E salutava il sorgere nel tempio di Santa Croce d'un altro di quei monumenti, dai quali, e dalla storia del nostro pensiero, aveva Ugo Foscolo invocati gli auspicii al risorgimento d'Italia.
Ben può oggi affermarsi, che il primo passo alla unificazione politica fu, in quei primi decennii del secolo, la restaurazione della italianità nel pensiero e nella lingua: della qual restaurazione furono benemeriti anche tali che, nelle conseguenze sue estreme, non avrebber certo voluta preparare l'altra unità; ma questa aveva, lo abbiamo veduto, ragioni di necessità e di diritto che di secolo in secolo l'hanno avviata e guidata, spingendola innanzi anche quando è sembrato che ristesse e indietreggiasse, finchè si sia potuto dire: Siam giunti, e qui stiamo: hic manebimus optime! Non pensava certo a un'Italia dell'avvenire, o ne avrebbe avuto sgomento, il buon padre Cesari, quando straniandosi valorosamente dal gergo italo-franco che aveva finito col sostituirsi alla lingua italiana, scriveva le novellette boccaccevoli, o assettava nel suo artefatto trecento Orazio e Cicerone, e nel volgar fiorentino del Cinquecento manipolava la commedia latina: ed è certo altresì che la Proposta di correzioni al Vocabolario, con la quale il Monti si atteggiò a guerra di lombardo a toscani, attesta, più ancora che della sua dottrina di lingua e vivacità di spiriti indomita, della senile sua incoscienza politica. Ma bene a questa Italia aveva pensato l'Alfieri, quando protestava contro la soppressione che i pedanti della filosofia riformatrice avean fatto dell'Accademia della Crusca: ci pensava il Foscolo quando si appellava alla nazione, dalla sentenza del Gran Consiglio Cisalpino contro la lingua latina: era purista cittadino il Giordani, quando incorando negli amici suoi lo stile greco e la lingua del Trecento, si sottoscrive fratello nel nome dell'«augusta e cara nostra mamma l'Italia»: e filologia preveggente era quella di Niccolò Tommasèo, il quale dalla critica delle dottrine del Perticari, dalla vagliatura fiorentina dei sinonimi, dovea condursi con Daniele Manin al Palazzo dei Dogi, prigioniero prima, poi Ministro della Repubblica, e, fino agli estremi delle armi del colèra e della fame, sostenitore d'un diritto nazionale che al Dalmata si era fin da giovanetto fatto sentire nel caro idioma d'Italia. Sì, il purismo è stato anch'esso una potenza benefica alla costituzione della patria, ravvivando e rivendicando le ragioni della lingua, dagli stranieri influssi e preponderanze corrotta: al corpo poi, così risanato, un possente interprete del pensiero e del sentimento umani, restituiva il vivo alito della toscanità, cioè dell'idioma d'Italia: Alessandro Manzoni. La unità idiomatica avea suggellato del suo stampo il Poema, sul cui fondo, disteso fra «cielo e terra», rilevava in figure immortali il Medio Evo italiano: la unità idiomatica, ricondotta al suo principio vivente, reintegrò quel medesimo suggello sopra un altro, esso pure grande poema, dove la servitù e la corruttela italiana, lungo i più lacrimevoli anni suoi, era ritratta e condannata nella storia di due egualmente immortali figure, di due poveri perseguitati Promessi Sposi del contado lombardo. Ed è questa italianità, di pensiero e di forma, che noi dobbiamo oggi, insieme con la unità che ce la garantisce, custodire gelosamente e propugnare: è questa italianità che noi con trepido affetto consegnamo, raccomandiamo, ai nostri figliuoli. La santa centenaria bandiera, per la quale combattono, soffrono, muoiono da eroi, i nostri soldati, non si difende solamente sui campi di battaglia: ogni cittadino operante è per essa soldato.
