Conferenze tenute a Firenze nel 1896 - Various 9 стр.


Comparve allora l'ingegno sovrano. Fu un audace, sicuramente; ma l'audace poteva essere un soldataccio, e fu un legislatore, quasi un profeta armato, per dirlo nel maraviglioso stile di messer Nicolò. Ah, perchè non si trattenne egli al titolo e all'ufficio di console, il guerriero legista? Ce ne dorremmo, sì, ma pensando ancora che egli, console a tempo, e non solo, accompagnato e contenuto da mediocri, non avrebbe fatto nulla. Console unico, a vita, sarebbe stato con altro nome un imperatore. Ma forse la modestia del titolo poteva esser buon freno all'orgoglio; e la dignità sua poteva contentarsene, come al tempo loro se ne contentavano le civiche virtù di Valerio Publicola e di Quinzio Cincinnato. Ma non erriamo noi, rievocando quei nomi? e non trasformiamo un pochino nella nostra immaginazione gli uomini che li hanno portati? Erano uomini semplici, in semplici età; possidenti agricoltori, amavano i loro quattro jugeri di terra; si sarebbe fatto poco cammino con tali consoli e dittatori, che volevano essere ogni sera di ritorno al focolare domestico. Felici gli Stati che possono contentarsi di tali uomini e commetter loro le proprie sorti. Ma se ne sarebbe contentata la Francia moderna? Non se ne contentò l'istessa Roma antica, che con altri uomini e più vaste ambizioni domò Cartagine, aperse al suo pensiero, alle sue leggi, la Spagna, la Grecia, la Siria, l'Egitto, le Gallie e le terre settentrionali dall'Istro alla Mosa. E si fosse pur contentata la Francia; sarebbe stata quieta l'Europa monarchica, l'Europa dispotica, con sotto gli occhi uno stato senza re? Non gliene avrebbero imposto uno, da Coblenza o da Vienna, da Londra o da Pietroburgo, per cessare il mal esempio, tanto più pericoloso quanto era più nuovo? Dunque?.. Dunque, storicamente fatale il despota della libertà, che fu il rinnovatore della carta e del diritto d'Europa, il turbatore di tutta la vecchia compagine d'interessi, di privilegi e di pregiudizi, tessuta al finire del Medio Evo per danno universale. Che se, infrenatagli l'ambizione, quell'uomo portò la pena del troppo che aveva voluto essere, noi non dovremo credere per ciò che senza quella sua ambizione si sarebbe ottenuto il meglio. Bene il mondo credette di respirare, quando egli cadde; e prime respiraron le madri. Bellaque matribus detestata: è verissimo. Ma come respirassimo noi Italiani, stimandoci tanto felici di quella caduta, lo seppe il più manifestamente felice di tutti, Federigo Confalonieri, sepolto quindici anni nelle segrete dello Spielberg, e non trattone fuori se non per languire undici anni ancora, fantasma di sè stesso, condannato a morire esule sconsolato dalla terra dei padri.

III

Tutto bene, adunque? No, non ho detto questo, non voglio dir questo. Non si rimescola il mondo, senza commettere errori; e non tutti i giorni della sua vita terrena quella grande anima ebbe presente la misura prescritta alle umane ambizioni. Il colosso aveva il piede di creta; ma era un colosso, e solo poichè fu caduto, prosteso a terra, i pigmei poterono dalla lunghezza misurata argomentarne l'altezza. È anche giustizia il riconoscere com'egli fosse trascinato di continuo alla guerra, e dalla guerra continua istigato alle crescenti ambizioni. N'è un cenno evidente in ciò ch'egli scriveva al ministro di Francia a Londra, poichè l'Inghilterra ebbe rotta la pace d'Amiens, che fu il mal seme della gente Europea: l'Inghilterra mi obbligherà a conquistare l'Europa. Il primo Console non ha che trentatrè anni, e non ha distrutto ancor altro che stati di second'ordine; chi sa quanto tempo gli occorrerà per risuscitare l'impero d'Occidente? Eccovi Carlomagno, col suo tentativo di rinnovare la potenza d'Augusto: e franca la spesa di vedere in che differissero le due forme del tentativo, come si diportassero rispetto a quella Roma ch'era stata capo dell'Impero, e che Costantino aveva, se non donata, lasciata prendere al Papa, secondo la curiosa espressione di Giuseppe De Maistre. Carlomagno v'andò a cinger corona: era un credente; al tempo suo non si discuteva il diritto temporale dei Papi, non bene uscito netto dalle pretensioni di Bisanzio: se ne tornò, bastandogli d'essere stato il salvatore dei Papi, contro Longobardi e Greci, in vario grado scismatici. Napoleone certamente sognò un'altra cosa, poichè in materia di religione pensava altrimenti. L'autore del Concordato, il restauratore del culto cattolico in Francia, non era un ateo, ma si ricusava tuttavia alla dogmatica del Cattolicismo; in quella sua specie d'incredulità razionale vedeva anzi un benefizio pei popoli, una guarentigia di tolleranza per tutte le sètte, non essendo egli dominato da alcuna. E l'uomo che a Sant'Elena leggeva nel Vangelo il discorso della Montagna, confessandosi rapito dalla purezza, dalla sublimità, dalla bellezza di quella morale, dopo aver detto: tutto proclama l'esistenza d'un Dio, soggiungeva ancora: ma tutte le religioni sono evidentemente figliuole degli uomini. E nondimeno, giunto al consolato, s'affrettava a ristabilire quella dei padri, che era per lui l'appoggio della sana morale, dei veri principii, dei buoni costumi. Un altro argomento gli soccorreva, in materia di religioni: L'inquietudine degli uomini è tale, che lor bisogna il vago, il maraviglioso, offerto da esse. E qualcuno avendo osato dirgli che sarebbe potuto finire devoto, no, rispondeva, e me ne duole, perchè sarebbe un grande conforto Il sentimento religioso è così consolante, che il possederlo è un benefizio celeste. Di quale aiuto non mi sarebbe egli qui? Che potere avrebbero più uomini e cose su me, se, accettando da Dio i miei rovesci, i miei dolori, ne attendessi ricompensa in una vita futura?

