Se Lorenzo il Magnifico fosse succeduto a Cosimo il Vecchio, i primi tempi della sua signoria sarebbero stati meno difficili e meno travagliata la sua giovinezza. Ma succedette invece a Piero il Gottoso, che in mille modi avea compromesso il potere della sua casa, più di tutto deviando da quella esteriore semplicità e modestia di Cosimo, che, unite alla grandezza degli intenti civili, alla protezione delle lettere, al buon uso della ricchezza, alla passione magnifica dell'edificare, per cui Benozzo Gozzoli, con allegoria, che sa di satira, lo figurò nel Camposanto di Pisa assistente colla famiglia all'edificazione della torre di Babele, mentre fecero dare alla potenza Medicea il passo decisivo, valsero a lui il titolo glorioso di padre della patria.
Ma morto Piero nel 1469, succedevano due giovani, Lorenzo di 21 e Giuliano di 16 anni, sicchè rinverdirono le speranze dei nemici di Casa Medici, contando sull'inesperienza e sull'impeto giovanile, qualità poco adatte a conservare una potestà così vaga e indeterminata, così raccomandata tutta al valor personale, come quella dei Medici. Furono più forti l'amore del popolo, il terror dell'ignoto, le memorie di Cosimo, tanto più ch'esso in persona parea rivivere nel giovine Lorenzo, già messo in vista di tutti per la precocità dell'ingegno, la giovialità, il fare largo e liberalissimo, l'educazione ricevuta da grandi maestri, i viaggi alle corti estere, pei quali così giovane era messo a parte di gravi faccende politiche e ammonito dal padre a diportarsi già da uomo e da principe. Precoce era in tutto Lorenzo e già da giovanissimo i contemporanei gli mutavano in predicato d'onore il titolo di Magnifico spettante al suo grado e con cui è rimasto nella storia, mentre il fratello Giuliano, indole più rimessa e più spensierata tuffata nei piaceri, negli amori, negli spassi giovanili era dai suoi coetanei chiamato, dice il Giovio, principe della gioventù. All'arme non fu educato Lorenzo, non sì però ch'egli non fosse forte, aitante della persona, benchè assai brutto di volto, come si vede, meglio che dalla figura un po' idealizzata di Lorenzo giovine nel gran quadro dell'Epifania di Sandro Botticelli e dal ritrattino del Bronzino agli Uffizi, nella medaglia del Pollaiuolo e nella trista figura dipinta dal Vasari (pure agli Uffizi), in cui appariscono evidenti i segni del male, che lo trasse a morte prematura. Appassionatissimo pei cavalli, era cavalcatore valente, ma della corona riportata alla giostra del 1468, combattuta per le sue nozze con Clarice Orsini, e cantata da Luca Pulci, è il primo a ridere con la solita superiorità sua. Appena mortogli il padre, furono dunque a lui i principali cittadini, pregandolo a pigliarsi cura dello Stato. Esitò, forse ad arte, raccomandandosi ai consigli di tutti, ma certo ben risoluto in cuor suo a far da sè.
Quali sono da questo momento i punti prominenti della vita di Lorenzo? Dal 1472 al 1484 la sollevazione di Volterra, la congiura de' Pazzi, la guerra che ne consegue col papa Sisto IV e col re di Napoli, l'ardito viaggio di Lorenzo a Napoli, che stacca il re dal papa e assicura la pace, il ritorno di Lorenzo in patria e la riforma interna coll'instituzione dell'Ordine dei Settanta (che è il vero 18 Brumaio di Lorenzo), la guerra di Ferrara, la pace coi Veneziani, e la morte di Sisto IV, l'implacabile nemico di Lorenzo. Dal 1484 al 1492 l'intimità di Lorenzo con Innocenzo VIII, successore di Sisto, l'equilibrio politico a sommo studio mantenuto da Lorenzo, il maggior splendore della sua signoria ed i primordi d'un'opposizione morale nel Savonarola fino alla morte di Lorenzo, a cui seguitano così da presso la preponderanza straniera e la servitù dell'Italia, che Cesare Balbo, nella sua divisione della nostra storia, proponeva di finir qui (merito o fortuna, che sia, di Lorenzo) l'età dei Comuni Repubblicani, che altri protrae sino alla caduta di Firenze nel 1530.
