La contessa si era ritirata; ma dal vano di un uscio, voltandosi, aveva gittato un bacio col sommo delle dita a Damiano. E Damiano, che lo colse al volo, non volle lasciarlo senza ricevuta.
Povera tavola pitagorica! gridò egli ridendo. La vedo brutta.
Che cè? disse il Passano, levando la fronte dai suoi scartafacci.
Niente, niente; parlavo a mia moglie. Mia moglie! ripetè il capitano Fiesco. Ecco due strane parole. Sapete, Giovanni mio, che non so avvezzarmi a questo nome? e che mi par sempre un sogno?
Restate nel sogno; rispose quellaltro.
Certamente, certamente, poichè il sogno è così dolce! Ma ora che siamo soli, ragazzo mio, vuoi tu dirmi che cosa significhi la tua visita? Tu non sei mica venuto per sapere dove andassero collocati i miei ducati larghi e neanche per rompermi la testa col fogliazzo. Tu hai una commissione per me, ed una commissione urgente.
Avete ragione; rispose il Passano. Ecco qua, infatti.
Così dicendo, traeva di sotto al giubboncello una lettera, e la porgeva al capitano Fiesco.
Ah, volevo ben dire! esclamò questi. Gian Aloise?..
Lui, in persona. Mi aveva mandato a chiamare in gran fretta, ier sera; ed ho risicato, figuratevi, di fiaccarmi tre volte il collo in quei cento scalini di Violata, non avendo altro lume nel buio se non questi due occhi. Giunto alla sua presenza, eccovi il dialogo che corse tra noi: Verrà di questi giorni a Genova il tuo principale? No, eccelso signore; è più facile che Genova vada a Chiavari, di quello che venga a Genova lui. Ebbene, andrà Genova a Chiavari, nella persona tua; passerai da me domattina per tempo; ti darò una lettera, che dovrai consegnargli senza fallo in giornata; a lui, mi capisci? e parlandogli a quattrocchi, che nessuno ne abbia fumo. Ritornai da messere Gian Aloise questa mane per tempo; tenevo il cavallo sellato ad aspettarmi fuori della porta di Santo Stefano. Avuta la lettera, son ridisceso dalla Montagnola; ho infilata la via dei Lanieri; son montato in arcione, e via di galoppo, che nho ancora le reni fiaccate.
Sintende che ti sarai ristorato a tutte le frasche.
Messere!..
Eh via, non saresti genovese. Hai rinfrescato a San Martino, confessalo; e nota che ti fo grazia di San Fruttuoso. Il secondo bicchiere lhai bevuto a Nervi; il terzo a Recco, con un rincalzo a Ruta, per ragione della faticosa salita; il quarto a Rapallo, il quinto a Zoagli. Dimmi che non è vero.
Siete uno stregone, messere; disse ridendo il Passano. Per altro, non sono mai sceso darcione.
Te lo credo, questo, perchè al debito non sei venuto mai meno. Quanto a rinfrescar lugola, non è mai stato un delitto. E dalloste della Maddalena, poi? Dicono che ce nabbia bevuto una mezzina anche Dante.
Ma sempre stando in arcione; rispose il Passano. Furono tutti bicchieri della staffa.
Il capitano Fiesco sindugiava in queste celie, per non leggere il foglio che gli aveva consegnato il Passano. La lettera donde si aspetta una noia si dissigilla mal volentieri; si spera sempre in un accidente improvviso che possa dispensarcene. Ma laccidente non ci fu, e messer Bartolomeo dovette rassegnarsi. Aperse il foglio, e lo spiegò; spiegato che lo ebbe, incominciò a leggere, ed anche ad aggrottare le ciglia, a batter le labbra, a sbuffare.
Oh Dio! esclamò, quandebbe finito. Ma son pur fastidiosi! Io consigli? E che ci ho da veder io? come ho da darne io, che non ho saputo mai domandarne? Che noia! che noia! E ancora dovrò ringraziarlo, il mio eccelso parente, che ha mandato te per messaggero, e non il suo Filippino.
Filippino?.. balbettò il Passano, che non vedeva la ragione dellessere messo in paragone con quel pezzo grosso.
Già, il nostro buon cuginetto Filippino; riprese il capitano Fiesco. Quello là, o con un pretesto o con un altro, è sempre da queste parti; due, tre, quattro volte ogni mese. Il giovanotto non ha mai avuto tanto da fare nel capitanato di Chiavari, come dal giorno che ho preso moglie io.
