La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892 - Various 5 стр.


Nel corpo della casa opposto all'entrata, od in quello che apre esternamente sui luoghi meno belli, meno soleggiati e meno in vista, stanno le cucine, le dispense, il tinello e gli altri locali dati al servizio, al bucato, e via dicendo. A seconda della maggiore o minor mole del castello e della sua giacitura, si trovano pure a pian terreno una o più camere fornite, ad uso di ospizio per i viandanti. Certe volte, queste camere, stanno in qualche fabbrica staccata e vicina, colle scuderie, i canili, le stalle ed il fienile.

La cucina ha nella vita signoresca di quel tempo una importanza grandissima quale noi a stento possiamo concepire, anche quando confrontiamo alle modiche nostre le formidabili mangiate di quei nostri maggiori. La Castellana pur sapendo di greco e di latino (caso, più raro assai, a mio giudizio, di quanto sia stato detto e di quanto si creda), scende ogni giorno alla cucina, bada direttamente alla spesa, e ne registra i conti in apposito libretto, combina col cuoco, o più comunemente colla cuoca, la lista del desinare, misura il vino alla servitù, vigila alla nettezza dei rami e delle stoviglie. Tutti i rami portano impressa l'arme della famiglia, come pure le brocche, le mezzine, i gotti, ed i piatti di stagno, e belle armi scolpite mostrano i monumentali mortai.  La cucina ha due immensi camini: uno raccoglie sotto le ali della cappa i fornelli, l'altro, il maggiore che ospiterebbe al coperto tutto quanto il servitorame, ha in un fianco, sotto la cappa, il forno, e dal lato opposto, aperto nel muro del fondo, il passa vivande, che guarda nella sala da pranzo. Questa la conosciamo: gli scrittori di storia, i novellieri, i diplomatici ed i poeti, ce ne hanno lasciato diligenti e riconoscenti descrizioni. D'altra parte il suo arredamento non ha quella stabilità che si incontra in ogni altro membro della casa, e a norma delle circostanze e degli ospiti, variano le tappezzerie, variano i mobili e variano sopratutto le argenterie ed il vasellame di cui, nelle occasioni solenni, il sire del Castello fa grande e non sincera mostra, togliendone a prestito da qualche vicino o parente.

Qui sopratutto da Principe a Castellano ci corre. Il Principe del Rinascimento, venuto in subitanea ed impensata grandezza, ama lo sfarzo degli apparati per naturale inclinazione artistica e per accorgimento politico. Egli sa che tanto più può quanto più è creduto potere, e del potere è visibile indizio la magnificenza. Inoltre, salito all'altissimo grado per virtù d'ingegno, egli pregia tutte le manifestazioni dell'ingegno umano, e gli ingegni stessi, onde si circonda di poeti e di artisti, ne stimola con danari ed onori l'attività, traendo dalla loro dimestichezza e dalle opere loro, come osserva il Burckardt, una nuova legittimità alla sua illegittima potenza.

Il Castellano, nobile di antica data, ha bensì ambizioni grandi, ma deve fare i conti colle rendite che il potere sovrano gli va continuamente assottigliando. Nè in tempi di così instabili signorie, e nella rapida decadenza degli ordinamenti feudali, egli osa fare vistosa mostra di ricchezze; onde, dei nuovi agi e delle nuove eleganze, ama piuttosto fruire in famiglia che procacciare agli ospiti il godimento. Perciò troveremo più ornate e ricche le camere di sopra, destinate al dormire e all'abitare, che la sala da pranzo e quella antica sala baronale che ancora occupa al piano terreno il maggiore spazio, ma che sia ostentazione di austerità, sia religione degli avi o sia piuttosto il trovarcisi a disagio, il padrone lascia, per lo più, nuda, fredda e solenne quale l'ebbe dai padri.

