Nella quarta isola, che fu chiamata Isabella, Cristoforo Colombo trovò bei laghi d'acqua dolce, e frutti svariatissimi, e sciami di pappagalli «che oscuravano il sole»; molte lucertole, dei cani che non abbaiavano, niente spezierie, niente oro, ma molti indizi di una grande isola verso mezzogiorno, che i naturali dicevano ricca di ogni ben di Dio. S'intende che i naturali parlavano agli interpetri, e questi riferivano, servendosi di quel numero ancora troppo ristretto di parole castigliane, delle quali avevano inteso, e fors'anche frainteso il vero significato.
Una grande isola! e ricca! Era dunque Cipango? Bisognava lasciare al più presto quell'arcipelago di isolette, così belle, ma povere, e andare alla scoperta della terra maravigliosa. Venti contrarii, bonacce, piogge frequenti, impedirono per molti giorni la partenza, o ritardarono il corso. Finalmente la squadra salpò alla mezzanotte sopra il 24 di ottobre, e costeggiate alcune isolette a cui l'almirante impose il nome di Islas de Arena, giunse la mattina del 28 all'approdo di una grande isola, le cui alte montagne gli ricordarono quelle a lui note della Sicilia. Posto piede a terra, ne prese possesso nelle forme consuete, imponendo a quell'isola il nome di Giovanna, in onore del principe Giovanni, il piccolo Infante di Castiglia.
Era destino che tutti quei nomi dovessero perire. San Salvatore diventò l'isola del Gatto; Fernandina, l'Esuma; Isabella, l'Esumeta; le isole de Arena, Mucaras; Giovanna riprese il nome che aveva dai suoi naturali, il nome di Cuba.
Un fiumicello metteva pure nel golfo a cui approdava Cristoforo Colombo. Quel fiumicello prese e ritenne il nome di San Salvatore. Entrandovi col palischermo, per iscandagliarne la profondità, gli Spagnuoli posero in fuga due piroghe, le quali si erano poc'anzi staccate dalla riva. Ed anche posero in fuga gli abitanti della costa, nelle cui capanne non erano che stoie, tessute di filamenti di palma, uncini, fiocine d'osso, ed altri arnesi da pesca. Si incominciava male, per ritrovare i tesori di Cipango. Rimontato in nave, l'almirante si accinse a scorrer la costa verso ponente, e in quella esplorazione scese parecchie volte a terra, visitando villaggi, donde gli abitanti costantemente fuggivano ai boschi. Le case erano meglio fabbricate, la pulitezza notevole; non mancavano indizi d'una civiltà più inoltrata; ad esempio, certe statue d'idoli, rozzamente intagliati, ma con certa vivezza di espressione, nel legno.
Sicuramente, le maraviglie descritte da Marco Polo non avrebbero indugiato a mostrarsi. E questa non era solamente la speranza di Cristoforo Colombo, ma anche quella di Martino Alonzo Pinzon. Tre naturali di Guanahani, imbarcati sulla Pinta, dicevano che dietro ad un promontorio, poc'anzi denominato delle Palme, era un grosso fiume, rimontando il quale, si poteva andare in quattro giorni a Cubanacan!
Cubanacan! ripeteva Martino Alonzo. Cubanacan! Non è corruzione, questa, del regno di Kublai-kan? Siamo sull'orma, signor almirante, siamo sull'orma.
Vediamo di non far confusioni; rispondeva l'almirante. Se questa è l'isola di Cipango, come potrebb'essere il regno di Kublai-kan, che Marco Polo ha collocato in terraferma? Notate, Martino Alonzo, che questa è un'isola; ce l'hanno annunziata per tale gl'interpetri, indicandola a noi, verso mezzogiorno, quando eravamo all'áncora nelle acque dell'Isabella.
Avremo capito male, replicava Martino Alonzo Pinzon. Per intanto, i miei tre selvaggi dicono che questa non è un'isola. E la chiamano Cuba, e dicono che Cubanacan si ritrova a quattro giornate dentro terra; soggiungono che c'è oro in abbondanza; che cosa si vuole di più?
La scoperta del gran fiume, donde si avrebbero a prender le mosse; rispose placidamente Cristoforo Colombo. Cerchiamo dunque il gran fiume.
Ma girato il capo delle Palme, non si trovò punto il gran fiume. Altri promontorii furono veduti e girati via via; ma senza ritrovare, non che il gran fiume, un sorgitore in cui gettar l'áncora. Il vento soffiava al traverso; l'infoscarsi del cielo faceva prevedere un grosso temporale. L'almirante pensò giustamente che fosse atto di prudenza ritornare indietro, per ormeggiarsi alla foce di un altro fiume, già veduto tre giorni prima; al quale, per l'ampiezza della sua foce, aveva imposto il nome di Rio de los mares.
