Credo che si stia vestendo, perchè è tornato dianzi dalla sua cavalcata; gli aveva detto il servitore, pronto alle invenzioni, e senza darsi pensiero della versione più esatta che s'era creduto in obbligo di confidare allo zio del padrone. Se vuole aspettarlo qui, c'è anche suo zio, il signor marchese Gonzaga.
Il nuovo venuto si avanzò con molta premura, appena ebbe udito quel nome.
Oh, fortunatissimo di fare la sua conoscenza, e di presentare i miei rispetti, soggiunse. Arrigo, da parecchi giorni, non fa che parlare di lei.
Ottimo cuore; mormorò il vecchio, inchinandosi.
Ah sì, cuor d'oro! rispose quell'altro. E l'ama molto, creda; io, che passo le intere giornate con lui, ne so qualche cosa. Ed anche da tre giorni lo aspettava a Roma.
Sì, lo so; rispose Gonzaga. Il suo Happy me lo stava dicendo per l'appunto, prima che ella giungesse.
Ieri sera siamo andati insieme alla stazione, incominciò il nuovo personaggio, perchè Arrigo l'aspettava col treno serale. Ma ella non c'era, e il mio amico ne fu dolentissimo. Si figuri! Egli, per solito così calmo, era proprio fuori di sè. Ma io ora l'annoio, con questi discorsi.
No davvero; prosegua; mi fa anzi piacere, signor
Orazio Ceprani, per obbedirla.
Onoratissimo! ripigliò il Gonzaga, facendo l'inchino d'obbligo. Mi fa piacere sentire da lei che Arrigo mi ama. Non ho più che lui, di parenti, e quando mi ha scritto che aveva bisogno di me, si figuri, mi sono augurato un bel paio d'ali. Ma il vapore non è l'elettrico. Avevo anche qualche faccenda di campagna da assestare, e mi passò la giornata.
Ella abita sul Reggiano?
Alle Carpinete, si figuri, nei dominii della contessa Matilde. Ritornato da tre mesi in Italia, ho subito trovato da comperare un podere. Un po' lontano da casa mia: ma che vuole? Laggiù a Mantova non mi conosceva più nessuno. Siamo vecchi, ecco il guaio.
Vecchio, poi! A cinquant'anni!..
Sì, bravo, mi canzoni. Cinquant'otto, signor mio, e si potrebbe dir anche cinquantanove, se in materia d'età avesse valore la massima romana: annus incoeptus pro integro habetur.
In verità, se non lo dicesse lei Potrebbe anche tacerlo, e far credere ai cinquanta.
Non ci son dame e mi fo coraggio a confessarli tutti; replicò allegramente il Gonzaga. Li porto bene, non dico di no, quantunque venticinque o trenta li porterei anche meglio. Ma proprio, ritornando al nostro discorso, ma proprio, signor Ceprani, ella non poteva darmi più lieta notizia, e sono anche più contento di essermi mosso dal mio èremo. Questa Roma che ho lasciata a venticinque anni, qui il vecchio trasse un sospiro e corrugò le ciglia, mi pare più bella, ora che so di averci qualcheduno che mi ama. A noi, vissuti le mille miglia lontani dalla patria, invecchiati di là dai mari, in mezzo a genti barbare, come canta nel Belisario il tenore, queste cose hanno un pregio immenso, un pregio che non lo può intendere chi è sempre vissuto all'ombra dei campanili e delle torri italiane. Eccole dunque, signor Ceprani, una bella fine di mese.
La faccia del signor Ceprani si rabbruscò, a quel ricordo innocente del calendario.
Ahi, non per me! diss'egli in cuor suo.
I miei ringraziamenti, adunque, e la mia amicizia; proseguì il vecchio Gonzaga, stendendo la mano al signor Ceprani. Già, gli amici di mio nipote debbono essere i miei. E badi che il titolo di amico io non lo dò per celia. Vengo dalle terre dei barbari, io!
Orazio Ceprani s'inchinò e strinse la mano del vecchio, sforzandosi di sorridere all'arguto discorso, ma non riuscendo che a fare una smorfia.
Ah! disse Happy, andando verso un uscio di rimpetto a quello dell'anticamera. Ecco il padrone.
Aveva sentito scricchiolare i denti di una chiave nei congegni di una certa toppa, il sapientissimo servitore.
Orazio si mosse, per andare incontro all'amico. Cesare Gonzaga si tirò indietro; anzi, per dirvi tutto, si strinse forte, si puntellò alla spalliera della poltrona, su cui era stato dianzi seduto. Era commosso, il vecchio Gonzaga, tremava tutto, all'avvicinarsi di quel nipote che amava tanto, senza averlo ancora veduto, che aveva giudicato da principio un giovanotto carico di debiti, e che lì per lì, senz'altra preparazione, fuor quella di un discorsetto di Happy, doveva salutar milionario.
