Ma il povero maestro non perdeva per così poco la tramontana. Le sue dita seguitavano ostinatamente la tastiera, come l'ago calamitato la direzione del polo, e ne facevano balzare suoni discordi e incomposti, ch'egli accompagnava col suo canto, del quale Tiberino, buon intendente di musica, non ebbe modo di indovinare la chiave. Mai cigno d'Eurota, o d'altro fiume classico, cantò più sgraziatamente di lui, e l'uditorio, che non pareva andasse in brodo di succiole, si faceva beffe del suono e del motto.
Scusino! disse allora il maestro. Ho qui un notturno di mia fattura, e se vogliono udirlo
Certo! certissimo! la si figuri se non vogliamo udirlo! gridarono a gara molte voci nella folla.
Ella suona come una campana; disse uno degli astanti, facendo un inchino.
Canta come un uscio sugli arpioni; soggiunse un altro.
E la gente a ridere e gridargli: Suoni, maestro, suoni il notturno! mentre i monelli seguitavano a far viaggiare il cassone.
Il poveretto, senza punto scomporsi e come non accorgendosi di tutte quelle irriverenze, dopo aver ringraziato con un comico accennar del capo tutti i suoi lodatori, diè principio alla cantilena. Noi ne capimmo assai meno di prima: agli altri bastò che avesse incominciato a suonare, perchè i fischi ripigliassero l'accompagnamento, le bucce volassero da capo e le scosse al cembalo diventassero più frequenti e più forti.
Vi fu allora un momento in cui il suonatore mi parve concentrarsi in sè medesimo, quasi per rispondere ad una voce del suo cuore, e la sua faccia abbrustolita fu come trasfigurata da un senso di arcana mestizia. Egli si ristette dal suonare; chiuse il cembalo, si alzò, e, preso con una mano il cappello, e postasi l'altra sul petto, andò attorno a chiedere la buona grazia dell'uditorio.
Ma l'uditorio avea sgomberato in quel frattempo. Doveva essere quella una consuetudine, dappoichè tanto solleciti si erano allontanati gli astanti, non sì tosto lo avevano veduto alzarsi e dar di piglio al cappello.
Non erano rimasti intorno al suonatore che dieci o dodici ragazzacci, i quali, come abbonati a tutta la stagione, non davano un soldo, e noi cinque, ma un po' in disparte, come eravamo fino dal cominciar della scena.
Come rimanesse egli allora, lascio che vel pensiate, o lettori. Col cappello in mano e il braccio disteso, la manca rattrappita sul petto, gli occhi sbarrati e la bocca mezzo aperta, smemorato, confuso, stette alcuni secondi in quella postura.
Le due ore, che in quel punto suonavano, lo scossero un poco. Si fe' scorrere la manca lungo lo stomaco, quasi per consolarlo del digiuno a cui lo astringeva; poi andò coll'indice a cercare una lagrima che gli inumidiva le ciglia, si mise il cappello, e voltosi a noi, che fino a quel punto non aveva cercati, ci disse con aria malinconica:
Andrò a pranzare con santa Cecilia, quest'oggi.
A qualcheduno di noi, che eravamo rimasti confusi allo scantonare di tutti gli astanti, a qualcheduno di noi, dico, le mani erano già corse nel taschino della sottoveste. Ma Tiberino fu il più pronto di tutti, e cavato fuori uno scudo d'argento si accostò al pover'uomo e glielo ficcò quasi a forza nelle mani, imperocchè l'altro, veduta luccicar la moneta, credette sulle prime fosse una celia, e una celia di tanto più cattivo conio, quanto migliore era quello del metallo.
Prendete, maestro! gli disse Tiberino, senza che in quella parola maestro ci fosse ombra di sarcasmo. Questo vi servirà per i giorni che l'arte vostra non vi darà da campare. Oggi intanto, se non vi duole, venite, non a pranzo (che non siamo ricchi abbastanza), ma a desinare con noi.
Ben detto! esclamò Tito. Bravo Tiberino, qua la mano. E voi, maestro, venite con noi, com'egli vi ha detto.
