Nelle condizioni dell'Europa, mentre la Russia provocava, l'Austria si disponeva a stupire il mondo colla sua ingratitudine, e la questione d'Oriente risorgeva in modo nuovo e diverso, e non era temerario il supporre che sul Danubio divampasse la fiamma augurale della nazionalità, l'inoperosità del Piemonte pesava su quelli, che ne' suoi destini vedevano l'indipendenza d'Italia, al Re che conosceva come in cuore dell'esercito e del popolo durasse il tormento di Novara.
A Vittorio Emanuele la figura mistica dell'antica croce sabauda sventolante ancora una volta sugli azzurri del mare d'Oriente, appariva come presagio di rinnovate fortune.
Egli voleva capitanare l'esercito, e, a malincuore persuaso dalla ragione di Stato, cedette il comando al generale La Marmora.
Il partito della guerra fu vittorioso in Parlamento, esclusivamente per il prestigio di Cavour.
Pareva un'avventura. Lo scontroso patriottismo temeva dell'Austria, i meno diffidenti presagivano la ruina economica.
È storia da non potersi riassumere in poche parole. Meriterebbe, essa sola, una conferenza. Occorrono più conferenze per illustrare la storia d'Italia dal '56 al '61 e questa storia d'Italia è storia di Cavour.
Di certo, nella guerra di Crimea la parte del Piemonte fu rischiosa tanto, che anche il gran ministro ne temette. Oh! l'annunzio della Cernaia! E la vittoria che bacia il tricolore! E le divisioni di La Marmora emule dei primi soldati d'Europa, acclamate in cospetto del mondo!
Fu l'anno sfolgorante e clamoroso. Dopo tanta tenebra profonda, tanto duro silenzio, l'anima del popolo si sollevò fiduciosa. La bandiera, nel suo nuovo prestigio, oltre il Ticino irradiò i bei colori che dicevano la speranza. Il popolo d'Italia scriveva sui muri: «Viva Verdi,» cioè: «Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia.»
Sedizioso emblema! E il conte di Cavour si avviava a Parigi, per raccogliere, sul tavolo della diplomazia, l'alloro che l'esercito sardo aveva mietuto in Crimea.
La storia della civiltà nostra dirà del Congresso di Parigi che esso fu la manifestazione dei sentimenti e delle illusioni di un secolo, il quale sentì l'ansia dei fini umani.
Il secolo che doveva chiudersi con la conferenza per la pace, vi preludiò a mezzo il cammino col «non intervento, l'abolizione della corsa, il diritto dei popoli di manifestare liberamente i loro voti.»
Napoleone III segnò in quel punto l'apoteosi del suo regno, e l'Europa la moderazione di lui ammirò.
Cavour rinvenne l'alleato.
Che si può fare per l'Italia? Gli chiese un giorno l'Imperatore. E Cavour, cogliendo al balzo le intenzioni e la proposta, gli esponeva il suo piano; si arrischia, e con temerario slancio butta sul tappeto verde del Congresso la questione italiana.
Questo avvenne il giorno 8 aprile 1856.
Fu la prima volta che in un congresso europeo l'Italia «nazione» apparì.
Ben lo intese il gentile spirito dei patriotti toscani, quando al ministro piemontese ritornato in patria offerivano nel bronzo: «Colui che la difese a viso aperto.»
Intanto i lombardi regalavano all'esercito sardo di Crimea la statua dell'alfiere in atto di difendere lo stendardo.
Le rivendicazioni italiche erano una realtà. Cavour le aveva elevate al posto d'onore, mentre coglieva il segreto di Napoleone III.
Il ritorno di Cavour da Parigi segna il principio di un'epica fase, e il linguaggio di lui ne risente.
Questo ministro tecnico, che appariva sdegnoso di uscire dal terreno pratico, diventa un poeta.
La sua eloquenza ha gli scatti e le pompe, l'ampiezza e la grandiosità: egli cita Byron e Manzoni, schiude innanzi al parlamento attonito un orizzonte sconfinato e corrusco di attività provocatrici. Le sue parole hanno la sonorità del metallo: rimbombano come fanfara di guerra.
