Bada;gli aveva detto, in principio dell'anno, suo padre;se non ti passano con tutti i voti all'esame torni a casa e non passi più il Tanaro fino a tanto ch'io viva. Ti metto a bottega da un calzolaio, o da un legnaiolo, e sarai bello davvero!
Ora, il signor Nicolino sapeva che suo padre quel che prometteva lo dava, e a misura di carbone. Perciò, venuto al tandem, s'era chiuso in soffitta a studiare; e all'esame, non che tutti i punti, aveva anco strappata la lode; tanta era stata la battisoffia!
Figuratevi dunque la contentezza dello studente, che aveva superato pur mo' la sua prova d'ammissione al corso di legge e aveva davanti a sè uno spazio abbastanza lungo di libera vita!
I primi mesi dell'anno universitario sono senza fallo i più lieti. In primo luogo, ci si ritrova tutti compagni di altre scuole, con un mondo di cose nuove da dirsi e di vecchie da ricordare. Ci sono poi gli amici nuovi da vedere, tiranti dentro e posti liberamente in comune dai vecchi, come talvolta avviene dello scudo solitario, rimasto nella tasca di uno fra i più fortunati, verso la fine del mese. Ed è allora tra tutte quelle giovani vite un avvicinarsi, un incrociarsi, un confondersi allegro, come di cardellini, o di lodole, non turbato che dal rimanersi in disparte di certuni, o più contegnosi o più timidi, che sono battezzati lì per lì coi più ridicoli nomi.
Sul principio dell'anno le lezioni son frequentate che nulla più. I professori hanno il sorriso sulle labbra e gli studenti del pari. C'è in tutti una voglia di far bene; si portano in tasca i quaderni, si è tutt'orecchi, e si pigliano note a furia, e magari si avesse un barlume di stenografia! Poi, un bel giorno, vedete caso! il quaderno s'è dimenticato sul tavolino da notte, dove lo avevamo riposto per consolare una veglia studiosa. Pazienza; c'è un amico che l'ha portato; per quest'oggi scriverà lui; copieremo. E invece di stare attenti, di pendere dal dotto labbro, si porge orecchio a un raccontino bisbigliato di fianco, ad una celia, ad un frizzo che fa sommessamente il giro delle panche. Addio lezione; addio filo del ragionamento; il trattato avrà una lacuna. Che importa? Non c'è l'amico che scrive? Ma il male è contagioso; un altro giorno il provvido amico l'ha dimenticato lui, il quaderno; e tant'è; poichè il dado è tratto, anche lui dà ascolto alle chiacchiere e lascia che il professore si spolmoni a sua posta. Via, la cosa non è poi senza rimedio. Non c'è egli il compagno sgobbone, che lavora per tutti? Non gli si è mai detto crepa; lo si è sempre guardato con un senso di compassione; ma in fondo non deve aver fiele, ha da essere un buon figliuolo, e all'occorrenza impresterà la sua prosa. Questo è l'essenziale.
Pigliata in tal modo la piega, nuove consuetudini si vanno formando nell'anno. Si studiano molto, è vero, gli umori del corpo insegnante; si medita anche il problema del miglior modo di ottenere la firma del professore sul certificato bimestrale; ma fermi lì! Anche la gaia fratellanza di prima va a rotoli; succedono i piccoli crocchi, e, secondo i gusti, le combibbie, i cenacoli. E intanto, signori professori, sputate un'ala di polmone, se Dio vuole; lo studente è ancora qualche volta dinanzi a voi in carne ed ossa, ma lo spirito lo spirito è via. Chi sa? forse in estasi, come
Il rapito di Patmo evangelista,
vede tutt'altro che donne sedute su bestie color scarlatto, con sette corna e dieci teste; le vede emergere, candide a guisa d'alabastro, dai palchetti del Regio, o passar veloci in calesse al Valentino, o commettere sotto i portici di Po un piedino snello; quel piedino tentatore, che non si dà e non si nega all'ammirazione dei pilastri del Fiorio..
Lettori umanissimi, ci siamo un po' indugiati per via; ma che farci? Al passato bisognava pur dargli un'occhiata. Chi non ha un passato? Anche al nostro eroe, che fa vita nuova, ritornando ai suoi diciott'anni, occorreva fabbricargliene uno.
Era contento, il signorino. E forse avrebbe dovuto non esserlo tanto, poichè rimaneva a Dogliani la figlia del droghiere, una stupenda biondina, colla quale avea ballato tre volte, e alla quale, una sera, attraverso il cancello dell'orto, aveva giurato un amore immortale. Ma sappiate, o lettori, che il signor Nicolino ci aveva un gran cuore, e che i gran cuori, come tutti i gran vasi, non sono grandi per nulla. Ben altro ci aveva a far capire il signorino, nel suo. Anche alla capitale lo aspettava un amore. Credo che fosse già il terzo; ma badate, non potrei giurar nulla. So che era un amore a mezz'aria, imbastito a teatro, ancora senza certezza di ricambio, e già immortale, come tutti gli altri.