Le prime parole che forse da gran pezza il tapinello si sentisse a dire sul sodo, non parve gli entrassero molto. Lo scudo lo aveva in mano, ma a vederlo gli pareva di sognare; e sebbene Tiberino gli avesse ripetuto l'invito, egli rideva come un melenso, alzava e chinava gli occhi, nè poteva aprir bocca. Dio sa che ghiaccio lo scherno degli uomini gli avesse ammonticchiato sul cuore, e che improvviso raggio di sole gli fossero le nostre cortesie!
Ma io balbettò egli finalmente loro signori sono giovanotti allegri, e vogliono scherzare
No, maestro! ripigliò Tiberino. Avete parlato di santa Cecilia, della quale sono molto divoto, che io e gli amici miei vi facciamo questa offerta.
Voi? Oh, ma voi altri non la conoscete, santa Cecilia! disse con semplice schiettezza il pezzente, a cui le parole di Tiberino e i nostri sorrisi amichevoli incominciavano a squagliare il ghiaccio sul cuore. Voi non la conoscete, la santa: essa non appare più ad altri, fuor che a me, a me solo!
È un pazzo? ci chiedemmo noi con gli occhi, guardandoci in viso. E nello stesso linguaggio ci rispondemmo: che importa? ragione di più per venirgli in aiuto. Allora io presi la parola a mia volta.
Venite ad ogni modo, maestro, e dopo il desinare parleremo di santa Cecilia. Noi la veneriamo senza conoscerla, e udiremo volentieri quello che vi piacerà raccontarne.
Ma disse egli allora, già quasi vinto dalle nostre istanze e il mio cembalo?..
Il vostro cembalo portatelo prima a casa. E voi altri signorini della piazza, che state qui con le mani in tasca, aiutate questo brav'uomo a portare il suo cembalo.
I dieci o dodici monelli che erano rimasti là intorno a vedere la scena, si guardarono un tratto fra loro; poi due o tre ci risero con molta impertinenza sul muso, diedero una volta sulle calcagna, come tanti soldati al comando del caporale, e scantonarono alla lesta. La più parte seguitarono il buon esempio, e non rimasero che due, dei più piccini, per aiutare il maestro a tirar la carretta, che noi seguivamo da lungi.
Così egli, dopo aver trascinato il suo arnese di viottolo in viottolo fino al suo umile albergo da due soldi al giorno, o, per meglio dire, da due soldi alla notte, se ne venne con noi in una delle più riposte sale di quella beata osteria di Sant'Elena, nel vicolo della Casana, dove ai tempi nostri abbiamo mandato giù tanti bicchieri e tanto meditato sulla fragilità dei troni della terra, in quella che il cuoco repubblicano c'imbandiva costolette di tiranni.
Stordito com'era dalla gioia e dallo stupore, il buon maestro mandava giù più lagrime che bocconi. Finì tuttavia col pigliare un po' di domestichezza con noi e ragionò anche molto assennatamente di musica con Tiberino, il quale ne fu molto ammirato.
Ma Fabrizio, che era il più curioso di noi cinque, ricordando il negozio di santa Cecilia, non istette molto a domandargliene. Il discorso si voltò allora su quell'argomento.
Loro signori mi chiedono se io la conosca davvero, e se ella mi apparisce in sogno? Viva e palpitante mi appare ella; poichè, con tutto ciò che possono dirvi in contrario i malevoli, io sono il suo pensiero assiduo, l'unico argomento delle sue cure. E preso di questa guisa lo andare, il nostro convitato ci raccontò la sua storia.
Noi si stette maravigliati a sentirlo, tanto egli parlava con scioltezza e con più eletta proprietà di parole che la sua apparenza non promettesse. Egli poteva essere paragonato ad una di quelle bottiglie, le quali si traggono dalla cantina coperte di polvere e di ragnatele, e tuttavia tengono in corpo il migliore.
III
Voi mi vedete in basso stato e così male in arnese, cominciò a dire il maestro, ora che ho dimenticato gli uomini e ogni altra cosa al mondo, per racchiudermi nella sconsolata solitudine del mio cuore. Ma io non indossavo un tempo questi luridi cenci, nè era così incolta la mia persona.