Che dite, messere? Io casco dalle nuvole.
Ed io vorrei risalirci, con Fior doro tra le braccia, e non ricomparire mai più alla vista dei seccatori. Vuoi sapere? Filippino sè messo in mente di toccare il cuore a Fior doro. Fa locchio pio, lui, chè una bellezza a vedere. Sospira, recita i sonetti del Petrarca, e li mette a raffronto colle rime amorose dellAlighieri. Una sera, che ci fece la stampita più lunga, figúrati che ci sciorinò tutto il canzoniere della Bella Mano. Tu non lo conosci, il canzoniere di Giusto de Conti da Valmontone, tutto inteso a celebrare la mano della sua bella? Lo conosco io, pur troppo, e me ne dolgono ancora gli orecchi. Maledetto biondino! Quantunque, a farlo a posta, sè imbattuto in una che i biondi non li vuol neanche per prossimo.
O allora, scusate si provò a dire il Passano.
O allora, caro mio, mannoia egualmente; rispose il capitano Fiesco. Qualche volta mi vien voglia di assestargli uno scapaccione.
La contessa se nè avveduta?
E come no? Se ne avvedono gli usci e le imposte, che sono di legno, e gli arazzi e i corami delle pareti; perfino il pappagallo, ultimo avanzo dei dodici portati da San Domingo, che ha imparato a ciangottare: Filippino sciocco! Noto, per amor di giustizia, che vorrebbe dire Filippino Fiesco; ma non gli riesce, e dice sciocco tale e quale. Fior doro, dal canto suo, lo chiama Gunora. E potrebbe anche chiamarlo Guatigana. Ma quel poveraccio va rispettato, che almeno ha saputo morire. Quanti pretendenti, mio Dio! esclamò il capitano Fiesco, sospirando. Hanno avuto tutti buon gusto, non lo nego; ma ti confesso che mhanno tutti mortalmente seccato, e mi seccano. Basta, ti ho fatto il mio sfogo, e tu chiudilo in petto, alta mente repostum, come direbbe Virgilio. Il giorno che avrò accoppato messer Filippino, ne capirai il perchè, senza bisogno di venirmelo a chiedere. Ma ora che ci penso In questa lettera delleccelso Gian Aloise non ci sarebbe la zampa di messer Filippino bello? Mi vogliono levare da Chiavari, è chiaro, come si leva una lepre, o un cinghiale. Vogliono tirarmi sul Bisagno, anzi peggio, sul Rivo Torbido. Una volta là, addio guardia e custodia del fatto mio: feste in Violata, festini a San Lorenzo; dovunque cè un Fiesco, sarà un invito a ballare. E tu balla, Damiano, o lascia ballar chi ne ha voglia. Così il mio Filippino ha libertà di corteggiare Madonna, di atteggiarsi a suo intendio secondo luso della giornata. Ma io me ne intendo più di te, Filippino bello; quando il tuo diavolo nasceva, il mio andava già ritto alla panca. E per la croce di Dio Oh, smettiamo; ecco madonna che torna.
Infatti, sulluscio dondera sparita unora prima, riappariva Fior doro.
Avete finito di far conti? dissella.
E da un pezzo; rispose Giovanni Passano.
Allora, eccomi qua. Vorrete accettare un rinfresco, per aguzzar lappetito? Polidamante, i bicchieri e il vin di Cipro.
Polidamante, che era comparso allora nel vano delluscio, corse ad eseguire i comandi. Due minuti dopo, era in giardino col vin di Cipro e il vassoio.
Dategli da bere, Juana; disse il conte Fiesco alla moglie. Ma in verità non lo merita. Sapete che ha vuotate tutte le cantine che ha incontrate in viaggio, da San Martino dAlbaro al ponte della Maddalena? E certo, con lo stomaco scavato da tanto bere, egli ha più fame che sete.
È anche pronta la cena; rispose Fior doro; ed egli non avrà da penar molto. Genero, soggiunse ella, accostando il calice a quello del Passano, siate il benvenuto coi vostri scartafacci e colle vostre belle notizie. Beviamo ora alla salute della nostra Bianchina.
Tutto bene, sì; ma le belle notizie il Passano non le poteva mandar giù, dopo averle portate, e conosciute molto noiose.