Così erano giunti all'ultimo giorno di ottobre. La mattina seguente, al primo spuntar del sole, l'almirante mandò i palischermi alla riva, perchè un drappello dei suoi marinai visitasse un villaggio, le cui capanne si vedevano biancheggiare tra gli alberi. Andarono i marinai e scesero a terra; ma al loro apparire, gli abitanti spaventati presero la via dei boschi, nè ci fu verso, con parole o con segni, di farli ritornare alla spiaggia.
Capitolo V.
Il sogno di Damiano
È lecito di sorridere delle illusioni di Cristoforo Colombo, partecipate ed accresciute da Martino Alonzo Pinzon; ma non è altrimenti lecito di riderne. Il sorriso è sempre benevolo: significa qualche volta la condiscendenza; qualche altra è un giudizio pietoso che facciamo di noi medesimi, stimandoci pienamente capaci, nelle stesse condizioni, di cadere negli stessi errori. Ridere, per contro, è da orgogliosi che si credono infallibili ed impeccabili; significa l'ironia, il sarcasmo, lo scherno; abbonda di solito nella bocca degli sciocchi, e in quella degli ignoranti, loro amici e compari. Vogliate, di grazia, considerare una cosa, anzi due. Prima di tutto, bene aveva potuto Cristoforo Colombo argomentare l'esistenza di un continente di là dall'Atlantico, avendo egli presupposta la sfericità della terra. Ma posta la fede sua, come quella di tutto il mondo cristiano, nella autorità scientifica delle Sacre Carte, che quasi gli misuravano a palmi la superficie del globo; e ammessa la veracità delle relazioni di Marco Polo e di Ser Giovanni Maundeville intorno alle regioni estreme dell'Asia; di che avrebbe colmato il poco spazio che gli rimaneva ignoto a ponente, se non delle zone ultimissime dell'Asia, che il Veneziano e l'Inglese non avevano intieramente visitate? La vera trovata del navigatore Genovese, quello che si chiamerebbe oggi il lampo del genio, consisteva nel cercare quei confini orientali dell'Asia per la via di ponente. In tutto il resto, lo stringevano d'ogni parte le autorità, lo incatenavano i pregiudizi del volgo.
E poi, e poi, contemporanei dell'anima mia, che avete a buon mercato i manuali e gli atlanti, le carte murali sotto gli occhi e il maestrino in cattedra, pensate che pericoli, che stenti e sopra tutto che costanza c'è voluta, per imbandire a noi un così lauto pasto di dottrina. Possiamo sorridere, non abbiamo il diritto di ridere. Del resto, si è riso tanto a Salamanca, da tutti quei sapientoni, che ben possiamo astenercene noi altri.
Ammettiamo invece, sorridendo, come e perchè i racconti di Marco Polo comandassero allo spirito del grande navigatore Genovese. Lo vediamo ora, alla foce del Rio de los mares, risoluto di trovare quel benedetto Cubanacan, in cui Martino Alonzo, il comandante della Pinta, vedeva una semplice corruzione di Kublai-kan. Ignoravano ambedue una cosa risaputa più tardi: che i naturali di quei luoghi dicevano nacan come noi diciamo il «mezzo»; donde la conseguenza che Cubanacan significasse il mezzo, il centro di Cuba. Il Pinzon, che ci vedeva una corruzione di Kublai-kan, avrebbe potuto con ugual fondamento vederci un Cipang, che era il nome riferito da Marco Polo per il regno insulare del Giappone. Del resto, il desiderio di associare le nuove scoperte ai vecchi nomi, era proprio nel sangue. Cuba, quando si perdette ogni speranza di farne tutt'uno con l'isola di Cipango, fu ascritta all'arcipelago delle Antille; un nome opportunamente svecchiato dalla famosa Antilla di Aristotele, cavata ad orecchio dalla non meno famosa Atlantide di Solone, e del suo pronipote Platone.
Ma è tempo che ritorniamo al racconto. Fuggiti dalla riva i selvaggi al primo entrare dei palischermi nella foce del Rio de los mares, l'almirante lasciò riposare qualche ora la sua marinaresca, volendo anche persuadere a quei sospettosi naturali che egli non aveva alcuna intenzione ostile. Nel pomeriggio mandò solo, nel bargio, uno dei suoi interpetri di Guanahani.
