La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I - Various 3 стр.


Il 1821 e il 1833 furono le due epoche formidabili, che servirono a tante penne, alcune oneste, per dilaniare la memoria di Carlo Alberto. Nel 1821, fu detto, tradì i suoi amici, ai quali aveva promesso di aiutarli nel movimento. Nel 1833 perseguitò i liberali, condannandoli all'esilio od alla morte.

Ebbene, a settant'anni di distanza possiamo avere l'animo abbastanza calmo per esaminare queste due accuse.

Nessuno ha mai saputo dimostrare che cosa Carlo Alberto avesse promesso ai cospiratori del 1821 e in che modo quindi li avesse traditi.

Bisogna essere bene inesperti di congiure e di rivoluzioni per ignorare quanto sia facile a cospiratori illudersi sopra una parola o sopra un gesto, e come sia prepotente, negli uomini che si sono posti, anche per una causa nobile, fuori della legge, il bisogno di aggrapparsi a qualunque filo che sembri legarli ad altri e maggiori cooperatori del loro proposito.

Gli uomini che s'erano illusi di poter dare nel 1821 istituzioni costituzionali al Piemonte, erano tutti amici commensali del principe di Carignano. Se dunque o il Lisio o il Balbo o il Santarosa o il Collegno, tutti insieme, come pare, disvelarono a Carlo Alberto i loro vincoli colle società segrete, chiedendogli appoggio per ottenere promesse liberali dal Re, doveva essere in loro fortissima la speranza che l'adesione di un personaggio così vicino al trono avrebbe nel tempo stesso dato guarentigie maggiori al successo della loro impresa e sopra tutto giustificata in loro un'attitudine, che, da parte di ufficiali e di funzionari pubblici, poteva sembrare passabilmente arrischiata.

Quale fu la risposta di Carlo Alberto? Una conferma dei sentimenti liberali manifestati nell'intimità di antecedenti colloqui; un serio ammonimento circa l'impossibilità che in quel momento l'impresa riuscisse; la più esplicita dichiarazione che in nessun caso egli avrebbe aiutata una soluzione, a cui il Re legittimo fosse contrario. Si sono potute ammucchiare contro Carlo Alberto centinaia di pagine; non s'è mai potuto accertare che altre da queste siano state le sue dichiarazioni.

Ora, sia che i congiurati abbiano afferrata a volo la prima frase, dimenticando le altre; sia, com'è più probabile, che il moto li abbia trascinati, al solito, più in là delle loro previsioni, non avevano essi il diritto di affermare la complicità di Carlo Alberto in una impresa, uscita affatto dai limiti, nei quali egli avrebbe potuto accettarla.

E se, malgrado gli ammonimenti suoi, la congiura, prorompendo a rivoluzione, lo poneva nel bivio di diventare un ribelle o di restare un principe di casa Savoia, chi oserebbe, specialmente oggi, fargli una colpa d'aver voluto rimaner tale?

Non egli dunque tradì i congiurati; ma la congiura tradì lui e tutti, portando la situazione a conseguenze non prevedute, a scopi non proporzionati ai mezzi militari, finanziari e politici, di cui la congiura poteva disporre. E, del resto, questo compresero così bene, dopo le prime amarezze, i congiurati stessi, che poi ad uno ad uno si raccostarono al principe calunniato, e ridivennero prima ancora del 1848, i più fedeli suoi consiglieri, i suoi amici più cari. Nè a quel gran sofferente venne mai meno la generosità dell'oblio. Poichè, quando gli accadde, verso il 1846, d'aver bisogno d'un segretario, offrì il posto e lo stipendio a quel poeta Giovanni Berchet, che lo aveva, pei fatti del 1821, flagellato di versi così crudeli. E il Berchet, declinando con animo commosso l'offerta, diceva all'amico suo Carlo d'Adda, oggi senatore del Regno: «Darei dieci anni della mia vita per non avere scritto quei versi».