Qui si disegna già l'uomo che fra cinque anni morente accoglierà i conforti d'una religione positiva. Chi lo ha visto così sincero, intenderà come abbiano liberamente fruttificato quei germi nella solitudine dei colloqui con Dio. Ma nell'ordine politico, ai giorni della potenza suprema, abbiamo in Napoleone un filosofo alla maniera del Voltaire. Fu certo un mancamento, non aver visto prima il nodo per cui si collegano, distinguendosi, religione e politica, il regno dei cieli e il regno del mondo. Dante lo aveva trovato, nella virilità dell'ingegno suo, senza debolezze come senza ipocrisie, da uomo moderno più ancora che da uomo medievale. Ma io riconoscerò a Sant'Elena la sincerità di Napoleone, che non dubitò di mostrarsi ai posteri qual era stato davvero, Carlomagno del secolo XIX, ben diverso da quello del secolo VIII. Il suo lavoro, dopo tutto, mirava all'impero d'Occidente, attraverso la unità dell'Italia, passando sulle rovine della potestà temporale dei Papi. Al Pontefice rioffriva Avignone, toltogli col trattato di Tolentino. Appena gli nacque il figliuolo, lo stesso pensiero gli suggeriva di chiamarlo re di Roma, quasi complemento a quel titolo di re d'Italia ch'egli stesso riteneva da cinque anni, dichiarando di non volerlo serbare per sè, poichè meditava un regno italico indipendente, che non poteva essere quello ristretto di Lombardia con la capitale a Milano. Ma quel più largo disegno andò soggetto alle vicende della potenza sua, vicende di grado, di qualità, di opportunità. Sotto il generale del Direttorio, al caldo delle vittorie sue, si erano formate parecchie repubbliche, la Ligure, la Piemontese, la Cisalpina, la Romana, la Partenopea: sotto il primo Console, i fasci un po' sparsi incominciavano a stringersi: sotto l'imperatore dei Francesi (2 dicembre 1804) e re d'Italia (16 maggio 1805); per quasi spontanea domanda del doge di Genova, la Liguria primo teatro delle sue vittorie era annessa all'Impero, col Piemonte, con Parma e Piacenza, unendosi tosto Piombino e Lucca in ducato per la sorella Elisa. Il generale del Direttorio aveva dato all'Austria la Venezia, con Istria e Dalmazia, per ripigliarle imperatore, dopo Austerlitz, nel trattato di Presburgo (26 dicembre 1805); e subito cacciati i Borboni, Napoli e Sicilia eran dati in reame a suo fratello Giuseppe, mentre Elisa era innalzata granduchessa d'Etruria, e Paolina creata duchessa di Guastalla. Strana mobilità di propositi, a cui s'aggiunse il trapasso di Napoli al cognato Murat: ma di questi mutamenti, a tutta prima indispensabili, come la cessione del Veneto all'Austria col trattato di Campoformio, e la ripresa del dono nel trattato di Presburgo, dopo le vittorie di Austerlitz, ha dato lume egli stesso nelle Memorie, dettate al maresciallo Bertrand. Dacchè la prima volta apparii in quelle contrade, sempre ebbi in pensiero di creare indipendente e libera la nazione italiana. Le annessioni di varie parti della penisola all'Impero non erano se non temporanee; miravano solo a rompere le barriere che separavano i popoli, ad accelerare la loro educazione, per operarne poi la fusione. Io avrei reso l'indipendenza e la libertà a quasi intiera l'Italia.

