fare un po' lunga la fermata serale al Cappello Nero, dove faceva i suoi pasti, in compagnia di quattro o cinque amici, stagionati e senza famiglia come lui, coi quali si cambiavano due chiacchiere sul più e sul meno, framezzandole con qualche sorso di Murano, o di Valpolicella.
Non si stava già sulle cerimonie, con loro. Le cerimonie lo seccavano a morte, e per questo non si ritrovava bene in casa del suo principale, in quei ricevimenti sempre un pochettino solenni, o che a lui parevano tali; dove bisognava star sulla vita, fare il bocchino, gesticolar poco o nulla, e parlare in punta di forchetta, fra giovinotti inamidati, vecchi incerettati e signore infarinate. I giovinotti inamidati lo mettevano in soggezione, i vecchi incerettati gli facevano rabbia, le signore infarinate gl'incutevano un religioso terrore. Si trattava poi di una soltanto; chè la signora Livia, salvo in circostanze singolari, e veramente costretta dal suo ufficio di padrona di casa, non ne sopportava di più. Ma quella c'era sempre, buon Dio, come obbligata in chiave, e gli pareva una stonatura. Povera contessa Galier di San Polo, così amena, così facilona, e la prima a ridere delle sue infarinature ostinate! Ma il signor Brizzi era fatto così; si ritrovava male con le dame. C'era quella sola? Pagava per tutte.
Conoscendo l'umore del suo segretario, Raimondo Zuliani aveva dovuto attaccarlo col solito preambolo.
So che vi dò noia, mio caro Brizzi; ma voi mi scuserete, perchè non posso fare altrimenti. Mia moglie conta su voi, questa sera; ed io, poi, anche conoscendo le vostre inclinazioni, debbo contarci come lei. Alla cena del buon augurio non potete, non dovete mancar voi, che siete il mio amico migliore. E poi, che volete? Si resterebbe in tredici, senza di voi; è dunque necessaria la vostra presenza.
Allora al fuoco, e senza risparmio, come a Malghera; disse ridendo il signor Brizzi.
Ridendo, sì, ma a denti stretti, e perciò non di gusto, come faceva al Cappello Nero. Li aperse bene, quella sera sul tardi, per maledire la falda e tutto il resto dell'abbigliamento cerimoniale, che aveva dovuto cavar dall'armadio. E nondimeno, quando ebbe finito di vestirsi, non era più tanto feroce. Uscito dal suo quartierino in vicinanza dei Frari, venuto alla riva e sceso in gondola, dopo aver gittata al gondoliere la frase al palazzo Orseolo, le sue invettive cominciarono a condirsi di qualche amenità; segno che quell'ottimo signor Brizzi si veniva bel bello rassegnando al suo fato.
Ebbene, vecchia mia, diceva egli, abbottonando su quella povera falda i due petti del suo palandrano, sei contenta d'essere uscita dall'armadio, ove meritavi di restare fino alla mattina del giudizio universale? Con tante grinze, farai la tua bella figura! E tu, piastrone di tela batista, lustro e sodo come un piatto di porcellana, le vorrai bere, le tue goccioline di caffè e di liquori, non è vero? Strano! soggiunse il signor Brizzi, accomodandosi meglio che poteva sui neri cuscini del felze. Ci sono quei cari giovinotti, che non si macchiano mai. Forse per questo portano i baffi tirati all'insù, che paiono tanti gatti arrabbiati. E noi e noi, poveri vecchi, li portiamo voltati all'ingiù, come tanti Cinesi. Ecco il guaio!
Ebbene, vecchia mia, diceva egli, abbottonando su quella povera falda i due petti del suo palandrano, sei contenta d'essere uscita dall'armadio, ove meritavi di restare fino alla mattina del giudizio universale? Con tante grinze, farai la tua bella figura! E tu, piastrone di tela batista, lustro e sodo come un piatto di porcellana, le vorrai bere, le tue goccioline di caffè e di liquori, non è vero? Strano! soggiunse il signor Brizzi, accomodandosi meglio che poteva sui neri cuscini del felze. Ci sono quei cari giovinotti, che non si macchiano mai. Forse per questo portano i baffi tirati all'insù, che paiono tanti gatti arrabbiati. E noi e noi, poveri vecchi, li portiamo voltati all'ingiù, come tanti Cinesi. Ecco il guaio!