E veniamo al 1833. In quell'anno, come è noto, un'altra congiura politica, a cui non erano pure estranei alcuni ufficiali, era stata ordita in Piemonte sotto le prime influenze della propaganda mazziniana, disciplinata nella Giovane Italia. Pioveva, come suol dirsi, sul bagnato; poichè soltanto due anni prima, all'epoca della proclamazione di Carlo Alberto, una setta repubblicana aveva reclutato tra le stesse guardie del Corpo alcuni proseliti disposti ad assassinare il Re. Scoperta la prima cospirazione, il Re fu clemente e si limitò a chiudere in Fenestrelle il capo della congiura1. Scoperta la seconda, l'atteggiamento diventò severissimo e il Re deferì i colpevoli al giudizio dei consigli di guerra. Questi procedettero, secondo l'indole loro, inesorabili e le condanne a morte furono più d'una. Nessuno affermò che con quelle condanne si fossero violate le disposizioni della legge stataria vigente, ma tutti deplorarono che Carlo Alberto non avesse usato più largamente del suo diritto di grazia.

E lo deploro anch'io. Però non si può non pensare che questo diritto di grazia costituirebbe nei nostri codici una bugia, se i Principi se lo vedessero sotto mano tramutato in dovere; se a loro non fosse mai lasciata nessuna libertà di considerare i tempi, le circostanze, le difficoltà dello Stato. Si possono desiderare i Principi sempre magnanimi; non si possono vituperare i Principi anche severi, se la giustizia non è offesa dagli atti loro.

Carlo Alberto si trovava ne' suoi primi mesi di regno. La sua condotta era gelosamente investigata dagli altri monarchi europei, nei quali non si poteva dissipare la nube di sospetti, addensata, pei casi del 1821, intorno a lui. Ebbe egli il sentimento che la severità legale fosse in quella occasione l'unico modo di uccidere quei sospetti per sempre e di lasciargli intera l'indipendenza de' suoi movimenti per l'avvenire? o fu veramente dominato dal pericolo che quei tentativi settarî, specialmente rivolti contro l'esercito, si riprendessero e scuotessero nella sua compagine la monarchia, di cui divisava fare più tardi una macchina per l'indipendenza italiana?

Certo è che i procedimenti susseguiti a quelle agitazioni parvero eccedere ogni misura di colpa, e ne restò sulla condotta di Carlo Alberto lungo rimprovero di liberali. Ci vollero gli eroismi e le sventure del biennio 1848-49 perchè quelle impressioni rimanessero interamente dimenticate.

Del resto, non erano tempi facili, nè pei popoli, nè pei principi; difficili specialmente per quel principe, che voleva e diede più tardi al suo popolo istituzioni a cui nessun principe italiano contemporaneo si rassegnava di buona fede. Al duca d'Aumale, venuto alcuni anni dopo a visitarlo, Carlo Alberto diceva: «Je suis entre le poignard des Carbonari et le chocolat des Jésuites». Non è dunque storicamente giusto il biasimo inflitto dagli scrittori intransigenti alla contraddizione quasi tragica nella quale oscillò Carlo Alberto, prima della sua ultima e grande evoluzione politica. Quella contraddizione poteva essere in parte attribuita all'indole del tempo. Fra il Metternich, che minacciava di detronizzare Carlo Alberto a beneficio del duca di Modena, e il Mazzini che s'agitava per detronizzarlo a beneficio della Repubblica, la via sempre diritta non si vedeva chiara.

I sovrani hanno, anche più degli altri uomini, il diritto d'essere giudicati sopra l'insieme della loro vita, non sopra episodi passeggieri, di cui ordinariamente non si scoprono e non si misurano che assai tardi le varie responsabilità.

Nel 1821, un principe d'impulsi subitanei, ma di scarsa previdenza, avrebbe forse potuto strappare ai pubblicisti del tempo un grido d'ammirazione, rinunciando ai suoi diritti dinastici per combattere una battaglia disperata in nome della libertà. Ebbene? quale ne sarebbe stato l'effetto? ch'esso avrebbe dovuto, dopo la sconfitta, o andare a morire in Grecia, come Santorre di Santarosa, o trascinare per tutte le capitali europee l'antipatica figura di un principe spodestato. Il Berchet non avrebbe scritta la sua fiera apostrofe, ma sul trono sabaudo si sarebbe assiso il carnefice di Ciro Menotti, e forse l'Italia starebbe ancora meditando, per secoli, il problema della sua esistenza.