Qui si disegna già l'uomo che fra cinque anni morente accoglierà i conforti d'una religione positiva. Chi lo ha visto così sincero, intenderà come abbiano liberamente fruttificato quei germi nella solitudine dei colloqui con Dio. Ma nell'ordine politico, ai giorni della potenza suprema, abbiamo in Napoleone un filosofo alla maniera del Voltaire. Fu certo un mancamento, non aver visto prima il nodo per cui si collegano, distinguendosi, religione e politica, il regno dei cieli e il regno del mondo. Dante lo aveva trovato, nella virilità dell'ingegno suo, senza debolezze come senza ipocrisie, da uomo moderno più ancora che da uomo medievale. Ma io riconoscerò a Sant'Elena la sincerità di Napoleone, che non dubitò di mostrarsi ai posteri qual era stato davvero, Carlomagno del secolo XIX, ben diverso da quello del secolo VIII. Il suo lavoro, dopo tutto, mirava all'impero d'Occidente, attraverso la unità dell'Italia, passando sulle rovine della potestà temporale dei Papi. Al Pontefice rioffriva Avignone, toltogli col trattato di Tolentino. Appena gli nacque il figliuolo, lo stesso pensiero gli suggeriva di chiamarlo re di Roma, quasi complemento a quel titolo di re d'Italia ch'egli stesso riteneva da cinque anni, dichiarando di non volerlo serbare per sè, poichè meditava un regno italico indipendente, che non poteva essere quello ristretto di Lombardia con la capitale a Milano. Ma quel più largo disegno andò soggetto alle vicende della potenza sua, vicende di grado, di qualità, di opportunità. Sotto il generale del Direttorio, al caldo delle vittorie sue, si erano formate parecchie repubbliche, la Ligure, la Piemontese, la Cisalpina, la Romana, la Partenopea: sotto il primo Console, i fasci un po' sparsi incominciavano a stringersi: sotto l'imperatore dei Francesi (2 dicembre 1804) e re d'Italia (16 maggio 1805); per quasi spontanea domanda del doge di Genova, la Liguria primo teatro delle sue vittorie era annessa all'Impero, col Piemonte, con Parma e Piacenza, unendosi tosto Piombino e Lucca in ducato per la sorella Elisa. Il generale del Direttorio aveva dato all'Austria la Venezia, con Istria e Dalmazia, per ripigliarle imperatore, dopo Austerlitz, nel trattato di Presburgo (26 dicembre 1805); e subito cacciati i Borboni, Napoli e Sicilia eran dati in reame a suo fratello Giuseppe, mentre Elisa era innalzata granduchessa d'Etruria, e Paolina creata duchessa di Guastalla. Strana mobilità di propositi, a cui s'aggiunse il trapasso di Napoli al cognato Murat: ma di questi mutamenti, a tutta prima indispensabili, come la cessione del Veneto all'Austria col trattato di Campoformio, e la ripresa del dono nel trattato di Presburgo, dopo le vittorie di Austerlitz, ha dato lume egli stesso nelle Memorie, dettate al maresciallo Bertrand. Dacchè la prima volta apparii in quelle contrade, sempre ebbi in pensiero di creare indipendente e libera la nazione italiana. Le annessioni di varie parti della penisola all'Impero non erano se non temporanee; miravano solo a rompere le barriere che separavano i popoli, ad accelerare la loro educazione, per operarne poi la fusione. Io avrei reso l'indipendenza e la libertà a quasi intiera l'Italia.

Il quasi intiera apparisce sacrifizio ad interessi politici, o concessione graziosa alla patria dell'amanuense, poichè veramente non s'intende come non potesse far opera compiuta, essendo egli padrone di tutto: o forse escludeva Nizza e la Corsica, considerate come avamposti di Tolone e Marsiglia. Dopo tutto, a tale distanza dai fatti, e senz'altra via d'induzione, è ozioso almanaccare. Resta che da principio la penisola rimase nell'equilibrio instabile d'una federazione di stati, con persone della sua famiglia, imperanti da Milano a Napoli, lui re d'Italia, e un re di Roma aspettato. Quella trovata del re di Roma fa intender meglio l'abbozzo della politica sua. Che forse pensò egli un'Italia e un Impero romano, sotto la tutela della Francia, e col centro fuori d'Italia? Per un grand'uomo imbevuto di antichità, questa tesi invertita non pare ammissibile. Sarebbe stata, se mai, una combinazione provvisoria, fin ch'egli fosse vissuto. Lui morto, chi ereditava l'impero? Non già l'imperator dei Francesi, ma il re di Roma, per cui fatto e nome l'impero diventava Romano. Così per via s'acconciavan le some; in due o tre generazioni, cancellata la vernice straniera, dato maggior lustro all'origine italiana dei Bonaparte, il colpo era fatto. Così egli avrebbe servita l'Italia, meglio di Carlomagno, ch'era un Franco, e aveva gradito d'incoronarsi a Roma per regnar poi da Acquisgrana; laddove egli s'era incoronato a Parigi, nella presenza del Papa, per grande atto decorativo, ma il figliuol suo procedeva virtualmente da Roma, e con lui si sarebbe per corso naturale di cose sollevata di tanto la condizione d'Italia. Ah, il condottiero medievale non aveva fatto mica un mal sogno!