II
L'uscio si era aperto, la portiera alzata, ed entrava nello studio un giovane elegantemente vestito da mattina, non molto alto di statura, ma ben fatto e assai sciolto della persona, biondo, un po' pallido, dai lineamenti finissimi, dagli occhi perlati sfavillanti, sebbene per vezzo tenesse le palpebre socchiuse, e dalle labbra sottili, leggermente colorate, che sporgevano un tantino, in atto tra cortese ed ironico, come quelle di un principe, di un piccolo potente della terra, che è consapevole della propria grandezza, e vuole mostrarsi benevolo, sì, ma in un certo modo e fino ad una certa misura.
Cesare Gonzaga non badò a queste inezie. Vide il giovanotto gentile e gli bastò di aver riconosciute le sembianze di Cecilia, della sua amata sorella. Ahimè, povera Cecilia! Cesare Gonzaga, nel 1849, abbattuto dalle sventure della patria e percosso da un altro dolore tutto suo (Ugo Foscolo li ha descritti, questi due sentimenti, associati nella persona del suo Ortis), si era allontanato, non che da Roma, dai confini della penisola. A Mantova, intanto, sotto il dominio dell'Austria, dopo la parte ch'egli aveva presa nelle cospirazioni e nelle guerre recenti, non poteva tornare; perciò, dopo la caduta di Roma, e dopo aver seguito il generale Garibaldi nella sua marcia memorabile in mezzo a tante forze nemiche, disperando oramai delle sorti italiane, si era rifugiato in Grecia, donde, proseguendo la sua triste odissèa di fuoruscito, era andato a cercare, non già la fortuna, ma la pace del cuore, sui lidi estremi dell'Oriente. Solo alcuni anni dopo la sua partenza, Cecilia Gonzaga era andata sposa alla Mirandola; e colà era vissuta nella oscurità d'una famiglia non ricca nè povera, colà era rimasta vedova dopo dieci anni di matrimonio, colà era morta dopo altri dieci o dodici di vedovanza, lontana dal suo unico figlio, che studiava leggi a Bologna, e senza aver potuto rivedere il fratello, di cui troppo scarse erano giunte le notizie in famiglia. Cesare Gonzaga non era nato per la mercatura; soldato, aveva fatto il soldato. Da principio si diceva che col grado di colonnello tra i ribelli indiani avesse partecipato alla epica impresa di Nana Sahib; più tardi, e dopo un mondo di notizie contradittorie, si era venuto a sapere che militasse ai servigi di un principe indipendente, nel centro dell'India. Una lettera sua era venuta a confermare l'annunzio, e a rassicurare la famiglia (triste avanzo di famiglia, poichè i vecchi erano morti da un pezzo) intorno alla sorte del profugo. Uno scambio di notizie aveva potuto stabilirsi tra fratello e sorella, e per tal modo Cesare Gonzaga, rais e gemadar del gran signore di Revah, nel Bogelcund, seppe un giorno di avere un nipote, Arrigo Valenti, avviato allo studio della giurisprudenza nella università di Bologna. Qualche anno dopo, preso dal desiderio della patria, era ritornato in Europa, ricco di una bella sostanza che gli avevano fruttata i suoi lunghi servigi; da Brindisi era corso a Mantova, per risalutare il suo duomo, da Mantova alla Mirandola, per abbracciar la sorella, ma ohimè, per piangere invece sulla sua tomba. Aveva chiesto notizie di Arrigo, e gli era stato detto che Arrigo, compiuti gli studi legali, viveva a Roma, ove certamente a quell'ora aveva finite le pratiche. Ora, di tutti i luoghi che Arrigo poteva scegliere per sua residenza, Roma era l'unico in cui Cesare Gonzaga non sarebbe andato volentieri a cercarlo.
Pensate ai dolori che lo avevano mandato esule volontario della patria, e indovinerete la cagione di quella ripugnanza di Cesare. Arrigo, dal canto suo, doveva pur sapere, per lettere dei Mirandolesi, che uno zio, il suo unico zio materno, gli era ritornato dal centro dell'India; ma sul principio pareva non averne fatto caso, lasciando che quello zio, triste della solitudine che il tempo e l'assenza avevano fatto intorno a lui, andasse a rinchiudersi, rovina d'uomo, tra i monti del Reggiano, daccanto alla rovina di un antico castello della contessa Matilde. Da tre mesi era il Gonzaga in Italia, da due spartiva il suo tempo tra Reggio e la tenuta delle Carpinete, dove il freddo era rigido e dove bisognava portare quasi tutto il necessario per allogarsi decentemente, allorquando giunse la lettera di Arrigo. Era in singolar modo affettuosa, chiedeva notizie, accennava al desiderio, che quel povero giovanotto, rimasto solo della sua casa, aveva vivissimo nel cuore di vedere il fratello di sua madre; e non pure accennava al desiderio, ma all'urgente bisogno.