Orgoglioso, quando passa l'imponente rassegna degli scambi avvivati, delle industrie sollevate, delle leggi immaginate, delle Alpi tentate, delle strade aperte, della marina rinnovata, dei civili ordini assodati, coll'imponente e largo discorso dell'aprile 1857, da codesto orgoglio trae nobile argomento per additare le vie che si aprono, gli ardimenti che aspettano: le fortificazioni di Alessandria, il porto di Spezia, l'esercito, l'armata.
E quando, l'anno di poi, l'attentato di Orsini getta lo scompiglio e incoraggia la reazione, egli, inesorabile accusatore, denuncia la complicità del misfatto nel mal governo dei principi, nelle perfidie austriache.
Lo sgomento di tutti si infranse contro la sua virile fermezza. L'Europa stava spiando. Sarà Alberoni o Richelieu? Ma il 10 gennaio del '59 Napoleone III getta la sfida all'Austria; alcuni giorni dopo, Vittorio Emanuele non è insensibile al grido di dolore dell'Italia.
Palestro, Montebello, Magenta, San Martino e Solferino! Giornate primaverili del nostro riscatto, corona di valore e di sangue a quegli accordi di Plombières che Cavour annodava, intanto che vanamente la diplomazia lo sorvegliava!
La guerra del 1859, colla liberazione della Lombardia determinò la sollevazione della Toscana, dei Ducati e della Romagna; e, allorchè Napoleone III, preoccupato dal contegno della Prussia risolse di posar l'armi, stipulando i preliminari di Villafranca, mezza Italia aveva proclamato la indipendenza.
L'insurrezione prodigiosa era stata sollecitata dall'iniziativa guerriera del Piemonte: Cavour l'aveva ispirata: egli sentiva la responsabilità formidabile.
Il grande rivoluzionario era lui, che aveva bandito la guerra, scatenato le popolazioni, armato Garibaldi, che sosteneva di denaro e di consigli Farini nell'Emilia, d'Azeglio in Romagna, corrispondeva con Ricasoli in Toscana. Villafranca lo colpì come una defezione. Fu il dolore grande della sua vita, gli parve d'aver mentito ai popoli fidanti in lui. L'esaltazione tragica del suo animo salì all'irreverenza verso i sovrani; quel potente dubitò di sè: vide nell'opera sua una ruina.
Il popolo d'Italia fu, in quei giorni più sereno e tenace di lui, ma lo intese. Disse: è un uomo di cuore costui, e veramente ci ama. Lo vendicò. D'altronde, Napoleone III che aveva sacrificato al dovere verso la Francia la promessa: «dall'Alpi all'Adriatico» si tenne fedele allo spirito del trattato di Parigi.
Se Villafranca significava la pace coll'Austria, egli aveva dichiarato che non intendeva di frapporsi fra il popolo e le sue aspirazioni. Quando Gioacchino Pepoli fu spedito a Parigi per annunziare i propositi degli Italiani e già i governi provvisorii delle provincie centrali, irremovibili nell'indipendenza, meditavano l'unità coi plebisciti, l'Imperatore movendogli concitato incontro:
Sur quel air venez-vous? chiese.
Sur l'air de Villafranca, Sire, rispose Pepoli prontamente. E di rimando:
Il n'y aura pas d'intervention, dichiarò recisamente Napoleone.2
Il non intervento condannò l'Austria alla immobilità, favorì la politica delle annessioni. L'opera di Cavour ne usciva intatta, e questi, che nell'impeto del patriottico sdegno, aveva abbandonato il governo, vi ritornò il 16 gennaio 1860.
Era forse giunto il tempo che dovessero avverarsi tutte le profezie? Che anche la parola di Carlo Alberto trionfasse? Suonava per l'Italia l'ora di fare da sè?
Ahimè! Diciotto mesi ancora, e poi il risorgente popolo è percosso dalla negra ala della morte.
«Una congestione cerebrale,» scrive il venerando patriotta ungherese Luigi Kossuth «e la mente che oggi s'innalza co' suoi progetti fino al cielo, la mano che arditamente spinge la ruota della fortuna delle nazioni, domani è un corpo esanime che ridona alla terra ciò che di terrestre conteneva.»
Ma in quei diciotto mesi quale maestosa onda di fatti!