III
Voi mi vedete in basso stato e così male in arnese, cominciò a dire il maestro, ora che ho dimenticato gli uomini e ogni altra cosa al mondo, per racchiudermi nella sconsolata solitudine del mio cuore. Ma io non indossavo un tempo questi luridi cenci, nè era così incolta la mia persona.
Mi vestiva, negli anni della beata giovinezza, una bianca clamide, con un bel pallio di porpora. I miei capegli erano ricciuti e profumati, e le vezzose fanciulle di Corinto si facevano rosse al mio apparire, siccome le ciliegie al sole di primavera.
Nei misteri di Eleusi, ove la santa Cerere chiamava ogni anno il fiore della greca gioventù alle sue orgie solenni, io ero sempre il primo e il più lodato, sia che toccassi la cetra lesbia, o che le mie dita errassero con sapiente magistero sul rozzo clavicembalo antico; e i grandi occhi azzurri delle figlie del Peloponneso seguirono sovente con amorosa cura la biga di Calisto sull'arena del Circo.
Ma io non amavo. I miei sensi soltanto si allegravano di giocondi sacrifizii all'ara di Guido; ma il mio cuore dormiva; nè valeva a commoverlo l'acceso volto di Erigone, o lo sguardo scintillante di Cerere, o la lusinghiera dolcezza di Venere. Il casto riserbo della vergine Diana avrebbe potuto infiammarlo; ma Diana era invisibile, nè ella, d'altra parte, anco se colta all'impensata, avrebbe perdonato agli sguardi profani. E ben lo seppe Atteone, che ella diede in pasto ai suoi veltri, perchè egli tra il fitto delle piante aveva potuto ammirare le ignude bellezze della dea.
Fu questo l'esordio del nostro convitato, e i lettori argomenteranno di leggeri la maraviglia che ci colse, al vederci affondati nella mitologia pagana fino agli occhi. Altro che santa Cecilia! Qui eravamo in Grecia a dirittura, in mezzo a tutte le sue classiche e statuarie divinità, evocate da un povero pazzo, il quale parlava con l'accento della persuasione e, data una storta premessa, andava diritto a tutte le conseguenze, come il più savio ragionatore del mondo.
Alla metà di questo esordio, e appena veduto come il nostro narratore andasse a briglia sciolta, con gli sproni nei fianchi di un gigantesco anacronismo, noi cinque ci eravam ricambiato un malinconico sorriso. Egli non se ne addiede, e proseguì il suo racconto. Seduto in capo alla tavola, al lume di due candelabri, con la persona appoggiata alla spalliera della sedia e gli occhi in alto, egli aveva quasi dimenticato il suo uditorio d'increduli; ma gli increduli stavano ad ascoltarlo, e che volete? finirono anch'essi con salirgli in groppa e, cedendo al fascino del racconto, seguirlo nella sua pazza cavalcata pei tempi remoti.
A questo errore io mi penso aiutassero molto le frequenti libazioni, dalle quali era accompagnato l'ascoltare, e le ondate di fumo che ci uscivano tacitamente di bocca. Tito rinvoltava di continuo le sue cartoline spagnuole intorno alla foglia sminuzzata del latakiè, e mandava buffi profumati in mezzo a noi; Tiberino guardava in alto i rabeschi del soffitto; Battista, con una gamba a cavalcioni sull'altra, aveva ricominciato a contarsi i peli sulle guance; io stavo coi gomiti appuntellati sulla tovaglia e le palme raccolte sotto il mento, Fabrizio avea cavato fuori il suo albo da disegno e abbozzava sbadatamente figure di donna, coperte del peplo argivo; ma nessuno di noi, checchè facesse, perdeva una sillaba dello strano racconto.
Rifinito dai piaceri, proseguì il suonatore con la sua facile e poetica vena, io mi ritraevo sovente da quei tripudii del senso, nè più mi allettavano i giuochi del Circo, l'oziar delle Terme, o il sorriso delle etère fra le libazioni del simposio. Forse l'animo mio correva con desiderio confuso ai tempi che non erano ancor nati? Non saprei dirvelo; ma il tedio di quella vita, tutta consacrata al culto della materia, mi aveva soverchiato. Pieno di sconforto io mi chiudevo nelle mie case, e mentre dal vano di un loggiato stavo guardando il sole morente, che illuminava ancora di un raggio obliquo il bel golfo di Crissa, il mio pensiero alato correva lontano, oltre i monti dell'Arcadia, in cerca di tal cosa che vedeva mancargli e non sapeva che fosse.