Carlo Alberto fu assai meglio inspirato. Affrontò, con mesto animo, ma con grande energia morale l'ingiustizia de' suoi contemporanei. Scelse Iddio e la storia a giudici suoi. E la storia certamente gli perdonerà qualche menda de' suoi primi anni, ricordando la grandezza degli ultimi; nei quali la sua lealtà non può essere pareggiata che dal suo ardimento, e la semplicità del sacrificio è in perfetta armonia colla nobiltà della causa per cui lo fece.

In questa differenza tra il pensiero politico di Carlo Alberto e il pensiero, o meglio il metodo politico degli altri principi della penisola, sta il segreto dell'avviamento che prese la storia d'Italia dopo il 1846.

E poichè in una legge storica consolante già ci siamo imbattuti durante questa passeggiata italiana, vediamo di non isfuggirne un'altra, che pure al nostro pensiero si afferma.

È assioma di pubblicisti volgari e di menti isterilite da scetticismo, essere la politica fondata sulla furberia piuttosto che sulla lealtà, e doversi respingere dall'arte di governare i popoli ogni miscela di sentimento o di cuore. Tutto ciò risponde ai dettami di quell'egoismo, sul quale una falsa scienza sedicente positiva vorrebbe impernare le novità del mondo.

Ebbene, la politica dei vari principi italiani dal 1815 al 1848, fu essenzialmente egoista; una sola, quella di Carlo Alberto, ebbe virtù di espansione, carattere di altruismo. Questa rimase, trionfò e trionfa ne' suoi successori; dell'altra non restano più che ricordi, rattristati dalle catastrofi e illanguiditi dal tempo. In quegli anni di dolori e di speranze, un solo principe buttò agli eventi la sua corona per capitanare due guerre d'indipendenza; uno solo giurò la Costituzione, senza ritoglierla. Che meraviglia se a quel solo l'Italia s'avvinse, indovinando dalla fede del primo la lealtà non mai smentita dei successori?

Non è dunque vero che la modernità debba uccidere gl'ideali per far vivere gl'interessi. La contraddizione fra gli uni e gli altri è l'ipotesi d'una dialettica artificiosa, non la formola uscita dalla logica degli eventi.

La morale pubblica non può essere, non è diversa dalla morale privata. Attingono entrambe la loro autorità dal sentimento del dovere, che non è mai in contrasto coi dettami della virtù.

Vi riuscirebbe difficile dedurre da qualche deplorabile eccezione che nella vita privata la disonestà produca dei felici. Potete affermare, senza tema di smentite, che, nella vita pubblica, la prosperità degli Stati è in ragione diretta dell'onestà dei Governi.

LA VECCHIA ITALIA

CONFERENZADIGUGLIELMO FERRERO

Mezzo secolo addietro la vecchia Europa sentì a un tratto tremarsi sotto la terra. In un impeto di audacia, che anche oggi, dopo tanti anni, sembra a noi miracoloso, gli uomini insorsero quasi dovunque contro l'ordine che si diceva costituito per volere di Dio; e, in pochi mesi, i governi più antichi rispettati e temuti parvero distrutti per sempre o vicinissimi all'estrema rovina.

Questa rivoluzione del grande anno, unica in apparenza, fu in realtà molteplice; perchè ogni popolo meritò un premio suo, con le proprie audacie rivoluzionarie. In Italia i rivolgimenti del 1848 parvero mirare specialmente alla liberazione nostra dalla signoria straniera; ma chi fruga un poco addentro nella storia della società italiana, dal 1830 al 1848, vien fatto di accorgersi presto che, sotto la guerra tra austriaci e italiani, si nascose allora, come dopo, il conflitto tra una società che esisteva e l'idea, il disegno, il proposito di una società nuova. Non è possibile comprendere la storia italiana di questo ultimo mezzo secolo, se non si comprende il carattere sociale della rivoluzione del 1848; ma la natura di questo terribile rivolgimento si può a sua volta capire solo studiando la società della vecchia Italia dal 1830 al 1848; nella quale maturò la discordia, che doveva scoppiar poi nella aperta guerra durata dal 1848 al 1870.