Due scale mettono ai piani superiori della casa. Una, stretta, oscura e rotta da frequenti ripiani, è destinata al disbrigo delle faccende domestiche, l'altra spaziosa e chiara è riservata ai signori. Questa, o sale visibilmente dal cortile coperta di un tettuccio posato su pilastrini o colonnini, o si svolge in branche regolari con scalini larghissimi e di poco rilievo. Nell'Alta Italia non erano infrequenti le scale a chiocciola. Il Castello d'Issogne in Valle d'Aosta ce ne mostra una veramente bella e degna di studio. Ogni gradino s'impernia dall'uno dei capi in una colonna di granito sottilissima, e di là allarga a ventaglio il suo piano finchè infigge nel muro l'altro capo, più largo di un braccio. Rigirata sopra sè stessa, descrivendo un circolo che misura oltre quattro metri di diametro, quella scala, che pare empire colla sua elica enorme il cavo di una torre, ascende misteriosa, nascondendo, a chi sale, la persona che lo preceda di pochi gradini, ed ingrossando il suono di ogni passo e diffondendolo in quel vento continuo che rendono le spire di una conchiglia. La sera essa vi dà quella sottile inquietudine imaginosa, così piacevole agli adulti. Ogni passo ed ogni voce svegliano mille echi di passi e di voci che sembrano turbinare nel vano e salire e smarrirsi poi via per i solai tenebrosi. Vi scattano rumori secchi come il battere di un acciarino, spenti nell'attimo come la scintilla che ne lampeggia, vi corrono fruscii morbidi come di vesti che sfiorino la terra e rapidi come di persona snella che si rimpiatti. Se altri vi preceda colla lucerna, le muraglie, più che una luce, riflettono una bianchezza incerta simile a quella che irradiata dalle lampade degli altari fa più nera l'oscurità delle navate.

Le camere del primo piano, sono chiare e spaziose; i mobili pochi, ma ognuno di essi ha singolari pregi artistici. Gli intagli assottigliano il legno e gli danno la vaghezza e la leggerezza di un ricamo, senza scemarne punto la solidità. All'opposto di quanto segue oggidì, i meglio ornati non sono i mobili di pretto lusso, ma gli usuali, come i grandi stipi addossati al muro, le credenze, il seggiolone o cattedra che fiancheggia il letto, la cui spalliera, imperniata al telaio, può all'occorrenza scendere, e posando sui bracciuoli formare una tavola. Ai piedi del letto sta il cassone, o la cassapanca, ornata di intagli a fiori o figure, e con delicati fregi di ferro, alle maniglie ed alla serratura, quella cassapanca che fu argomento di tante argute ed inverosimili storie ai novellieri, nella quale le donne riponevano le vesti più sfarzose, poichè ancora non usava, o poco, di appenderle negli armadi. Il letto a colonnini, è coperto e fasciato di ricchissime cortine. Quando il signore conduceva la sposa al castello, la camera nuziale era tutta apparata a nuovo. Le altre camere della casa erano depredate per raccoglierne in quella tutti gli agi e le ricchezze. Si ponevano sul letto fin quattro materassi di bambagia, le lenzuola erano di tela, sottilissime, tutte trapunte di seta e d'oro, che doveva far ribrezzo a toccarle. Le coperte, di raso rosso, azzurro, cremisino, mostravano ricami di fili d'oro con le frangie d'ognintorno. Le cortine erano a liste alternate di velluto e damasco e tocca. Quattro origlieri lavorati maravigliosamente a ricami e trine aspettavano le nobili teste. Alle pareti, arazzi istoriati o vaghe stoffe sottili, a ghirlande di fiori. Nel mezzo sulla tavola un tappeto alessandrino, ed un tappeto, alessandrino pure, sul palco che reggeva il letto. E intorno i forzieri recati in dote dalla sposa, pieni di gemme, di monili, di stoffe preziose e di merletti.

Ma tale fasto durava quanto la intima convivenza dei coniugi, i quali, a breve andare, si riducevano entrambi in meno ricchi appartamenti, e spartivano fra di essi ed in seguito colla figliolanza le quattro materasse, che erano spesso le sole della casa, e delle quali più d'una volta i figlioli maschi ignoravano, finchè non menassero moglie, le tepide mollezze. Perchè, il lusso era grande, ma non pari al lusso le comodità, o, quanto meno, non le minute comodità, che tanto pregiamo ai giorni nostri.

Avevano, onde è a credere che pregiassero sopratutto le comodità di spazio, e grande e nuovissima a quei tempi, ricchezza di luce e di aria. Nei secoli precedenti, il castello era più ordinato a fortezza che a dimora, onde apriva non sulla campagna, ma sugli spazi compresi fra le varie cinte, strette e basse finestre. Ora ogni camera guardava intorno, oltre i recenti ruderi delle cinte, i campi ed il cielo e lasciava entrare per le ampie e frequenti finestre, i raggi, i profumi, i suoni che manda la natura. E quelle finestre, dalla profonda strombatura, dovevano essere la dimora consueta delle donne a giudicarne dai sedili a muro che le fiancheggiano e che solevano ricoprire di morbidi cuscini. Di là le castellane aspettavano il marito od i figliuoli reduci dalle caccie, non dalle caccie festose e squillanti, raro e costoso sollazzo dato ai rari ospiti e delle quali esse pure erano parte, ma dalle caccie quotidiane, rude esercizio di forza e di astuzia, consueta e quasi unica educazione che i padri davano ai figli. Di là anche, le giovani donne ammonivano il damo che s'aggirava cauteloso nei pressi del castello, e con segnali convenuti gli davano la posta. Se non che, a scapito della poesia romantica, ed a gioia grande del demonio, esse solevano pur troppo concedere e richiedere amore, a gente dimorante, per uffici che vi tenessero, nel castello, e la distribuzione degli appartamenti aiutava i raggiri infernali perchè le camere delle donne stavano tutte dall'un lato del castello e quelle degli uomini dall'altro.