Così a me stesso mi feci inutile, agli altri molesto. Gli amici, che non mi vedevano più a novellar nelle Terme, nè a correre o a lottare nel Circo, mi davano del pazzo per lo capo. Glicera, la bella etèra che io avevo tante volte incoronata nei conviti con serti di rose, dopo avermi aspettato invano una decade (una decade era l'eternità per una donna di Corinto), fece buon viso alle ventimila dramme d'argento che da lunga pezza le profferiva, come dono votivo per rendersela benigna, il ricco Messàpo, e mi mandò, per mano della sua schiava, una corona di foglie d'elleboro, e una tavoletta con queste parole:
«A Calisto prega salute Glicera. Le foglie salutari, colte in Antìcira, risanino un cuore che dispregia le rose di Amatunta.»
Il rimprovero di Glicera non mi punse; nè mi dolse che quelle bianche braccia ministrassero le vivande e quelle labbra di corallo sorridessero al simposii di Messàpo. La mia mestizia cresceva a dismisura: e mi assaliva il fastidio d'ogni cosa che per lo innanzi mi fosse piaciuta.
Allora Volumnio, duumviro romano Ma voi forse non sapete, o signori, che i Romani a quei tempi signoreggiavano la Grecia
Ohè, maestro! in qual conto ci tenete voi? gridai io allora, punto sul vivo. Sappiamo perfettamente che i Romani soggiogarono il vostro paese nell'anno 146 innanzi la fruttifera incarnazione, e che il console Mummio, impadronitosi di Corinto, le appiccò il fuoco, distruggendola così intieramente, con tutti i capilavori d'arte che l'arricchivano su tutte l'altre città del Peloponneso. Sappiamo altresì che in questo incendio le molte statue di svariati metalli si fusero per modo, che ne venne fuori il celebratissimo metallo di Corinto. Giulio Cesare, poi, risollevò la caduta all'antico splendore, facendola colonia romana, e ricorderete, su questo proposito, la leggenda: Laus Julia Corinthus, come io ricordo che la vostra città fu governata d'allora in poi da due cittadini romani, col nome di duumviri, i quali probabilmente si saranno divise le attribuzioni come da noi, ai tempi nostri, l'intendente, o governatore, ed il sindaco.
Al compare non dispiacque punto quella mia raffica di erudizione; chè anzi l'accolse con un sorriso affettuoso, e accennando del capo ad ogni parola, come un maestro esaminatore contento del suo discepolo.
Benissimo! diss'egli, quando ebbi finito. Io dunque avevo molta dimestichezza col duumviro Volumnio, bel giovane sui trentadue, ottimo soldato e gentil cavaliero. Egli sovente mi chiedeva della mia mestizia e non sapeva capacitarsene. Io avevo un bel dirgli le mie malinconiche pensate; gli era come se parlassi trace od armeno. Patrizio romano qual era, ed amante di tutte le lautezze del vivere, Volumnio non intendeva come si potesse rinunziare ai simposii, ai giuochi, alle belle figlie di Pelope, per altra cosa che non fosse il grave ufficio della milizia o della magistratura; ed era sua sentenza che neppur queste due cose dovessero escludere affatto i sollazzi della vita. E mi citava a questo proposito i suoi primi anni di tirocinio militare in Caledonia, dov'egli, facendo il debito suo, aveva potuto proseguire una ventura amorosa con la più bionda tra le compaesane di Fingal.
Ma tutti i più bei discorsi di Volumnio facevano mala prova sul tedio dell'anima mia. Laonde, veduto come io fossi proprio ammalato dello spirito, egli mi prese un giorno in disparte, e mi disse: «Calisto, tra breve io partirò da Corinto, per tornarmene a Roma. Vientene a Roma con me. Io son certo che colà ti passerà dal capo la tristezza e la noia. Vientene a Roma. Sappi che Roma è l'Urbs, la città per eccellenza. Dappertutto, undique orbis terrarum, si vegeta come tanti cavoli! a Roma soltanto si vive.»