L'epopea dei volontari, l'ardita marcia a traverso l'Umbria e le Marche e Vittorio Emanuele che stringe la mano a Garibaldi sul Volturno, intanto che i plebisciti creano il regno d'Italia e il primo parlamento italiano acclama Cavour, che si mostra al braccio di Alessandro Manzoni!
Ma in quei diciotto mesi quale maestosa onda di fatti!
L'epopea dei volontari, l'ardita marcia a traverso l'Umbria e le Marche e Vittorio Emanuele che stringe la mano a Garibaldi sul Volturno, intanto che i plebisciti creano il regno d'Italia e il primo parlamento italiano acclama Cavour, che si mostra al braccio di Alessandro Manzoni!
Questo è miracolo voluto, combinato, eseguito con una perspicacia che sorveglia sè stessa acutamente, con un'attività pensata a un tempo e turbinosa, fucinata sul maglio di un'energia indomabile, in una terribile tensione dello spirito.
Oh! sclamerebbe la forte e dolce Nennele, la simpatica eroina, la nuova creazione di Giuseppe Giacosa oh veramente colui si dava alle cose!3
Per tal modo, il giovanile prorompere dell'ufficialetto di Bard, imprimendosi nella maestà della storia, coronava la vulcanica esistenza, dominata da un pensiero!
Cavour era ministro del regno d'Italia! E nei clamori della prima festa nazionale, in onore di quello Statuto, che era stato per la sua volontà un miracoloso talismano, nella letizia dei compiacimenti ufficiali che dall'Europa venivano al nuovo regno, si dileguava nell'eternità gloriosa l'infaticabile spirito nel quale il sospiro dei secoli aveva assunto robusta e vitale forma.
Temperamento fatto di logica e di libertà. Spaziò in un campo intellettuale supremo, dove non setta, non pregiudizio, non volgarità di onori, ma solamente la fatidica progressione della storia lo guidava. E questa lo condusse al premio ineffabile, e dona alla memoria di lui, rompendo l'ombra e rischiarandola, la serena popolarità che circondò la sua persona.
Ma egli maturava nell'ampio e profondo cervello immensi e benefici disegni!
Avete udito, sul letto di morte, le ultime sue parole?
Frate, frate, e appuntava su padre Giacomo il fuoco supremo dei suoi occhi spalancati: libera Chiesa, in libero Stato.
Egli poteva darci una salutare riforma religiosa!
Fino dalla gioventù, la preoccupazione delle forze morali che sorreggono le comunioni umane aveva sollevato il suo animo alla vertigine delle altezze, il sublime lo tentava nel magnifico miraggio: la religione e la libertà!
La sua formula, incompresa o trascurata, racchiude forse il segreto di una risurrezione di fede, quale non videro le mistiche età, di una spiritualizzazione del sentimento religioso, quale non sanno concepire coloro che abbassano la Chiesa al livello di una Società politica.
Santo Padre! esclamava in cospetto dei nuovi eletti d'Italia, il conte di Cavour Santo Padre, noi vi daremo la libertà, che da tre secoli invano chiedete alle potenze cattoliche; date a noi Roma la madre alma, la stella polare nostra: noi proclameremo la libertà della Chiesa!
Era una promessa degna della mente politica più vasta e comprensiva dell'età nostra, della mente che rispecchia l'immagine più schietta e completa, più morale del mondo moderno!
Pochi, pochi anni, troppo pochi anni durò quella fioritura vivida e generosa di colore, di luce; durò quel governo intellettuale contesto di persuasione e di fàscino.
Ma la forza di una dominazione fondata sulla vivace parola, sul dibattito aperto, in parlamento, azione di avveduta pazienza e di indomabile fede. non è mirabile, stupenda, misteriosamente seduttrice, efficace e illustre assai più di quella che si suole richiedere agli eserciti ed alle burocrazie?
Il significato morale dell'opera di Cavour, equilibrata, sana, condotta secondo ragione, non è qualche cosa di molto elevato, di veramente edificante e buono, che ravviva la confidenza nelle qualità umane, nella possibilità di un destino che corrisponda agli intimi soavi accordi dell'intelletto e del cuore?
Oh, di certo, una nazione redenta, un popolo restituito a dignità, il sangue dei caduti vendicato coll'onore della patria raggiante nella coscienza di cittadini risorti alla serietà del dovere e alla letizia della libertà, codeste sono opere immortali.