Ed ora, diceva egli tra sè, mentre mandava giù più facilmente il suo vin di Cipro, come la prenderà Fior doro, quando saprà che si vuol Damiano a Genova? Basta, la cosa non mi riguarda; ambasciator non porta pena.
Capitolo III.
I commentarii di Cesare
La cena era imbandita nella gran caminata del castello, dove il nostro Giovanni Passano ebbe il piacere di far riverenza a madonna Bianchinetta Fiesca, la veneranda madre del suo capitano. Il giovinotto la chiamava madrina, per aver ella tenuta la vezzosa Higuamota al fonte battesimale. La nobil signora vide assai volentieri il marito della cara figlioccia, e lo chiamò a dirittura figliuolo. Ha di queste delicatezze la vecchiaia, e pare che le derivi dal cielo, a cui è già tanto vicina.
Si ragionò di molte cose, a mensa, mutando gli argomenti come le portate. Così venne in tavola leccelso Gian Aloise, con tutte le sue vaste ambizioni, cherano poi la gloria e lonore della illustre casata dei Fieschi; una delle prime signorili dItalia, e già considerata come principesca, tanto che non si faceva più lega o trattato di pace tra il re Cristianissimo e gli stati Italiani, che non vi fosse inclusa quella grande famiglia, alla pari con essi. Ed anche, volgendo il discorso qua e là, non fu dimenticata una più potente signoria, che per verità non era argomento da tavola; vogliamo dire la peste, oramai da tre anni vagante in Liguria, come nelle regioni contermini, ma che a Genova non aveva potuto menare gran guasto, per le buone provvisioni del governo. Strano, per altro, che ne avesse avuto a pagar le pene il provveditore, che era messer Giacomo Fouchesolts, luogotenente del regio governatore monsignor Filippo di Cleves. Ma oramai da un anno il povero luogotenente era morto, succedendogli, come sappiamo, il Roccabertino; sicchè, non cera più molto da dirne, e neanche molto di un morbo al quale i popoli dEuropa serano avvezzati in que tempi, come noi a tutte le specie di nemici invisibili, che coi nomi svariati di microbii, bacilli, micrococchi e germi patógeni, dovrebbero poi essere lattenuata ma non estenuata discendenza dei persecutori di quattro o cinque secoli fa.
Parliamo di cose allegre; disse ad un certo punto il Passano. Ne ho sentito una, che mi ha riempito di giubilo. Voi scrivete i vostri commentarii, capitano?
Chi te lo ha detto? Sei arrivato ora, e già sai
Non ve ne maravigliate, principale. Per giunger quassù, naturalmente, dovevo passar di laggiù.
Tu parli come un libro stampato; disse Bartolomeo Fiesco. Alla mia volta dovevo immaginare che don Garcìa e frate Alessandro non volessero aver segreti per te. Sono essi infatti i miei due pazienti uditori serali. Che vuoi? bisogna ammazzare il tempo. Io scrivo di giorno, e leggo di sera. Oggi appunto ci avevo un paio di capitoli finiti. Ma ora che sei capitato tu coi tuoi scartafacci, tanto più importanti dei miei
Li avete letti, i miei; letti ed approvati; interruppe il Passano. Non vogliate defraudarmi della parte mia. Diteglielo voi, madrina; soggiunse il giovinotto, vedendo che il principale nicchiava; diteglielo voi, che ha da leggere.
Mio figlio mi fa piacere, se legge; rispose madonna Bianchinetta. Quando legge dei suoi viaggi, mi par di viaggiare con lui.
E che bel viaggiare! aggiunse il Passano. Se scrive come parla, ha da essere un racconto gustoso.
Voi volete lodarmi, Giovanni, e, sia detto con vostra buona pace, proferite una sciocchezza insigne; sentenziò gravemente Bartolomeo Fiesco. Imparate, giovinotto di poche lettere, che lo scrittore italiano si guarda bene di scrivere come parla, avendo alto il rispetto delle vergini muse, dei lettori di buon giudizio, e di sè. Quando parla, apre la bocca, e dà il volo a tutti i passerotti che gli girano per lanima; quando scrive, li mette tutti quanti sotto chiave, indossa il lucco, tempera la sua penna doca, e va a cercare nel fondo del calamaio tutte le sentenze più gravi, tutti i più ornati periodi. Prosa robusta vuol essere. Noi discendiamo dai Romani, che diamine! e Cicerone, maestro in materia, vi mostrerà collesempio che altro è scrivere un bigliettino al suo segretario, altro è scrivere a Pomponio Attico; altro scrivere a Pomponio, ed altro assalir Catilina, o Verre, o MarcAntonio. Ma basta; voi mi sentirete, o giovane inesperto, mi sentirete scrittore; e se non dormirete in piedi, o seduto, lavrò per un atto di valor singolare, da mettere accanto agli altri, per cui vi ho sempre stimato ed amato. Dixi.