Ora questi fatti, che io ho accennati così in breve c'è chi gli ha narrati tutti a gloria, altri tutti a biasimo di Lorenzo. La Repubblica doma la ribellione di Volterra? È lui che vuol rubare i profitti delle cave d'allume. Volterra è posta a sacco? È lui, che ordina quell'inutile crudeltà. I Pazzi congiurano? È lui che li ha provocati. Il popolo fa scempio dei congiurati? È lui, che non è mai sazio di vendette. Sisto IV e il Re di Napoli muovon guerra? È Lorenzo, che strascina la patria in contese non sue. Lorenzo va a Napoli e si dà in mano al suo nemico? È una commedia. Torna e si impossessa coll'ordine dei Settanta dell'elezione dei Magistrati? È lui, che ha inventata questa trappola alla libertà la quale non ha riscontro nella storia di Firenze. Si stringe in amicizia e parentela con Innocenzo VIII? È lui, che è quasi reo del nepotismo dei Papi. Cerca la pace nell'equilibrio degli Stati? È una politica d'espedienti, che non val nulla. Firenze è prospera e gioconda? È lui che la educa alla servitù, corrompendola coi trionfi e i canti carnascialeschi. Che più? Neppur l'uomo privato si salva da questo pessimismo demolitore. Si ricusano tutte le testimonianze in suo favore, che concordemente lo dicono buono, gioviale e tollerante, nonostante le sue sofferenze fisiche, fedele agli amici, socievole, semplice nella grandezza, idolatra dei figli, non dimentico mai del tutto degli insegnamenti e degli esempi della pia madre, Lucrezia Tornabuoni, rispettoso della moglie, indole pur così diversa dalla sua e con poca grazia e senza avvenenza; e, per dimostrare com'era tuffato nei vizi, il Buser reca una lettera d'un Francesco Nacci da Napoli, che annuncia a Lorenzo la spedizione di cinquanta belle schiave turche, le più belle che si trovarono! Ah, la grazia! Cinquanta? Se non che, come fu provato, il buon tedesco ha letto nel documento belle invece di pelli, turche invece di tutte, e così, invece di 50 pelli di Schiavonia, ha letto 50 belle schiave turche, un harem da sultano, e senza accorgersi neppure che in tutto il contesto della lettera si parla della spedizione in modo, come se oggi si spedissero a qualche gran Don Giovanni 50 belle ragazze, turche o non turche, per pacco postale. Nè basta. Quello che il Machiavelli dice a lode di Lorenzo s'interpreta a biasimo, e nel dialogo sul Reggimento di Firenze del Guicciardini si vuol vedere non una discussione, ma una diatriba, e fra gli interlocutori del dialogo si menan buone tutte le accuse di Paolo Antonio Soderini e di Pier Capponi e non si tien conto alcuno di tutte le difese di Bernardo Del Nero.
Quanto erano stati belli e lieti gli anni della prima giovinezza di Lorenzo, altrettanto furono agitati e poi tristi e funesti i primi anni della sua signoria. Nel 1470 insorge Prato. Due anni dopo Volterra, a cagione delle miniere d'allume. Si vuole ch'egli vi fosse cointeressato e che nella repressione la città fosse posta a sacco per ordine suo. Ora è stato dimostrato che della prima accusa non c'è che una sola testimonianza contemporanea ed è di un nemico dei Medici; e quanto alla seconda, non solo che non furono gli assalitori, che la misero a sacco, bensì le masnade stesse, che essa avea assoldate per difendersi. Ma che monta? È un'altra delle frasi fatte a proposito dei Medici e di Lorenzo, e non è un anno, che se l'è ribevuta il Bourget, romanziere positivista, nelle sue Sensations d'Italie e l'ha ridivulgata colla magia del suo stile. Lorenzo volle non transigere, ma reprimere. Quella frequenza di ribellioni gli dava ombra; ecco la maggiore responsabilità sua. Ottenne di fatto qualche anno di tregua e ripigliò più che mai gli spassi, gli studi, le magnificenze d'arti e spettacoli, perocchè Lorenzo non era di quelle povere nature, come sarebbero le nostre, che una sola faccenda assorbe intiere e non ci lascia più nè tempo nè testa ad altro.
Natura grandiosa, fantasia ardente, ingegno universale, Lorenzo mandava di pari passo lettere, filosofia, galanterie, mascherate, vita di campagna, vita di città, laudi sacre, canti carnascialeschi, canzoni a ballo, sacre rappresentazioni, intimità cogli amici, i letterati e gli artisti, ospitalità sontuose a principi che capitavano, eriger chiese e ville, passione dei musei e dei cavalli, della musica e delle belle donne, banchetti e processioni, politica e giostre.