La vecchia Italia era uno degli ultimi avanzi, e dei meglio conservati, della vecchia Europa aristocratica e teocratica, nemica di quel complesso di cose materiali e morali, che noi chiamiamo la civiltà moderna. I diversi governi ricostituiti in Italia dopo la caduta di Napoleone si affaticarono intorno a una impresa di conservazione, empia e stolta secondo le idee nostre, ma alla quale non mancò una certa avvedutezza e coerenza, derivatale dall'aver quei governi capito quale sia il primo principio dell'arte di conservare gli Stati; che cioè le istituzioni non durano a lungo, se le idee degli uomini non restano eguali; e che gli uomini mutano tanto più facilmente di idee, quanto più sono mutevoli le condizioni della loro esistenza. L'instabilità delle idee e delle istituzioni, e l'instabilità dei destini individuali e delle fortune si accompagnano sempre, come gli effetti alle cause; sono ambedue i segni esteriori della interna elaborazione vitale delle società che si rinnovano; onde la vera politica conservatrice deve cercare di distruggere questa plasticità vitale della società, quasi direi pietrificandola in tutti i suoi organi. L'opera a cui attesero principalmente i governi italiani dal 1830 al 1848 fu quasi di pietrificare tutti gli organi della società italiana, per modo che questa non fosse più un animale vivente, capace di malattie e di guarigioni, di crescite e di invecchiamenti; fu di mummificarla per sempre in una forma morta, tenendola lungamente immobile entro un bagno di ignoranza, di bigottismo, di pregiudizi e anche di virtù modeste e di ragionevoli saviezze.

Le virtù modeste, le ragionevoli saviezze che dovevano essere tra i primi elementi di conservazione della vecchia Italia, furono la semplicità e parsimonia del vivere, universale in Italia sino al 1848; in una società nella quale i bisogni erano meno numerosi e le spese di apparenza minori che nella nuova. Le città, salvo qualche monumento di lusso pubblico, qualche teatro, qualche chiesa, qualche palazzo gentilizio, erano costruite dimessamente; strette le vie; pochi e miseri i giardini; trascurata la pulizia e ogni altra cosa nelle strade; scarsa la luce di notte. Gli uomini erano contenti di vivere in case più piccole, più buie, nelle quali parevano lussi molte cose che ormai sono diventate bisogni volgari. Tutto era solido e durevole: le mura delle case, granitiche e secolari; la mobilia robustissima, costosa ma capace di servire a molte generazioni; i vestiti, tagliati in stoffe solidissime, che passavano di padre in figlio e facevano parte dell'asse ereditario. La spesa per il mantello ricorreva una o due volte nel corso di una esistenza; nè era ancor noto il moderno divenire continuo della moda. Il commercio non conosceva ancora quelle teatralità goffe, quelle grandiosità posticcie, quella prodigalità burlesca di ori e marmi falsi, quel barocco da poco prezzo che hanno ridotte le vie delle nostre città grandi a orribili imposture della bellezza, grandezza e ricchezza. I caffè e le botteghe erano in stanze piccole e basse, come se ne vedono ancora a Venezia e a Mosca, i caffè soprattutto non arieggiavano a falsi fôri romani, ad Alambre di cartapesta.

Anche i bisogni erano molto meno numerosi. Pochissimi i giornali; pochi i libri e letti solo da un piccol numero; rari i viaggi. Nè ferrovie nè tranvai. I signori avevano le ville per l'estate nei pressi della città stessa dove abitavano. Le alpi non erano state ancora inventate; pochi i luoghi di bagnature celebri, poche le acque e famose per una reputazione di secoli. Non esistevano ancora le macchine da cucire, le biciclette, il gaz illuminante, il petrolio; non si conoscevano ancora gli innumerevoli prodotti chimici, quei surrogati e quelle falsificazioni, che hanno poi tanto complicata e popolata di insidie la nostra esistenza. Un uomo si faceva fare il ritratto, forse una sola volta durante tutta la sua vita. Il vivere insomma era più semplice e rozzo, ma anche più schietto; i divertimenti erano pochi di numero, lo sport ancora in fasce; le abitudini dei figli ripetevano quelle dei padri, che a lor volta avevano ereditate quelle dei nonni. Una generazione passava, prima che un nuovo bisogno si fissasse nelle abitudini di tutti; lo spirito della tradizione reggeva la famiglia e la vita privata, come il governo dello Stato.

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