E qui, naturalmente, una bella risata, di quelle che sapeva rider Damiano. La cena era finita, e i famigli erano venuti a sparecchiare, mentre i padroni di casa e il loro ospite uscivano a far due passi in giardino. Quando rientrarono, la gran tavola era rischiarata da tre grandi lucerne dargento; il lusso dallora, in materia dilluminazione. Il numero dei lumi e la preziosità del metallo compensavano la poca vivezza della luce. E non solo cerano lumi in tavola, ma anche ciò che può far perdere il lume del raziocinio a chi non sappia usarne con discrezione; vogliamo dire certe bocce vistose di vino delle Cinque Terre, coi calici di cristallo in grandi vassoi dargento. Furono allora mandati a chiamare i due uditori pazienti che per verità erano impazienti daspettar la chiamata, tanto furono pronti ad accorrere.
Offriva un bel quadro, la caminata di Gioiosa Guardia, in quella sera di marzo, al lume delle tre grandi lucerne dargento, i cui dodici lucignoli, diradando le ombre senza cacciarle del tutto, lasciavano intravvedere lungo le alte pareti i ritratti di quattro o cinque generazioni dei Fieschi, soldati e marinai, ambasciatori, vescovi, cardinali e papi. Ma lo sguardo era maggiormente attratto verso il camino, onde la sala prendeva il suo nome di caminata; gran camino di pietra nera scolpita, sul cui alto stipite sorgeva lo stemma dei Fieschi, col suo elmo di fronte, carico di svolazzi e fogliami, donde apparivano affrontati il gatto sedente e il basilisco nascente. In quella mezza luce non si poteva leggere il motto: sedens ago, scolpito in una fascia tra lelmo e lo scudo; e questo solamente si ricorda per amor desattezza. Davanti al camino, un po lontano dal capo della tavola, sullalto scanno comitale sedeva madonna Bianchinetta, tutta vestita dormesino nero, con la sua cuffiettina della medesima stoffa marezzata, donde sbucavano sulle tempie le ciocche dei capelli bianchi come neve, tanto belli a vedersi nelle case che serbano il culto della dolce famiglia. Alla destra di lei stava la contessa Juana, ma seduta più in basso, in modo da potere ad ogni tanto piegar la testa sul bracciuolo dello scanno, e i suoi capelli nerissimi alle carezze della vecchia signora. I detrattori delle suocere avrebbero dovuto ritrovarsi un po là, per sentirsi morire leterna celia sul labbro.
Presso il capo della tavola, o meglio, tra questo e la contessa Juana, e avendo alla sua destra il Passano, era venuto a sedersi Bartolomeo Fiesco, pronto a squadernare i suoi gran fogli di carta. Dallaltro lato sedeva frate Alessandro, e presso a lui don Garcìa, con Polidamante; il quale per verità non si poteva dire che sedesse, avendo addosso largento vivo, ed ora per una cosa ora per laltra cercando sempre di muoversi. In mezzo al semicerchio sarebbe rimasto uno spazio vuoto; ma lo colmavano già due grossi alani, Ovando e Bovadilla. Immaginate di certo chi avesse chiamata così quella coppia canina. Onore immeritato, e solamente da attribuirsi alla sua desinenza, il nome del commendatore di Calatrava era venuto a decorare la femmina. Gran matti, quei cani, essendo ancora molto giovani; più matti di Polidamante, col quale facevano a correre nei cortili e nei fossi di Gioiosa Guardia. Ma per allora, o che sentissero la gravità del momento, o che avessero abbastanza rosicchiato in cucina, si erano adagiati in quel vano, come due sfingi di basalto, colle zampe anteriori accostate e coi musi allungati sulle zampe. Facevano così per godere quanto più potevano la frescura del pavimento? o non piuttosto per prepararsi a gustare la prosa robusta duno scrittore italiano?