IV

E non io lo faccio per lui, nè gl'impresto (che sarebbe irriverente) un pensier del mio capo. Sentite ciò ch'egli stesso diceva nel 1812: Non crediate che io voglia innovar nulla in religione. Non sono un Abdallah Menou (alludeva, così parlando, ad un suo generale in Egitto, che s'era fatto musulmano per riuscir meglio accetto agli Arabi, come successore del Kléber); sarò un Costantino, non docile temporalmente, nè scismatico nella fede. Se tengo Roma per mio figlio, darò Nostra Donna al Papa; ma Parigi sarà levato così alto nella ammirazione degli uomini, che la sua cattedrale diverrà naturalmente quella del mondo cattolico. Questa è la ragione segreta, non la contradizione di ciò che ho fatto; è il Concordato, ingrandito come l'Impero. Ma per aver così piena ragione dalla Chiesa, occorre aver vinto ancor più nel cospetto degli uomini.

Sogno, lo ripeto, ma grande, e d'un Italiano che sentendosi tale non dubitò di confessarlo ad ascoltatori Francesi, nei solenni colloquii di Longwood; ove, parlando de' suoi primi trionfi, ne esponeva le ragioni in tal forma: L'istessa mia origine straniera, contro la quale si sono scalmanati in Francia, mi fu di gran prezzo, poichè essa mi fece considerar cittadino da tutti gl'Italiani, agevolando di molto i miei successi in Italia. I quali, come furono ottenuti, indussero a cercar da per tutto le circostanze della nostra famiglia, caduta nell'oscurità da gran tempo. A saputa di tutti gl'Italiani, essa aveva sostenuta una gran parte tra loro; ridivenne ai loro occhi, al loro sentire, una famiglia italiana; tanto che, quando si trattò di sposare la mia sorella Paolina al principe Borghese, fu una voce sola, a Roma e in Toscana, in quella famiglia e tra le sue alleate: sta bene, è cosa fatta tra noi, è una delle nostre casate. Più tardi, quando si trattò della mia incoronazione a Parigi, per mano del Papa, quest'atto, importantissimo come gli eventi mostrarono, incontrò gravi intoppi. Il partito austriaco, nel Conclave, si era risolutamente opposto; il partito italiano la vinse, aggiungendo alle ragioni politiche questa piccola considerazione d'amor proprio nazionale: dopo tutto è una famiglia italiana, questa che noi imponiamo ai Barbari, per governarli; saremo così vendicati dei Galli Dubito che ciò sia stato detto o pensato in Conclave; ne dubito soprattutto per l'accenno ai Barbari, che da Carlomagno in poi non eran più tali, e alla vendetta sui Galli, che era stata fatta, se mai, diciotto secoli innanzi, dalle armi di Cesare; ma è importante per me che in tal guisa abbia parlato della sua italianità Napoleone a Sant'Elena, nella grande ora della toilette pour la postérité.

Aver fatto grandi cose è bello, sovranamente bello, e accade a pochi. Ma i pochi che le han fatte, sono anche più famosi per averne pensate di maggiori. A cogliere il segno lontano, si vuol porre più alta la mira; e spesso vien meno l'arco, o la corda si spezza. Noi, gloriandoci di quell'Italiano, gli siam grati di aver fatto per la sua patria d'origine un sogno maraviglioso. Non ebbe tempo a mutarcelo in realtà, nè a consolidare la sua stessa fortuna. Ercole, combattendo con l'idra dalle sette teste sempre rinascenti, non venne a capo dell'impresa se non recidendole tutte d'un colpo. Ma quello era un semidio, e il tempo dei semidei è passato; Napoleone fu costretto a colpirle una dopo l'altra, e rinascevano tutte. A noi sia debito ricordare com'egli ci lasciasse il benefizio inenarrabile d'uno stimolo virile all'inerzia lunga e pericolosa, d'un mutamento profondo nella nostra compagine politica, onde furon troncate le radici alle vecchie antipatie regionali, onde un lievito possente a nuove e non più frenabili sollevazioni del sentimento patrio. Ci sono in Italia duecentomila poltroni: ma io li impiegherò. E furono assai più di quel numero i valorosi che trasse d'Italia a tante guerre; la sua famosa ritirata, non dal nemico vinto, ma da un inverno invincibile, fu coperta dai nostri soldati.

Назад Дальше