Ma lo spiritual significato di un'esistenza utile, laboriosa, onesta e grande come quella di Cavour non è forse anche più ragguardevole cosa e degna di rimanere in perpetuo esempio?
Di codesta purissima luce, effusa sulla nuova storia della nostra patria, dobbiamo rendere grazie a quell'uomo, e, sia benedetta la Provvidenza, che la rivoluzione d'Italia si impersona in una delle figure più elette del secolo.
Nè consentiamo alla puerile bestemmia che egli sia morto a tempo per la gloria sua.
Per la sua felicità, forse.
Ma, per la gloria? Che possiamo dirne noi? Che ne sappiamo?
Che cosa possiamo noi prevedere di una intelligenza, di un'anima entro la quale ardeva e folgorava così potentemente il raggio di Dio?
Un giorno, standosi il conte di Cavour sulle rive del lago di Ginevra, lo accostò un alto e biondo bernese, soldato della libera Elvezia repubblicana.
Lo fissò, e poi gli chiese:
Sie sind Cavour?
E, avutane risposta affermativa, gli occhi del popolano si velarono di lacrime. Afferrò le mani del grande liberale, le baciò precipitosamente, commosso. Poi si allontanò.
Si era al 1860: l'Italia sorgeva.
Oh come felici, se nella sconsolata via, venisse innanzi a noi il trionfante fantasma ideale!
Con quale trepidante desiderio, anche noi, interrogheremmo:
Sie sind Cavour?
L'EPOPEA GARIBALDINA
CONFERENZADIGIUSEPPE CESARE ABBATentare in una breve ora l'epopea garibaldina, che vuol dir tutto Garibaldi, sarebbe come voler cogliere in un'occhiata tutta la giogaia delle Alpi. Chi lo potrebbe e da quale altezza? Fra Rio Grande e Digione, i suoi furono trentacinque anni di guerre con intermezzi di solitudini da Nume, o sull'Oceano o sullo scoglio dov'Ei sapeva incatenarsi da sè; e solo la lirica, col suo gesto da folgore, varrebbe forse a pigliarli nella sua luce. Ma se è vero che dell'Epopea il poeta può, se vuole, coglier soltanto il nodo; allora questo nella garibaldina è la Sicilia, la Dittatura, Lui, che privato, povero, disconosciuto, dispetto o adorato, ma in sè gigante cui sono sproporzionati uomini e cose, leva via un re inutile, e fa possibile e sicura l'unità dell'Italia.
Se lo stato dell'anima quale ce l'han fatto i secoli, per quel tanto di scienza che s'acquista via via da tutti, ci lasciasse ancora concepir l'Eroe nel senso antico, certi pochi uomini, da duemila anni in qua, meriterebbero d'esser chiamati eroi quanto Garibaldi: ma forse piace di più riconoscere in lui l'Uomo quale un giorno sarà, perchè ebbe al sommo la pietà, l'amore, l'oblio di sè, e un sentimento vivissimo del misterioso legame che ci giunge con l'Essere da cui emana tutta la legge e tutta la vita, la quale deve divenir alla fine sola bontà.
Non lo vediamo a sette anni, mentre si trastulla con tra le mani un grillo, piangere per avere strappato le ali alla povera bestia innocente? Non offesa dunque a ciò che vive, non far patire. È già quello stesso che negli anni gravi e glorioso si leverà nel cuore della notte, per andare in cerca di una capretta che udirà belare smarrita, su pei greppi della sua Caprera. Di mezzo a questi due fatti che paiono fanciulleschi, sta l'episodio di quel barbaro americano Millan, che aveva fatto torturar lui prigioniero, e che caduto poi nelle mani sue egli rimandò libero, senza volerlo vedere. A otto anni salva una lavandaia pericolante in un fosso; e a tredici si getta in mare per soccorrere una barca di compagni già lì per naufragare. E li salva. Quando a settantacinque anni sarà morente, dirà le ultime sue parole, raccomandando ai suoi le due capinere venute a posarsi sulla sua finestra!
Cominciò presto per lui la grande scuola di farsi da se; e presto lo vide la Costanza, il brigantino che lo portò marinaio in Levante, sogno degli italiani, passato dai libri di Marco Polo nella poesia cavalleresca. Anch'egli mirerà di Angelica ridente il velo