Altezze Reali, Signore, Signori,
Quella «storia ideale eterna» che Giambatista Vico idealeggiava, «sopra la quale corrono in tempo tutte le nazioni», assunse nell'alta mente di lui, la figura d'un circolo: dove però il corso dal male al bene soggiacerebbe alla legge del ricorso dal bene al male; e simbolo della vita civile, sarebbe quella linea circolare che «sè in sè rigira», e a cui gli Aristotelici attribuivano maggior perfezione che non alla linea retta, apponendo a questa la manchevolezza dell'essere non finita. Ma Galileo rispose agli Aristotelici; e le teorie del Vico, detrattone quel che di a priori scolastico si aggravava sopr'esse, possono conciliarsi con una legge positiva di progresso, che saldi in armonia scientifica le tradizioni e le speranze del genere umano. Pure, se ad un elemento della vita delle nazioni rimane tuttavia adattabile puntualmente cotesta imagine vichiana del circolo, è a quell'elemento che in sè comprende i caratteri essenziali e distintivi di ciascuna nazione, pe' quali esse rassomigliano a un conserto di famiglie, il cui padre unico sovrasta alle cose terrene. Nel circolo della italianità, nessun progresso è interdetto alla patria nostra: sfasciandosi quello, i movimenti non avrebbero più nè cammino diritto nè meta sicura. Il pensiero e la lingua, gli studi del vero e le arti del bello, le istituzioni e le leggi, descrivono la circonferenza di cotesto circolo: ma nel centro sta, somma di tutte le forze, principio di vita necessario, fortezza ed altare, l'unità della Patria.
LA LOMBARDIA ALLA CADUTA DEL REGNO ITALICO
CONFERENZADIGEROLAMO ROVETTASignore e Signori,
Il secolo non è finito ancora, e già se noi ci volgiamo indietro a considerare gli avvenimenti che ne agitarono il principio, essi ci appaiono lontani lontani, estranei affatto alla vita nostra, quasi che tra essi e noi intercedesse l'ombra di un intero evo storico, non lo spazio di una vita d'uomo.
A mano a mano che la ricerca erudita, fatta oramai positiva e serena, studia quei casi snebbiandoli dalle leggende che già vi si formarono intorno, e corregge gli errori, ripara alle ingiustizie, assolve i calunniati e condanna gli usurpatori di gloria; mentre la critica si affatica sui documenti e la verità torna in luce; in noi, strano a dirsi, nell'impressione comune di chi oggi ripensa a quegli anni fortunosi, nella coscienza della gente anche istruita, la distanza tra la fine e il principio del secolo cresce di continuo; e gli uomini e i fatti del tempo che segnò la giovinezza dei nostri nonni par che si ritraggano sempre più rapidamente nel buio del passato, vi si avvolgano di una nebbia sempre più densa, impiccioliscano, scompaiano dalla memoria delle moltitudini.
Napoleone, la sua sanguinosa e trista epopea, le catastrofi di Russia e di Germania, quell'avvicendarsi di avvenimenti che soltanto sette od otto decine d'anni fa mettevano a soqquadro l'Europa e le nostre famiglie, che insidiavano gli averi di cui ora noi stessi godiamo e turbavano e scompigliavano gli amori dai quali i nostri padri sono nati, tutto non sembra se ci pensiamo appartenere ad un'altra epoca ben più remota?
La critica moderna «vergine di codardi oltraggi» ma implacabile nelle sue deduzioni positive, ha relegato «l'uomo fatale» tra i malinconici nefasti della storia, fra gli antichi maniaci per la guerra, violenti ed infelici: ed il feticismo che per lui nutrivano i suoi soldati, a noi almeno, appare come un caso diffuso di allucinazione morbosa delle moltitudini.
Come mai? Donde tanta disparità del vivere e del sentire? Io credo che tale enorme allontanamento dalla coscienza nostra di uomini e di cose storicamente vicine, non provenga tanto dai molti e varî casi intervenuti tra loro e noi, quanto dal velocissimo, anzi precipitoso cammino compiuto dalle idee in questo intervallo di tempo, che, se per sè medesimo è breve, relativamente alla importanza storica contiene la materia non di uno, ma di più secoli!
Ciò che non è d'oggi o di ieri è già per noi antico: tanto s'è slargato innanzi a noi il mondo, tanto volo abbiamo spiccato incontro all'avvenire! Le idee han soverchiato i fatti, han dato una nuova anima battagliera, feconda, a questo vecchio secolo pieno di esuberanze giovanili, hanno oramai tolto di mezzo quanto del passato poteva esser loro d'impaccio, e abbandonato negli avelli della storia tutto ciò che non era vivo e germogliante come la calce sparsa sulle rovine di un disastro cela agli sguardi le macerie e i cadaveri insieme.