Il signor Brizzi, come abbiamo sentito da lui, era stato tra i difensori di Malghera. Fedele ai ricordi del patrio risorgimento, portava baffi e pizzo all'italiana.
A piè della gradinata del palazzo Orseolo approdava un'altra gondola, donde smontarono dopo il signor Brizzi altri due invitati di casa Zuliani. Tutti e tre, scambiata una stretta di mano, salirono, giungendo proprio gli ultimi all'appello. Nel gran salotto della signora Livia era già adunata, disposta in crocchi, secondo il caso o le affinità elettive, una fiorita compagnia; le donne, i cavalier, l'armi; sì, anche l'armi, rappresentate da Federico Cantelli, nella sua severa uniforme di sottotenente di marina. Quanto agli amori potevano essi mancare? Dove son donne e cavalieri, è più facile azzeccar gli amori che l'armi.
Così tardi? chiese amabilmente la signora Livia, stendendo la sua bella mano al signor Brizzi.
Padrona, rispose l'ameno segretario, inchinandosi, abbia la bontà di scusare un povero villano, che non ha voluto venire con le mani vuote. Come vede, ho portato questi due forestieri.
E contento della sua barzelletta, si trasse da un lato, per lasciar passare alla cerimonia dello shake-hand il cavalier Lunardi e il maestro di musica.
Raimondo respirò per sua moglie. Coi tre ultimi arrivati si era quattordici in punto. Ma non respirò il signor Brizzi, trovandosi là in mezzo a tante persone elegantissime, specie davanti a signore, con le quali non poteva già bastargli una frase in burletta, come quella che aveva finito di dire alla padrona di casa, e sua. Conosceva le signore Cantelli; era anzi stato una volta all'albergo per ossequiarle e mettersi ai loro ordini, quando erano arrivate a Venezia: ma si sentiva impacciato con esse, particolarmente colla signora Eleonora, sempre così contegnosa e così avara di parole. Benedetta la contessa Galier di San Polo, che poteva essere infarinata più del convenevole, se non del necessario, ma infine, viva la faccia sua tinta e ritinta, parlava sempre lei, e non c'era altra noia che di starla a sentire. Noia, poi! Si dice così per dire. La contessa era amenissima; colla sua parlantina avrebbe messo di buon umore un convento di trappisti.
Più impacciato del nostro ottimo Brizzi appariva il signor conte Filippo Aldini. Che la presenza delle signore Cantelli mettesse in soggezione anche lui? Non era da credere. Filippo Aldini era un elegante inappuntabile, un giovinotto alla moda, rotto alla vita dei salotti; sebbene non frequentasse più molte case, come prima faceva assai volentieri, restava sempre quello di prima, nella bella padronanza di sè, dei suoi atti e delle sue parole, disinvolto e misurato ad un tempo, sobrio nel gesto, parco nella celia, ma pronto a scoccarla con aria tranquilla, che non pareva affar suo, come se avesse detta la cosa più semplice e più naturale del mondo. Non si confondeva mai; confondeva gli altri, piuttosto.
Perchè dunque appariva allora tanto diverso? Che fosse ammalato? Raimondo Zuliani, senza far tante indagini, notando solamente la novità della cosa, ebbe compassione di lui; e venutogli accanto, lo aveva tratto bel bello verso le signore Cantelli, a cui l'amico non si era ancora fatto vivo altrimenti, che con un rispettosissimo inchino.
Posso io presentare il mio amico Aldini? aveva detto Raimondo, facendo bocca da ridere.
Ella sa bene, signor Zuliani, di averci già fatto questo regalo; rispose la signora Eleonora con gran degnazione, e, cosa più insolita, abbozzando perfino un sorriso. È vero nondimeno che incontriamo il signor Aldini piuttosto raramente.