Gli abitanti del villaggio erano ritornati alle loro capanne; ma stavano sempre all'erta, pronti a fuggire da capo. Videro accostarsi il bargio, ravvisarono nel vogatore un selvaggio della loro specie, e stettero ad aspettarlo. L'interpetre, come fu giunto in vicinanza del lido, tanto da poter essere udito da terra, si rizzò sulla prora della piccola barca, e rivolse il discorso a quei popoli, dipingendo loro gli stranieri come esseri sovrumani, venuti dal cielo, bianchi nel volto, amici degli uomini rossi, ai quali facevano molti bei donativi, simili a quello che egli agitava a braccio teso davanti a loro, facendolo risuonare piacevolmente agli orecchi. Finito il suo discorsetto, l'indiano si buttò in acqua risoluto e volse nuotando alla spiaggia.
Era solo; fu accolto senza sospetto. La sua parlata, veramente, era un pochino diversa da quella di Cuba; ma come può essere diversa tra popoli del medesimo sangue, vissuti a lungo divisi. Stentarono alquanto a capirlo, ma lo capirono finalmente, e si persuasero che gli stranieri erano venuti da amici. E poi quel sonaglio che il messaggiero faceva tintinnire al loro orecchio, che musica!
Subito fecero scivolare dalla spiaggia le loro svelte piroghe; ci posero dentro cotone, frutti e cassava; con quei presenti mossero incontro alle navi degli uomini bianchi.
L'almirante li accolse con dimostrazioni di giubilo; gradì i presenti, e li ricambiò, al solito, con piccoli campanelli di bronzo e perline di vetro. Quei naturali non portavano pezzi d'oro nativo sospesi alle nari; ma pezzi d'argento. Metallo anche questo, e di maggior valore che non dovesse averne venti o trent'anni più tardi, quando da Cuba, per l'appunto, e da tutte le altre terre scoperte, se ne rovesciò tanta abbondanza in Europa.
Anche l'argento aveva dunque il suo pregio, e la sua apparizione fu salutata con gioia. Ma più lieta suonò all'orecchio degli uomini bianchi la notizia (così almeno parve loro d'intendere) che nell'interno dell'isola, a quattro giornate di cammino, era il soggiorno di un re potente e ricchissimo. I naturali della costa gli avevano già mandati messaggeri, per avvertirlo dell'arrivo di quelle tre smisurate piroghe con le ali. Se gli uomini bianchi restavano ancora sei giorni, li avrebbero visti ritornare, e molto probabilmente con messaggeri del re.
Cristoforo Colombo poteva aspettare sei giorni, ed anche di più; ma voleva esser sicuro di entrare in relazione con quel re, in cui era lecito di immaginare il gran Cane. Perciò, scambio di aspettare i messaggeri del re, risolse di mandare i suoi nell'interno dell'isola, chiamando per tale Ufficio Rodrigo di Xeres e Luigi di Torres.
Ah, finalmente il grande interpetre avrebbe potuto sfoderare la sua dottrina poliglotta? Egli conosceva e parlava l'ebraico, il caldaico, il siriaco, e cincischiava anche l'arabo. O l'una o l'altra di quelle lingue avrebbe intesa il gran Cane. Ma se non ne avesse intesa nessuna fra tante?
Ad ogni buon fine Cristoforo Colombo mandò compagni all'interpetre poliglotta due naturali, uno di Guanahani, il quale già conosceva quel po' di spagnuolo che si è detto, e un altro della medesima spiaggia di Cuba, il quale, trattandosi di non uscire dall'isola materna, volentieri accettò.
Ma non dovevano andar soli quei quattro. Non lo voleva quello spirito bizzarro di Damiano. Indettatosi brevemente col suo compagno Cosma, si presentò all'almirante per dirgli:
E due genovesi, per caso, non potrebbero andare a Cubanacan?
Per che fare? domandò l'almirante.
Ma che so io! quello che faranno Rodrigo Xeres e Luigi di Torres. Questo bravo Giudeo venuto alla fede, sa la sua lingua madre, la caldaica, la siriaca, e un pochettino anche l'araba; ma poi
Orbene? che cosa vorreste voi dire?
Vorrei dire che non sa il genovese, che è lingua madre, assai più dell'ebraico.
Sorrise l'almirante, e notò con accento di arguta bontà:
Voi due, Cosma e Damiano, mi sembrate uomini da conoscere ben altro che la sola lingua madre dei Liguri.
Metta pure Vostra Eccellenza che conosciamo il latino; replicò arditamente Damiano. Se si dovesse incontrare sulla strada il Prete Janni, ci vorrebbe qualcheduno che potesse parlargli in latino, io m'immagino. Come prete, infatti, leggerà il suo breviario ogni giorno.