La critica moderna «vergine di codardi oltraggi» ma implacabile nelle sue deduzioni positive, ha relegato «l'uomo fatale» tra i malinconici nefasti della storia, fra gli antichi maniaci per la guerra, violenti ed infelici: ed il feticismo che per lui nutrivano i suoi soldati, a noi almeno, appare come un caso diffuso di allucinazione morbosa delle moltitudini.
Come mai? Donde tanta disparità del vivere e del sentire? Io credo che tale enorme allontanamento dalla coscienza nostra di uomini e di cose storicamente vicine, non provenga tanto dai molti e varî casi intervenuti tra loro e noi, quanto dal velocissimo, anzi precipitoso cammino compiuto dalle idee in questo intervallo di tempo, che, se per sè medesimo è breve, relativamente alla importanza storica contiene la materia non di uno, ma di più secoli!
Ciò che non è d'oggi o di ieri è già per noi antico: tanto s'è slargato innanzi a noi il mondo, tanto volo abbiamo spiccato incontro all'avvenire! Le idee han soverchiato i fatti, han dato una nuova anima battagliera, feconda, a questo vecchio secolo pieno di esuberanze giovanili, hanno oramai tolto di mezzo quanto del passato poteva esser loro d'impaccio, e abbandonato negli avelli della storia tutto ciò che non era vivo e germogliante come la calce sparsa sulle rovine di un disastro cela agli sguardi le macerie e i cadaveri insieme.
Ed è per ciò che debbono avere la acuta e perspicace pazienza degli archeologi, coloro che vanno frugando in un mondo pur così vicino a noi, e come gli archeologi debbono saper dar vita alle pietre e parole alle tombe e leggere tra le righe dei non ancora ingialliti documenti, e scrutare il senso riposto delle satire, delle caricature, delle canzoni, delle arguzie, delle tradizioni popolari: debbono svestirsi d'ogni propria passione politica, debbono cercare la luce vera che illuminava quei tempi e giudicare gli odii, e gli amori d'allora come gli odii e gli amori d'adesso, cioè come passioni umane, fallaci quindi ed ingiuste il più delle volte, torbide dispensatrici di fama e d'infamia, non sempre meritata.
Questo non è cómpito per le mie forze, nè per i miei gusti. Io penso, invece, con intimo compiacimento d'artista che, mentre tutte quelle cose e quella gente ci appaiono così come se le guardassimo col canocchiale a rovescio, l'arte e gli artisti sono rimasti così vicini a noi, così nostri e del nostro tempo da indurre noi pure imbevuti di tanto scetticismo! in quella fede classica che vate chiamava il poeta, cioè veggente nell'avvenire, ed eterna proclamava l'arte, cioè immortale nei secoli.
Non è forse così? Mentre la logistica delle battaglie napoleoniche non interessa più che gli studiosi delle Accademie militari, al pari di quella delle campagne di Alessandro o di Giulio Cesare, e le bricconate di certi ministri del vicerè Eugenio, gli spionaggi ed il gabinetto nero, si confondono colle altre iniquità di palazzo del cardinale di Richelieu e il dominio dell'Austria rinnova le gesta di tutte le più antiche e sinistre tirannidi: ecco qui vive e parlanti, colle nostre idee, colle nostre ribellioni, le nostre speranze, gli stessi nostri sarcasmi, ecco qui le figure del Foscolo e di Carlo Porta, e col nostro stesso culto del vero, le tele dell'Appiani e del Canonica: ecco ripetersi, con esempi nuovi, l'amabile storia della giovinezza di Gioacchino Rossini, a cui la fortuna e le belle donne aprono le braccia e spianano la via; ecco rinnovarsi oggi tra idealisti e veristi, tra naturalisti e spiritualisti, quella vivace e multiforme polemica d'allora tra classici e romantici che, in fondo, preparava i germi a tutte le battaglie intellettuali dell'avvenire. I critici dicevano ottant'anni sono molta parte di quel che dicono adesso; e i gazzettieri anche allora insegnavano l'armonia al «signor Rossini», la chiarezza al capitano Foscolo, e al giovane autore del Carmagnola un po' di lingua italiana; e di questi, i più accaniti erano forse i francesi!
Ancora gl'impeti del Foscolo, noi li abbiamo nel cuore; e quante, quante volte la musa lepida, ed anche salace del Porta, non ci soccorre per irridere alle ipocrisie che oggigiorno tocchiamo con mano!
Il Foscolo ed il Porta meno di tutti gli artisti di quell'epoca sono invecchiati, perchè, in modo diverso, la loro poesia rispecchia ciò che in apparenza soltanto è mutevole, e rimane invece tal quale: «l'anima del popolo»; l'uno ruggendo nelle prose concitate le sue imprecazioni contro gli autori d'ogni servaggio, o cantando nei versi grecamente armoniosi le illusioni e le delusioni dello spirito moderno; l'altro sintetizzando nella rima epigrammatica e tagliente l'umorismo formidabile che del popolo è un'arma, un conforto, ed uno sfogo ad un tempo.
Così l'arte del Foscolo e quella del Porta, come i tipi umani dei due poeti, ci appaiono unite con vincoli di fratellanza alla grande arte e ai grandi tipi delle epoche più remote; ed è perciò ch'essi sono tuttora modernissimi. Un soldato poeta, prode, ardito, cavalleresco, con qualche spacconata, pieno di debiti, di duelli, di amori, di gelosie turbolenti; ed un altro un poeta cassiere tutto arguzia, tutto malizia nella rima gioconda e così bonario nella vita semplice e prudente d'impiegato, sempre amico della giustizia, ma benanche del quieto vivere; un ribelle, che dà al popolo la satira demolitrice di poteri e di tirannidi, ma che si tapperebbe in casa gottoso e pieno d'acciacchi ove nelle vie scoppiasse la sommossa sono due tipi umani sono due estri, per così dire, che in tutti i tempi le vicende hanno destato ed ispirato.
Ma il Foscolo, nella gravezza che incombeva sulla vita milanese in quel procelloso finire del Regno Italico, rappresenta anche l'irrequietudine dei presagî.
Dalle nebbie di Milano, fra le bieche congiure degli austriacanti, le paure dei napoleonici e i tentennamenti degli italici, egli anelava al bel sole di Toscana, alla luminosa villa di Bellosguardo ove gli erano fioriti sotto la penna i versi delle Grazie, nitidi e flessuosi come le forme divine scolpite dal Canova; anelava a questa Firenze dell'anima sua, sacra a lui per le memorie dei Grandi cantate nei Sepolcri, da Dante all'Alfieri, e insieme per indimenticabili dolcezze d'amore:
Per me cara, felice, inclita riva!..
Ove sovente i piè leggiadri mosse
Colei che, vera al portamento Diva,
In me volgeva sue luci beate,
Mentr'io sentìa dai crin d'oro commosse
Spirar ambrosia l'aure innamorate
Era una specie di nostalgia pei tepori e i profumi che gli assaliva l'anima, una sete di parole italiane pronunciate dalle labbra delle donne fiorentine che tanta grazia aggiungono all'efficacia del perfetto dire e non Voi, che di azzurro e di fragranze avete in ogni tempo dovizia, ma noi, di lassù, poveri inglesi d'Italia, possiamo comprendere le smanie del Foscolo per la vostra bella città. Marmi e fiori, le memorie e l'eloquio, il serto delle colline, l'aria stessa che qui si respira, tutto ci attrae sino al dolore, e noi ricordiamo sino al rimpianto.
Qui da voi sorrideva, come sempre, amica fida, l'arte; da noi, in Lombardia, non si respirava che l'intrigo. Dico l'intrigo, non la politica. La politica vera era maneggiata dai sovrani, dai ministri, dagli ambasciatori; il resto, i sudditi, anche quelli delle classi sociali più elevate, non conoscevano altro che il pettegolezzo di società, le trame personali, ordite per interesse privato, per vizio senile, per passatempo.
Nell'esercito, e più nell'aristocrazia, si congiurava come si intavola un giuoco: erano ancora i cicisbei dell'arcadia belante che divenivano a un tratto cospiratori tra le gonne della dama servita.