Ma tale fasto durava quanto la intima convivenza dei coniugi, i quali, a breve andare, si riducevano entrambi in meno ricchi appartamenti, e spartivano fra di essi ed in seguito colla figliolanza le quattro materasse, che erano spesso le sole della casa, e delle quali più d'una volta i figlioli maschi ignoravano, finchè non menassero moglie, le tepide mollezze. Perchè, il lusso era grande, ma non pari al lusso le comodità, o, quanto meno, non le minute comodità, che tanto pregiamo ai giorni nostri.

Avevano, onde è a credere che pregiassero sopratutto le comodità di spazio, e grande e nuovissima a quei tempi, ricchezza di luce e di aria. Nei secoli precedenti, il castello era più ordinato a fortezza che a dimora, onde apriva non sulla campagna, ma sugli spazi compresi fra le varie cinte, strette e basse finestre. Ora ogni camera guardava intorno, oltre i recenti ruderi delle cinte, i campi ed il cielo e lasciava entrare per le ampie e frequenti finestre, i raggi, i profumi, i suoni che manda la natura. E quelle finestre, dalla profonda strombatura, dovevano essere la dimora consueta delle donne a giudicarne dai sedili a muro che le fiancheggiano e che solevano ricoprire di morbidi cuscini. Di là le castellane aspettavano il marito od i figliuoli reduci dalle caccie, non dalle caccie festose e squillanti, raro e costoso sollazzo dato ai rari ospiti e delle quali esse pure erano parte, ma dalle caccie quotidiane, rude esercizio di forza e di astuzia, consueta e quasi unica educazione che i padri davano ai figli. Di là anche, le giovani donne ammonivano il damo che s'aggirava cauteloso nei pressi del castello, e con segnali convenuti gli davano la posta. Se non che, a scapito della poesia romantica, ed a gioia grande del demonio, esse solevano pur troppo concedere e richiedere amore, a gente dimorante, per uffici che vi tenessero, nel castello, e la distribuzione degli appartamenti aiutava i raggiri infernali perchè le camere delle donne stavano tutte dall'un lato del castello e quelle degli uomini dall'altro.

La famiglia del signore teneva il primo piano della casa. Il secondo era destinato agli ospiti. Ciò dico, dei castelli, non delle abitazioni signorili della città, nelle quali erano di solito serbate pei forestieri molte camere al piano terreno.

*

La mattina, all'alba, il cortile è pieno del vario popolo dei servi e dei valletti. Gli uni portano le provvigioni alle cucine, e gli altri forbiscono le armi od i fornimenti per le cavalcature, gli scozzoni strigliano i cavalli, il maggiordomo, sotto il portico, misura, pesa e registra il latte, le farine, le ova ed il pollame che i villani arrecano dalle prossime cascine. Nel secolo XIV ancora squillava, al levare del sole, il corno della torre maggiore. Ora quell'uso guerresco è dimesso. Il signore s'alza per tempo, poichè andò la sera innanzi per tempo, al riposo. Quando gli tocca levarsi ad ore insolite, egli ricorre allo svegliarino, che chiamavano allora oriolo col destatoio, del quale, verso la fine del secolo XV, già l'uso era quasi comune. V'erano anzi orioli di così sottile congegno, che all'ora voluta, non solamente risonavano stridendo, ma battevano l'acciarino ed accendevano la candela. Appena desto, il Castellano scendeva alle stufe, pel bagno, bella usanza dovuta alle Crociate e che si andò perdendo di poi, e fu ripresa che non è molto; indi attendeva a vestirsi coll'aiuto del domestico che si era tutta la notte giaciuto sul tettuccio accanto al letto padronale. Di dormir solo in camera non si attentava nessuno. All'ospite era squisita cortesia, offrire il Castellano un posto nel suo proprio letto. E sempre o una dama, o una vecchia fante, dormiva o nel lettuccio accanto o nel letto istesso della Castellana. Di questa singolare, e a giudizio dei nostri tempi, fastidiosissima usanza, sono piene le novelle. E poichè, bisogna pur dire ogni cosa, la domestica non si rimoveva di camera, nemmeno quando il rimanervi la riduceva a terzo incomodo; se non che i signori, quasi non avendola in conto di creatura umana, nulla curavano di lei.