Il figlio di Cecilia scriveva; e Cesare Gonzaga, a mala pena collocato nella sua tenuta, dove faceva conto di morire tra le sue memorie e con gli occhi alla santa natura, amica e consolatrice di chi ha molto sofferto, Cesare Gonzaga, dico, si era spiccato dal suo nido per andare dal nipote, vincendo la ripugnanza che lo teneva lontano da Roma, dalla eterna città che egli non aveva più veduta dopo l'eroica difesa del Vascello, dopo la dolorosa morte di tanti compagni d'armi, e la vergogna, più dolorosa a gran pezza, di nuovi stranieri entro le mura di Camillo. Ed era là, il tardo reduce, era là, in quello studio, appoggiato a quella poltrona, col cuore trepidante e gli occhi gonfi di lagrime, davanti al giovanotto sorridente, che nei lineamenti gentili del viso e più nei vividi occhi perlati gli ricordava la sua povera e cara sorella. Come si sentiva destinato ad amarlo! Come disposto a sacrificargli tutto sè stesso! E frattanto, quel biondo ragazzo che gli aveva scritto con tanta premura: Venite, ho gran bisogno di voi era un milionario, in apparenza, e, secondo l'opinione dei più, anche nella sostanza, un felice. Ma allora, che bisogno aveva Arrigo di lui? Certo era il bisogno di un parente, di un amico vero, di un consolatore. Si è tanto poveri, quando si è soli!
Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.
Veramente, diss'egli, non dovrei essere io il primo, quest'oggi. Eccoti lo zio tanto aspettato.
Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col sorriso sulle labbra.
Zio, come ti son grato! esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.
Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in uno scoppio di pianto.
Come son sciocco, non è vero? diss'egli, con voce rotta dai singhiozzi. Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio, tu somigli a tua madre come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non ha avuto tua madre.
E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica dimostrazione di affetto.
Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di avviare il discorso.
Zio, diss'egli, che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho ardito pregarti
Che! che! interruppe il Gonzaga. Era naturale. C'era forse bisogno di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.
Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; osservò modestamente Orazio Ceprani.
Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.
Permetti, incominciò, che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un compitissimo cavaliere.
Ah, ci conosciamo da mezz'ora; rispose il Gonzaga. Ed io l'ho già per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo aspettandoti.
Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari Non ti aspettavo, con la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto
Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; rispose il Gonzaga. Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già, con quel freddo!
Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi era impossibile di muovermi.
Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.
Come si fa? disse Arrigo, sospirando. Tu eri anche il più libero dei due. Per ciò sei venuto e perciò rimarrai.
Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi. Avrai forse da parlare col signor Ceprani.
Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:
Sì, ero venuto da te. Arrigo Ma ora che c'è tuo zio
Non badi a me; interruppe il vecchio. Io mi ritiro in buon ordine.
Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un terzo non doveva guastare; che anzi!
No, finalmente, perchè? diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto. Con lei si può parlare. Arrigo, proseguì, rivolgendosi all'amico, ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento Ausonie
E ci perdi ottomila lire; notò Arrigo Valenti. Te lo avevo pur detto!
Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da un momento all'altro Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e più giusto di me. Io m'inchino, e ti chieggo cinquemila lire in prestito, per completare le mie differenze di questo mese.
Ah! mi duole davvero! esclamò Arrigo, levando i suoi begli occhi al cielo. Mi duole nel profondo dell'anima. Oggi è un cattivo giorno, per gli affari. Non ne ho.
Orazio Ceprani aveva chinato la testa, con un gesto tra incredulo e rassegnato. Perchè, infine, non poteva credere che ad Arrigo Valenti mancassero cinquemila lire da render servizio a un amico in un cattivo quarto d'ora, e non poteva neanche, per le buone creanze, aver l'aria di non crederlo.
Per altro, se Orazio Ceprani aveva chinata la testa, l'aveva in sua vece rizzata il signor Cesare Gonzaga.
Ma le ho io! diss'egli, entrando terzo nella conversazione, e facendo dare un balzo di maraviglia ai due giovani. Non si sa mai, ho detto tra me e me, nel partire da Reggio. Anzi, vedi, Arrigo mio, è stata questa la ragione vera per cui ho ritardato un giorno a venire. Tu mi perdonerai, Arrigo; soggiunse, mentre metteva mano al suo portafoglio, gonfio di biglietti di Banca e sprovveduto di biglietti di visita; credevo di aver a fare con un nipote d'altra specie, e perciò ero venuto con molta munizione. Ho ventimila lire qua dentro, e il resto in una tratta sul banco Manfredi. Eccole dunque, signor Ceprani carissimo; questi son cinque da mille.
Orazio Ceprani era rimasto interdetto; non sapeva se dovesse prender subito, o rifiutare, almeno per cerimonia: intanto abbozzava un ma io, veramente di un effetto assai comico.