La più celebre è appunto di questi anni, nel 1478, e prende nome da Giuliano ed è la più celebre, perchè fornì argomento alle Stanze del Poliziano. Precede alla giostra e alla composizione delle Stanze un avvenimento intimo dei due fratelli Medici, la morte della bella Simonetta Vespucci, amante di Giuliano, nel 1476, ed interrompono la composizione delle Stanze la congiura de' Pazzi e l'uccisione di Giuliano nel 1478. Il terribile epilogo, e non voluto, del poema è dunque la narrazione in latino sallustiano, scritta dallo stesso Poliziano. L'epilogo, forse ideato e non potuto scrivere, il cavalleresco epilogo cioè della più bella data in premio al più cortese, al più prode, sarebbe mai quello rappresentato con inspirazione polizianesca dal Botticelli nello stupendo quadro dell'Accademia di Belle Arti, detto comunemente: la Primavera? È una ingegnosa e nuova interpretazione del quadro, proposta ora dal prof. Jacopo Cavallucci e che a me pare fondatissima. La Ninfa del poema è certo quella del quadro. Basta rileggere le Stanze:
Candida è ella e candida la vesta
Ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
Lo inanellato crin dell'aurea testa
Scende in la fronte umilmente superba.
Ridele intorno tutta la foresta
E quante può sue cure disacerba.
Nell'atto regalmente e mansueta
E pur col ciglio le tempeste acqueta.
Ella era assisa sopra la verdura
Allegra e ghirlandetta avea contesta
Di quanti fior creasse mai natura,
De' quali era dipinta la sua vesta.
E come prima al giovin pose cura
Alquanto paurosa alzò la testa,
Poi con la bianca man ripreso il lembo,
Levossi in piè con di fior pieno un grembo.
Mosse sovra l'erbetta i passi lenti
Con atto d'amorosa grazia adorno
Ma l'erba verde sotto i dolci passi
Bianca, gialla, vermiglia azzurra fassi.
Non meno certo è che la figura del giovine, situato a sinistra, è il ritratto idealizzato di Giuliano, somigliantissimo, parmi, all'altra figura di Giuliano, che è nel quadro dell'Epifania del medesimo Botticelli; e quasi lo stesso motivo poetico delle Stanze e del quadro la Primavera, e la poesia attribuita a Giuliano de' Medici, ma che il Carducci giudica del Poliziano, ed è diretta alla Simonetta. Se la ninfa del quadro sia il ritratto della Simonetta, fra tanta incertezza dei ritratti di questa vaga e celebre beltà, non si può forse determinare assolutamente, ma altri emblemi, il lauro allusivo a Lorenzo, i tre fiori d'ireos fiorentina, tutto concorre a dare a quel quadro un significato Mediceo spiccatissimo, e si sa che i Medici l'ebbero caro come un ricordo di famiglia.
Comunque, il dolce nome della Simonetta mi riconduce a Lorenzo, perchè dalla vista di lei morta e portata, scoperto il volto, al sepolcro, come narra il famoso epigramma latino del Poliziano, Lorenzo pretende, nel Commento ai propri sonetti amorosi, essersi sentito sollevare alla perfetta cognizione platonica dell'amore, da una morta trapassato poi in una viva, dalla Simonetta in Lucrezia Donati, da lui incontrata in una festa, alla quale concorsono, dic'egli, tutte le giovani nobili e belle. È una gentilissima invenzione, ma invenzione di certo, perchè l'amore della Donati è precedente di dieci anni almeno alla morte della Simonetta, e solo dimostra che continuò anche dopo il matrimonio di Lorenzo con Clarice Orsini, sempre però puro, ideale, platonico, petrarchesco, come assicura Ugolino Verini, un poeta intrinseco di Lorenzo, e dietro a lui molti altri confermano, sicchè noi non possiamo far di meglio che credere ad occhi chiusi a sì concordi testimonianze.