Lo incontrano! esclamò Raimondo. Non è egli dunque tornato a riverirle? Davvero davvero, non riconosco più il mio Filippo, il re dei cavalieri.
Filippo Aldini sorrideva a stento, sudando freddo, e balbettando qualche frase scucita. La nessuna importanza sua il timore di essere importuno E frattanto si guardava attorno, come se cercasse soccorso. Da chi, povero Aldini, da chi? Ah, bene aveva pensato quel giorno di darsi ammalato! Sentiva allora che l'idea era buona. Peccato che gli fosse parsa ridicola, tanto che non ci si era fermato su, e non aveva scritto quel bigliettino di scusa a Raimondo, magari mettendosi a letto, per non esser colto in flagranti di bugia, dal più caldo, dal più prepotente degli amici! Si pentiva allora, si pentiva amaramente di non aver colta a volo l'idea, balenata nella mattina al suo spirito, come unica e vera àncora di salvezza che gli porgeva un buon genio.
Bisognava dunque discorrere; e Filippo Aldini si adattò a mettere qualche frase meno scucita di costa a quelle del suo amico Zuliani. Ma appena Raimondo non fu più là in sostegno, lasciò languire la conversazione, e ringraziò nel profondo dell'animo il cavaliere Lunardi, che si avanzava a riverire la signora Eleonora. Nè solamente lo ringraziò, ma subito ne prese occasione a ritirarsi in buon ordine, per andare a discorrere colla signora Galier. Là solamente si sentiva al sicuro.
La conversazione si era venuta animando. Ma qualche timido accordo al pianoforte ottenne il suo effetto. Cascano i filinguelli al paretaio, ha detto il poeta; tutti s'accostano al cembalo. C'è chi domanda una romanza dello Schubert, chi uno scherzo del Grieg, chi un minuetto del Boccherini. Il maestro di musica ha tutta questa roba sulla punta delle dita. Ma soprattutto c'è chi vuol sentire il re degli istrumenti musicali, la voce umana, specie se è voce di soprano, o di mezzo soprano. Del resto, in un salotto, son tutte voci di soprano sfogato. La padrona di casa non canta più, almeno così ella dice; e si capisce che dica così, per far figurare qualche graziosa invitata. Si pregherà dunque la signorina Cantelli. E la cara Margherita non si fece pregar molto. Pensava giustamente, la bellissima fanciulla, che tanto e tanto avrebbe dovuto dire di sì; il meglio era dunque di dirlo subito. Aveva una voce stupenda; cantò con metodo eccellente e con raro sentimento l'Ideale del Tosti, domandato dal cavalier Lunardi, il grande romantico della compagnia. La signora Livia si era appressata al cembalo per sentir meglio. Fu amabilissima; applaudì con ardore, e fece perfino un miracolo, simulando l'atto di abbracciare la gentil cantatrice.
Tutto bene! disse mentalmente Raimondo, stropicciandosi le mani in un angolo del salotto. Così la mamma fosse venuta, che non avrei più nulla a desiderare!
Ma non si può aver tutto, in questo povero mondo. E non potè aver tutto il cavaliere Lunardi, che dopo l'Ideale del Tosti, chiedeva già per grazia l'Amore, Amor del Tirindelli. Un uscio si era aperto, una portiera di broccato si era sollevata, ed appariva nel vano il colossale Giovanni in vistosa livrea, coi guanti bianchi come la neve; piacevole apparizione di granatiere rubizzo, che proferì poche parole, ma buone: La signora è servita.
La signora, la padrona di casa, doveva far l'obbligo suo. Fatto un cenno al marito, che offriva subito il braccio alla signora Cantelli, prendeva il braccio del signor Telemaco; un pezzo grosso della finanza, che siamo dolenti di non aver meglio specificato, ed ora, per far le cose a dovere, sarebbe un po' tardi. Poi volgendosi verso Filippo Aldini, gli disse a mezza voce: