Gli albori della vita Italiana - Various 10 стр.


Ad accrescere la ricchezza e le rivalità delle città marinare d'Italia giungono le crociate.

È opinione comune che tra le prodezze irreflessive, ma generose delle crociate, Pisa, Genova e, in ispecie, Venezia, non abbiano cercato che l'interesse ed abbiano fatto servire una grande idealità religiosa ad ottener dovizie materiali, ad aprir nuovi scali al commercio. Certo, fra quei tre popoli non apparve l'ascetismo feroce, nè il principio di autorità dogmatica, soccorritore del feudale e del dinastico, ma la religione fu sentita e intesa fra quelle genti, nè fu ipocrito pretesto di mercantili speculazioni. Vi sono popoli credenti e pratici a un tempo, come l'inglese e il veneziano. Sono sinceri in tutti e due gli atteggiamenti della loro esistenza, e perchè sinceri colgono i frutti di ambedue queste attitudini dello spirito. Il missionario inglese, quando con la Bibbia, tradotta in tutti gli idiomi asiani e africani, s'avanza in regioni ignote a spargere la santa semente del verbo di Dio, è profondamente sincero e devoto al suo ideale fino a rifiutare per esso la vita. Ma, superate le difficoltà, egli è egualmente convinto di servire alla sua patria mutando l'evangelista in negoziante, segnando la via ai cotonieri del Lancashire e qualche volta, e Dio gli perdonerà, ai fabbricatori di brandy del suo paese. Così Venezia: devota a Cristo, si sentiva bensì accesa di zelo religioso per la liberazione del Santo Sepolcro, e, all'infuori di ogni pensiero mondano, palpitava nella isoletta di Rialto, come il grande signore di Francia e di Lamagna nel suo maniero. Ma a canto all'imagine di Gesù crocifisso, i signori dei mari intuivano tutti i nuovi orizzonti di traffichi e di colonie e vi si fisavano con amoroso zelo. E in quel connubio di palpiti cristiani e di mercantili disegni, si accordavano la religione con l'industria, l'ascetico col mercadante, e l'imagine di Gesù liberato si adornava di tutte le opulenze della nuova vita economica. Così erano, o signori, anche i vostri antenati. Credenti, mercadanti e diplomatici a un tempo, mistici e positivisti, i lucri guadagnati negli arditi commerci consegnavano alla divinità e dai banchi uscivano gli artefici, che erigevano i vostri insigni monumenti. Così la nostra storia prova come sia vano, sterile e oseri dire irreligioso, un ascetismo monastico orientale, che si consuma ne' suoi malaticci idealismi, e come, alla sua volta, conduca a ruina una sete di lucro, che non si temperi, non si legittimi e direi quasi non si purifichi in queste aure salubri della idealità. Quanto diversi, o signori, dai coloni italiani del nostro tempo, i quali, senza ideali religiosi e senza disegni di utili operosità, si avventurano in luoghi, che nè i nostri antichi apostoli, nè i concittadini di Marco Polo e di Colombo avrebbero eletto a sede di colonie. Il che dimostra appunto, perchè ci fa difetto il modo di scegliere con infallibile rettitudine di giudizî, quanto ci manchi e quanto siamo lontani dalla sana idealità e dall'avveduta operosità dei nostri maggiori. Oh! non disputavano a Venezia sulla fecondità e sull'avvenire delle grandi colonie che occupavano, come non disputavano a Genova su quelle del mar di Marmara e del mar Nero. Le opime spoglie che ne traevano non consentivano i dubbi dolorosi, che s'odono nei nostri parlamenti.

Ma, siamo giusti, ciò che ai nostri maggiori mancava era il senso della concordia. I vicini interessi e le comuni imprese fecero scoppiare più fieri i dissidî fra Pisa, Genova e Venezia.

Intanto da una straordinaria impresa era agitata quest'ultima città. Quando Innocenzo III tentò ravvivare la santa guerra, i crociati francesi si rivolsero, per ottenere il navilio, a Venezia. Era allora doge Enrico Dandolo, vecchio ottuagenario, a cui gli anni e la debole vista accresceano l'ardimento e l'energia; indole tenace e impetuosa e nello stesso tempo astuta e dissimulatrice. Egli accettò le proposte, ma prima di accingersi all'impresa, volle avere l'approvazione del popolo, ch'ei fe' radunare nella chiesa di San Marco, la plus belle que soit, come la chiama Goffredo di Villehardouin, uno di quei crociati. I cavalieri di Francia dalle armi corrusche, i veneti patrizî dalle vesti gravi e maestose dell'Oriente, il popolo dalle fogge variopinte, si adunarono sotto le cupole dorate dai scintillanti mosaici, fra quella strana architettura di colonne superbe sovrapposte a colonne, tra le effigie mirabili e i marmi preziosi.

Il vecchio doge, in luogo eminente, indossava una tunica purpurea, un manto affibbiato con borchia d'oro e un corto bavero d'ermellino. Parlò Goffredo di Villeardouin pregando Venezia ad accompagnare i baroni francesi a vendicare l'onta di Gesù. La voce di quel guerriero entusiasta si alzava trionfante come un inno, ricercava le fibre più intime di quei cuori, finiva addolcendosi in una prece, nella quale passava il puro alito della fede. Allora da più di diecimila petti un grido s'alzò sotto le vôlte dorate della chiesa e il doge e i legati francesi giurarono sulle loro spade. Ma quando furono pronte le navi, non trovando i baroni di Francia, tutta la somma stabilita pel passaggio, Enrico Dandolo propose loro, in luogo di soddisfare intero il debito, di riconquistare insieme coi Veneziani la città di Zara ribellata. La proposta fu accettata, e, dopo poco tempo, Zara cadeva. Durante l'assedio si presentava ai crociati Isacco, imperatore di Costantinopoli, spodestato da un usurpatore, chiedendo aiuto per ricuperare il trono. Papa Innocenzo, che avea con ogni possa cercato d'impedire l'impresa di Zara, scagliando perfino i fulmini apostolici, ora secretamente favoriva la spedizione di Costantinopoli, vagheggiando l'unione della Chiesa anche in Grecia. Avea finito col trovare gli opportuni ripieghi sacerdotali, concludendo con un pensiero degno della politica odierna: necessitas, maxime cum insistitur opere necessario, multum et in multis excusat. E poi troppo recenti erano le greche perfidie contro la repubblica di San Marco, perchè ogni veneziano non sentisse in cuore il desiderio della vendetta. Non erano ancor vive le generazioni che aveano veduto il fedifrago imperatore gettar un giorno in carcere tutti i Veneziani, che avea potuto prendere ne' suoi stati? E il valore dei Veneti, condotti da Vitale Michiel non era stato reso impotente dalle inique arti dei Greci? E non si era tentato di perdere coll'inganno più infame lo stesso Enrico Dandolo, che in Costantinopoli avea tentato di salvare l'onore della patria? Non erano le leggi e i trattati arbitrariamente violati dalla corte bizantina? D'altra parte, e i documenti attestano ciò, il Pontefice e il Doge si accordavano nel pensiero che la sommessione di Costantinopoli potesse agevolare il conquisto di Terrasanta. Fu stabilita l'impresa e compiuta; ma poco stante, in seguito a nuove rivoluzioni e intrighi di palazzo, i crociati vennero a rottura coi Greci, e Costantinopoli fu presa per la seconda volta. Quando il gonfalone di San Marco sventolò sulle mura di Costantinopoli, i Greci fuggirono spaventati, fra il confuso rumor d'armi e di grida, unito al frastuono orrendo di urla, di gemiti, di pianti. E il Papa, plaudendo agli eventi fortunati, scriveva ai vescovi, abati e duchi dell'esercito: sane a domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. E dimenticò Terrasanta.

«Dalla creazione in poi non v'ebbe più larga preda» scrisse il Villehardouin. Immense ricchezze e preziosi oggetti d'arte furono salvati nella generale rapina, e trasportati in patria dai Veneziani: quadri, statue, gemme con cui arricchirono la pala d'oro e il tesoro di San Marco, e i quattro celebri cavalli di rame dorato che, trasportati da Chio, dall'imperatore Teodosio II, a ornare l'ippodromo di Bisanzio furono posti sul pronao della basilica veneziana.

La forza di Venezia imperava ormai sull'Oriente. All'interno potea dirsi secura, coi nuovi ordinamenti politici, per mezzo dei quali si svolgeva la sua attività, colla legge che impera e custodisce, colla concordia che fortifica e rafferma. Sottratta già da lungo tempo al popolo la dogale elezione, chiuso a chi non fosse nobile, il governo, s'era consolidato quel reggimento di ottimati, grande anomalìa fra due cose normali, il governo cioè di tutti e quello di un solo che tutto eguaglia in una comune tirannide, quel reggimento di ottimati che salvò l'indipendenza veneziana. Costituzione non certo desiderabile oggi, ma per quei tempi ammirabile, e che illuminò del suo raggio uno dei periodi più gloriosi della libertà fiorentina, quando, tenendo gli occhi fissi a Venezia, fra Girolamo Savonarola, Paolo Antonio Soderini, Francesco Valori e altri magnanimi volevano garantire la nuova indipendenza, affidando la somma delle cose ai migliori dei cittadini, ai benefiziati, e instituendo il Consiglio grande. Il tentativo fallì, poichè la tenacia del volere non fu pari all'altezza degli intendimenti.

La forza di Venezia imperava ormai sull'Oriente. All'interno potea dirsi secura, coi nuovi ordinamenti politici, per mezzo dei quali si svolgeva la sua attività, colla legge che impera e custodisce, colla concordia che fortifica e rafferma. Sottratta già da lungo tempo al popolo la dogale elezione, chiuso a chi non fosse nobile, il governo, s'era consolidato quel reggimento di ottimati, grande anomalìa fra due cose normali, il governo cioè di tutti e quello di un solo che tutto eguaglia in una comune tirannide, quel reggimento di ottimati che salvò l'indipendenza veneziana. Costituzione non certo desiderabile oggi, ma per quei tempi ammirabile, e che illuminò del suo raggio uno dei periodi più gloriosi della libertà fiorentina, quando, tenendo gli occhi fissi a Venezia, fra Girolamo Savonarola, Paolo Antonio Soderini, Francesco Valori e altri magnanimi volevano garantire la nuova indipendenza, affidando la somma delle cose ai migliori dei cittadini, ai benefiziati, e instituendo il Consiglio grande. Il tentativo fallì, poichè la tenacia del volere non fu pari all'altezza degli intendimenti.

Delle due forti rivali di Venezia, Pisa in breve non fu più da temersi. La sua potenza s'infranse allo scoglio della Meloria e sulla bella e sventurata città aleggiò l'arte, supremo conforto. Quando l'età delle forti imprese si oscura, s'inalba luminosa quella delle arti.

Restava Genova, nè il vessillo di San Giorgio volle per lungo tempo e a niun patto piegare dinanzi a quello di San Marco. Lunghe e accanite le guerre, brevi le tregue, per ripigliar lena a nuove battaglie, combattute con varia fortuna.

Nel 1256, i Liguri spogliano le navi veneziane nel porto d'Acri e saccheggiano il quartier veneziano. Lorenzo Tiepolo corre alla vendetta, con gran numero di navi e coll'aiuto dei Pisani, spezza la catena del porto, preda e arde le navi nemiche, penetra nella città, incendia il quartiere dei Genovesi ed espugna il castello di Mongioia. Invano i Genovesi tentano riannodare le forze: il Tiepolo, presso a Tiro, li sbaraglia una seconda volta; poi non lungi da Acri stessa, li sconfigge nuovamente con più sanguinosa battaglia.

Nel 1261, la gelosia ligure rialza il trono greco a Costantinopoli. Vi si oppone Venezia e ne vien nuova guerra, finita colla rotta dei Genovesi nelle acque di Trapani.

Una fiera rivincita prese Genova a Curzola, quando, sotto il comando di Lamba Doria, un minor numero di galee vinse i Veneti condotti da Andrea Dandolo. Il Doria trasse seco a Genova 5000 prigioni. Marco Polo fra questi. Lo sfortunato ammiraglio di Venezia die' di cozzo nell'albero della sua nave e morì

Ma a che oggi riandare la serie di questi gloriosi delitti? Nel camposanto di Pisa, in quella dimora di morti, dove palpita tanta parte di storia italiana, stanno appese, non già trofeo di ire fraterne, ma segno perenne di fraterno affetto le catene del porto di Pisa, dai Genovesi prese e donate ai Fiorentini. Nell'affetto sereno della patria unificata, Firenze e Genova vollero restituite a Pisa quelle catene, come augurio d'invitta concordia fra le città italiane, pegno e segnacolo di un'êra novella.

Ora una luce irradiano quei torbidi ricordi di storia italiana, luce di fraternità e di pace.

LE ORIGINI DEL COMUNE DI MILANO

DIROMUALDO BONFADINI

Lo studio delle origini è bene saperlo prima di mettersi in via rappresenta per lo spirito piuttosto una fatica che un diletto.

La scarsità delle fonti, la cronologia difficile, l'ermeneutica capricciosa obbligano a lunghe indagini, a laboriose induzioni, per istabilire quello che si suole chiamare la verità storica e che, nella maggior parte dei casi, si limita ad essere la congettura più verosimile. E d'altra parte, urtano così fieramente coi nostri i costumi, i sentimenti, le leggi di quell'epoca buia, che il piacere dei paragoni scompare, e la stessa immaginazione si stanca a cogliere e ricomporre la continuità dei contorni in quelle figure, di cui la storia non può dare generalmente che tratti incompleti, interrotti, sfumati nel tipo morale e nelle particolarità dell'azione.

Però, v'è un aspetto del problema che può mitigar la fatica di questo studio. È una soddisfazione di pensiero che non può sembrar vana al filosofo, se anche lascia indifferente l'artista. Poichè nello studio delle origini assai più che nello spettacolo delle decadenze l'orgoglio dell'umanesimo trova ragion di affermarsi.

Le origini non sono altro, storicamente, che i periodi nei quali le istituzioni umane, di qualunque natura, passano dallo stadio anarchico ad una forma organica. Ora, difficilmente questa trasformazione si manifesta, senza l'impulso della virtù. Virtù d'uomo o virtù di popolo; genio di individui o istinto di moltitudini; energia d'iniziative, quand'anche macchiate dalla fatalità del delitto, o devozioni di concordia, quand'anche rese inefficaci da difetto di previdenza.

Il fenomeno può dirsi costante, in quanto si riferisca alle origini dei poteri pubblici, siano monarcati, comuni e repubbliche. Sembra quasi che la Provvidenza abbia voluto imprimere a questi periodi, che rasentano in certo modo lo sforzo della creazione, quel carattere di grandezza che necessariamente segue o circonda i creatori. Così, non si può pensare alle origini della monarchia francese senza risalire a quel Carlo Martello, che rimane nelle fantasie popolari come il tipo del guerriero nazionale invincibile. Ruggero il normanno e Umberto Biancamano dominano della loro fiera e simpatica personalità le origini dei due maggiori principati italiani. Nè la fondazione della monarchia spagnuola può disgiungersi da quel generoso nucleo di patrioti, raccoltisi con Pelagio sui monti baschi a costituire il battaglione sacro della resistenza nazionale. Nè la storia grande della repubblica di Venezia può farci obliare quell'energico esodo di pescatori che giurano di mantenere, sulle palafitte di Rialto, la loro libertà insidiata dalle orde conquistatrici della terra-ferma.

È sopratutto nel secolo undecimo che l'Italia vede sorgere a vita organica parecchie delle sue agglomerazioni politiche. Prima del mille, qualche tentativo di ricostituzione serve quasi unicamente a confermare lo stato di dissoluzione in cui langue tutta la penisola. Non s'è ancora dimenticata l'ultima violenza delle invasioni barbariche ed ecco sopraggiungere a disgregare ogni compagine sociale la preoccupazione del finimondo. Le lotte civili, accanite negli ultimi tempi, vanno perdendo d'intensità, non perchè scemi l'abitudine delle offese, ma perchè tutti sono intenti al pericolo della fine suprema, che le profezie popolari hanno segnalato.

Come il feudo era stato lo strascico della conquista, così il beneficio ecclesiastico diventa lo strascico lasciato dalla paura del finimondo. Le autorità secolari, che non possono garantire la vita eterna, perdono d'influenza; ne acquistano a dismisura le autorità chiesastiche, nelle cui mani stanno le chiavi del perdono e della salvezza. Così il potere politico viene a poco a poco assunto dagli arcivescovi, contro i quali non hanno più forza i conti e i duchi, lasciati dai conquistatori stranieri a rappresentanti dell'impero feudale nelle città. Le donazioni arricchiscono preti e monasteri, che dalla ricchezza traggono facile stimolo alla corruzione. Ed ecco preparate le due questioni che nel secolo undecimo agiteranno l'Italia. La lotta per le investiture e la riforma disciplinare del clero. Nè dal mille è lontano Gregorio VII, che di entrambe le questioni sarà nel tempo stesso il più formidabile campione e la più illustre vittima.

Senonchè il pauroso millenio è superato senza catastrofi e il mondo comincia ad acquetarsi nel pensiero della propria continuazione. Che cosa accade? che i pochi, fatti potenti dalla superstizione, mirano a rassodare e rendere più completo il loro dominio; che i molti, costretti a vivere dopo aver creduto di morire, rimpiangono la cecità loro e le sostanze stremate; che il disagio turba profondamente le classi popolari, le quali escono dalla crisi, sentendosi sul collo il giogo rinnovato di due tirannie. Intanto ricompaiono le discordie intestine, le lotte feudali, che soltanto il timore della distruzione universale aveva frenate. Le ingordigie e le violenze si danno ad eccessi tanto maggiori quanto più lunga è stata l'epoca della loro forzata inazione. In questa ridda di passioni scompare ogni benessere di plebi, ogni generosità di ottimati; la legge è fatta ludibrio nelle mani di ogni forte; e il forte di oggi diventa lo sconfitto del giorno dopo. Tutto questo ha un solo risultato, una sola caratteristica, un solo nome: è l'anarchia.

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