A quella trovata del bizzarro Genovese non si poteva che ridere. E ridendo, Cristoforo Colombo diede licenzia ai due concittadini di seguire la spedizione entro terra. Damiano saltò dalla gioia, e subito corse ad avvisare il compagno.
Si parte, sai? L'almirante manda anche noi a riverire il gran Cane. Mi sa mill'anni di vederlo.
Chi? disse Cosma.
Il gran Cane, perbacco. Mi preme di sapere se è muto anche lui, come tutti i cani che abbiamo trovati finora.
La mattina seguente, ai primi chiarori del giorno, si pose l'ambasceria in cammino. Apriva la marcia il naturale di Cuba, che aveva pratica dei luoghi; seguiva Rodrigo di Xeres, accompagnato da Luigi di Torres. Chiudevano la marcia i due Genovesi. Il naturale di Guanahani andava un po' avanti, un po' indietro, per servire, nella sua qualità d'interpetre, al bisogno di tutti, quando volevano intendere i discorsi del condottiero, o farsi intendere da lui. Ma molto più spesso era al fianco di Damiano, che diceva di volergli insegnare il genovese, ma nel fatto cercava d'imparare quanto più poteva della lingua selvaggia.
Si erano avviati per un'erta verdeggiante, dove non appariva traccia di sentiero. Felicità dei selvaggi e dei cacciatori, di non conoscere le strade battute. E giunti al colmo dell'erta, penetrarono in una macchia che pareva di lentischi; donde, per vallette e colline alternate, entrarono in una valle più grande, fuor dalla vista del mare. Passarono accanto a certi laghetti d'acqua dolce, i cui margini erano vestiti di borraccina, e su cui gittavano ombre amiche certi grandi alberi di specie ignote, dal largo fogliame, quali vestiti di fiori, quali carichi di frutti, quali ancora di fiori e di frutti ad un tempo: primavera ed autunno associati in una sola verzura. Tutto rideva, in quel paradiso, e tutto anche cinguettava, poichè c'erano gli uccelli a migliaia, svolazzanti di fiore in fiore come i piccolissimi còlibri, rampicanti di ramo in ramo come i pappagalli, trasvolanti da un albero all'altro come le gazze, variopinte e loquaci non meno dei loro parenti rampichini.
La varietà dei frutti, la bellezza dei lor colori, e la stranezza delle loro forme, destavano la curiosità e l'ammirazione degli ambasciatori. E di molti assaggiarono, senza verun timore di avvelenarsi, poichè ne mangiavano ghiottamente gli uccelli, questi primi conoscitori della gastronomia vegetale. Del resto, anche i due naturali intendevano il fatto loro, e andavano essi medesimi a spiccar dai rami i frutti più squisiti, scegliendoli al punto loro di maturità, che gli Europei non avrebbero potuto a tutta prima conoscere.
Era la festa del verde e dell'azzurro; del verde che splendeva con cento gradazioni diverse intorno ai viandanti ammirati, dell'azzurro che si stendeva, profondamente sereno, sulle vette degli alberi giganteschi. Tra il verde e l'azzurro correva un'aria fresca e purissima, aggraziata dall'effluvio di mille fiori, ravvivata dal predominio delle fragranze resinose, che giungevano gradite alle nari, dando un senso di salute alle fibre del cervello, e di vigore alle facoltà dello spirito. Per far l'illusione compiuta, per lasciar credere che fosse quello un altro paradiso terrestre, la creatura umana era assente da quei luoghi. C'erano bensì i viaggiatori; ma è dell'animo nostro, davanti ai grandi spettacoli della natura, il fare astrazione da noi medesimi, non vedendo e non considerando che quelli. Nella gran solitudine erano voce unica i contrasti della luce e dell'ombra; unica varietà i colori del quadro; mancava la nota umana, così spesso stridente, che reca qualche volta l'immagine e il senso della vita, ma guasta sempre la calma e riconduce alla terra il vagabondo pensiero. Ad un certo momento, davanti ad una radura della foresta, dove ad un lago seguiva una lunga e vasta prateria, i nostri messaggeri avevano veduto bensì in lontananza un drappello allineato di uomini, sicuramente guerrieri, immobili al posto loro, e custoditi sul fianco dalle loro sentinelle, pronte a dare il sognale di ogni imminente pericolo. Strana cosa, in terra di uomini ignudi: quei guerrieri apparivano tutti vestiti di rosso. Ma la visione non era durata che il tempo di avvicinarla ad un tiro di balestra. Le sentinelle avevano dato un grido; e guerrieri e sentinelle avevano allargati i rossi mantelli, spiccando il volo verso più lontane regioni. Erano i rossi fenicotteri, allora così numerosi nell'isola di Cuba.