Tutta questa lieta visione di giovinezza e di amori si dilegua nella congiura de' Pazzi. Non rinarrerò quella scena, una delle più straordinarie della storia di Firenze, perchè tutte già l'avete a memoria; quella messa in duomo col Cardinal Riario, che assiste; Giuliano e Lorenzo de' Medici con parecchi loro amici, vicini al coro e circondati, senza saperlo, dai congiurati; il popolo devoto, che li attornia, e mentre il sacerdote celebrante solleva l'ostia consacrata e le campane suonano a gloria, Giuliano, ferito a morte dal Bandini, cadere immerso nel proprio sangue, Lorenzo assalito e ferito anch'esso, ma avvoltasi la cappa a un braccio e tratta coll'altro la spada aprirsi il passo alla sagristia, dove riesce a scampare. La chiesa è tutta un tumulto; le vôlte quasi crollano alle grida; il Cardinal Riario, accovacciato presso l'altare, ne rimarrà pallido di terrore tutta la vita. Intanto a quel suono di campane, altri congiurati, con l'Arcivescovo Salviati alla testa, assalgono il Palazzo della Signoria, ma sono presi, i principali impiccati alle finestre, altri respinti, mentre il popolo, infuriato per la morte di Giuliano, vuol riveder salvo il suo Lorenzo dalle finestre del Palazzo di Via Larga, poi trucida per le vie quanti congiurati o sospetti gli vengono alle mani, chi dice settanta, chi cento, chi più; giustizia orrenda, ma che dimostra avere il popolo giudicata la congiura per quel che era, una trama ordita, non per amore di libertà, ma per odii e cupidigie private dei Pazzi, del Papa e dei Riario, suoi nipoti, e quindi aver senz'altro voluto vendetta dei congiurati. Dissimulando la complicità sua, il Papa ruppe guerra a Firenze e vi trascinò il Re di Napoli, suo alleato, pretendendo che la guerra era fatta non a Firenze, ma a Lorenzo. Questi vide bene il pericolo di tale perfidia; intuì rapidamente la necessità d'un gran colpo, scindere cioè l'alleanza del Papa col Re, e deliberò a qualunque rischio di consegnarsi da sè nelle mani del Re. Partì accompagnato dai voti e dall'ammirazione di tutti. Tornò colla pace, tornò glorioso, tornò onnipotente, e di questo momento si valse subito per riassodare l'autorità sua e della sua Casa. Questo si chiama veder chiaro in politica! Di più, poteva in quel momento esser principe e non volle; preferì una repubblica signorile a una signoria repubblicana. Questo si chiama moderarsi nella vittoria, la più difficile di tutte le virtù politiche. Poteva cioè uscire dalle tradizioni della storia fiorentina e non volle!
Quante volte il fatto dei Medici e di Lorenzo non s'è ripetuto anche nella storia d'altri paesi? Al ritorno di Cosimo dall'esilio il popolo vide in lui un liberatore, non un tiranno. Al ritorno di Lorenzo da Napoli accadde lo stesso e anche più. Perciò non credo ch'egli avesse bisogno di corrompere il popolo, distillandogli i sottili veleni della voluttà per meglio dominarlo. Anche questa è una delle tante frasi fatte, ma, ha ragione il Gaspary, un individuo non corrompe una nazione, quando essa non sia già corrotta. Quanto a morale e gusto di piaceri, il popolo valeva il signore e il signore il suo popolo. Per questo s'intesero così bene! Nè si nieghi l'azione di Lorenzo sulla civiltà della Firenze d'allora, sofisticando su qualche data di nascita o di morte di grandi artisti, perchè tutta la grande fioritura artistica e letteraria del 400 fiorentino è Medicea, nè tali quistioni si trattano coll'orologio alla mano. Il vero è che nè una protezione principesca basta da sola a creare una civiltà, nè una tirannia, anche più deprimente di quella dei Medici, a farla sparire. V'ha bensì sull'ultimo della vita di Lorenzo, come già dissi, un principio di reazione morale e religiosa, che s'incarna nel Savonarola, ma la impicciolirebbe di troppo chi la considerasse provocata da un uomo solo, anzichè dall'indole generale della nuova cultura, dei nuovi costumi e dei nuovi tempi. Le lettere, che Lorenzo scrive alla morte di sua madre, la pia e ingegnosa donna, la quale negli argomenti de' suoi inni sacri precorre il Manzoni, mostrano la tenerezza filiale di Lorenzo. Le lettere di Clarice Orsini e del Poliziano, del Pulci e di tanti altri mostrano l'amor suo pei figli, la sua bonaria e fedele affezione agli amici, dai quali fu idolatrato, e, quanto alla moglie, lasciando stare se il mi fu data dei Ricordi di Lorenzo sia la frase indifferente, che significa il fidanzamento o che la sposa non fu di sua scelta, certo è che i fatti e i documenti dimostrano rapporti non mai interrotti di affetto e di stima. Intercedendo per chi l'ha offeso: non fareste, essa gli scrive, secondo la natura vostra a non gli perdonare; parole, che fanno il maggior onore ad essa ed a lui e scritte l'anno stesso della congiura de' Pazzi, quando l'animo di Lorenzo dovea esser meno che mai disposto ad indulgenza. E quando si leggono nella lettera di Matteo Franco, che descrive il ritorno di Clarice dal Bagno a Morba, le parole, ch'essa risponde ai poveri terrazzani di Colle, i quali la supplicano di raccomandarli a Lorenzo, si vede chiaro quant'essa era addentro nel segreto della sua politica e con che arte gentile sapea all'occasione farsene strumento.