Com'era vestito, messer Castellano faceva le prime devozioni prostrato all'inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente alla sua camera. Bello e raccolto luogo di preghiera, colla vôlta azzurra a crociere dorate e tutto stellato il cielo e colle pareti dipinte a figure preganti inginocchiate fra l'erbe ed i fiori di un prato. Spesso quelle devote imagini raffiguravano la Castellana ed il signore, riconoscibili all'arme di famiglia che portano sulle vesti, e in fondo al prato sorgeva l'imagine del castello, dalle cui torri ascendeva fra nimbi al cielo un volo di angeli e di santi.

Poi tutta la famiglia si raccoglieva ad ascoltare la messa ed a comunicare nella ricca e fastosa cappella, servita da un cappellano che risiedeva in castello, dopo di che Madonna dava una prima capata alle cucine, Messere alle scuderie o alla sala dell'armi dove attendeva ad armeggiare coi figlioli o cogli ospiti o cogli scudieri, e le figliole girellavano nel giardino cogliendo fiori e dedicandoli intenzionalmente a lontani od a prossimi sospiranti. Quando la casa non aveva ospiti, i giorni del bucato, la signora e le figliuole non disdegnavano scendere nell'orto a sciorinarvi i panni, e nemmeno sdegnavano portarveli stillanti nelle ceste a ciò destinate, o se non era l'orto era qualche alta terrazza vicina al tetto. Altro ufficio della Castellana e delle figliuole, è la cura delle tappezzerie e degli arazzi, che si tengono piegati su appositi scaffali nella stanza chiamata per l'appunto: la guardaroba delle tappezzerie, è collocata di solito all'ultimo piano il più asciutto della casa ed il meno polveroso. Le fanti vi passano intere giornate a spiegare, battere, rimendare e ripiegare i preziosi paramenti, ma tale è il loro valore ed in tale pregio sono tenuti, che per lo più vi attende direttamente la padrona. Ben inteso, che a queste piccole cure le Castellane non andavano vestite di broccato, di raso o di tocca, quali ce le soliamo raffigurare. Simili vesti passavano per eredità dalla madre alla figliuola, onde è a credere che non le portassero se non nelle grandi occasioni. In casa, anzi, il vestire era dimesso, forti panni paesani a colori oscuri, biancheria grossa ed ahimè mutata di rado, ed ai piedi certe grosse pantofole di panno.

Del signore poi non parliamo che tra le armi, la caccia, le scuderie e le visite ai poderi, Dio sa come si trovasse conciato la sera. Alle dieci della mattina uno squillo di corno annunzia il desinare. Anche nei giorni ordinari, sono molti e grossi piatti: carni di bue, di cinghiale, di capriolo, di montone, galline, fagiani, e via dicendo, condite e fatte piccanti da salse formidabili, tutte aromi e pizzicori mordenti, pepe, gorofano, cannella, ginepro, ambra, belzoino, noce moscata, anice ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali primeggiavano pur troppo l'aglio e la cipolla. Tale copia, scelta, e condimento di vivande, sono fatte apposta per stimolare la sete cui provvedono le ben fornite cantine che non più contente del prodotto paesano, già accolgono una ricca varietà di vini italiani e forestieri cotti e crudi. Cocevano per conservarlo più a lungo, il vin greco di malvasia, venuto di Candia, che solevano condire con aromi. Fra gli italiani era famoso un certo vino di Piacenza che nessuno più conosce, se pure non proveniva dai colli di Voghera e di Stradella, e del quale facevano grande incetta anche le cantine francesi. Erano gustati assai i vini di Toscana e di Sicilia, e fra i piemontesi il Nebiolo ed il Caluso. Ma a leggere i novellieri, non pare che presso di noi le copiose e robuste bevute degenerassero o era caso raro, in quelle brutali cotte di che menavano vanto i signori di Francia e di Allemagna. I novellieri italiani parlano raramente di gente briaca, nè si sarebbero astenuti dal farlo, quando ne avessero trovato frequente argomento nella vita del tempo loro.

Назад Дальше