CAPITOLO III
Nel quale si vede nascere un giornale e spuntare la coda d'un segreto
Nell'atrio dell'università, sotto i portici di Po, in piazza Castello, ad ogni tratto il giovane Ariberti s'imbatteva in qualche amico.
Ah, sei tu, buona lana? E dove hai passate le vacanze?
Io? Non me ne parlare. A Dogliani, nel «paterno ostello».(e qui un sospiro lungo tanto rincalzava la frase).Ma dimmi piuttosto; e tu dove sei stato?
Ho fatto un viaggio;rispondeva l'altro, con un'aria dimessa che volea parere modesta;sono stato in Toscana.
E lì il Ferrero, che così per l'appunto si chiamava l'amico, a tirar giù una filatessa di tutto quello che aveva veduto a Lucca, a Pisa, a Firenze. Senza andare di una parola più in là d'una guida, trovava il modo di ficcar dentro al discorso tutte le meraviglie dei luoghi veduti, e non la perdonava nemmanco a un muricciuolo; laonde, non è a dire se il povero confinato di Dogliani se ne sentisse venir l'acquolina in bocca. E poi l'amico Ferrero ci aveva le sue considerazioni, i suoi appunti particolari sugli usi, sui costumi e sulla lingua dei figli di Etruria; ricordava i modi, rifaceva la parlata con una grazia tutta sua. All'osteria aveva mangiato il lesso, che corrispondeva alla carne bollita, ahi troppo, della cucina domestica; aveva chiamato tavoleggiante il garzone di caffè; conosceva le uova al tegame, le uova a bere, le uova affogate, le sode e le bazzotte; insomma era diventato un'arca di scienza.
Al caffè dell'Aquila, dov'erano andati i due a sedersi, con tre o quattro amici combinati per via, un altro studente, che era conte e figlio d'un ministro, e che per solito tirava dritto salutando con molto sussiego i compagni, si era degnato di avvicinarsi a loro e di rallegrarli colla sua conversazione, per far sapere a tutti che tornava allora allora di Francia.
E Lei, dove è stato?domandava il signor conte, volgendo la parola al nostro Ariberti.
A Dogliani;rispondeva questi, avvilito.
Dogliani! Dov'è?chiedeva il conte, coll'aria di chi non si raccapezza.Dalle parti di Mondovì?
Sì, verso le inospiti Langhe;soggiungeva un altro della brigata.
E via, non disprezziamo tanto i nostri paesi;interruppe il Ferrero.Ci sono certe ragazze avvistatette, che non fo per dire Il nostro Ariberti ha da aver fatto strage.
Il conte, strascicando l'erre con quel suo garbo nobilesco:Quando si va in campagna, non c'è altro modo di vivere, che devastando il pollaio. Ma Parigi. Parigi.. ecco la vita! Il palazzo Reale! il Rocher de Cancale! la Chaussée d'Antin colle sue donne adorabili! Parlez-moi de ça!
E con una leggiadra giravolta sui tacchi, il signor conte Candioli andò verso il banco, per farsi ammirare dalla padrona, pallida creatura, che aveva letto Ossian e si credeva una specie di Malvina, perchè aveva i capegli di canapa mal pettinata.
Vedi che sciocco!disse il Ferrero sottovoce all'Ariberti.Perchè è stato a Parigi, insieme coi bauli del suo signor padre
Eh via, non sei tu forse stato a Firenze?
Vedi che sciocco!disse il Ferrero sottovoce all'Ariberti.Perchè è stato a Parigi, insieme coi bauli del suo signor padre
Eh via, non sei tu forse stato a Firenze?
In Italia, perdinci, e co' miei danari.
Vorrai dire di tuo padre.
S'intende; ma sono andato per mio diporto. Ma perchè non far lo stesso anche tu, scambio di chiuderti in quel tuo guscio di noce? Tuo padre non è ricco abbastanza per farti pigliare un po' d'aria di casa d'altri?
Che vuoi? Gli sembro troppo giovane, per girare il mondo da solo. Poi, c'era l'esame di ammissione Infine che ti dirò? Voi fortunati, che avete potuto passare il confine! Noi ce ne siamo rimasti all'ombra nelle nostre montagne, coi nostri cenci campagnuoli dattorno. Non è egli vero, Balestra?
L'amico chiamato con questo nome rispose con un malinconico cenno del capo, che voleva dire: purtroppo.
Benissimo; bisogna far strage!ripigliò.
Oh, a proposito di cenci,ripigliò il Ferrero,che cosa è avvenuto del tuo Bertone?
Mio!esclamò l'Ariberti.Mio come tuo. Tu sai ch'egli è di Mondovì ed io per tutte le vacanze non mi sono mosso da casa. Del resto, che vuoi che abbia fatto? Sarà venuto anche lui.
Si diceva,notò il Balestra,che non avrebbe più continuato gli studi, perchè la famiglia non poteva mantenerlo a Torino.
Sfido io!entrò a dire un altro della brigata.Suo padre fa il maniscalco e una sua sorella va a mezzo servizio nelle case dei signori.
Del resto,aggiunse il Ferrero,a Torino è venuto certamente. Almeno, io lo credo, perchè stamane, quando sono uscito di casa, i cenciaiuoli del ghetto gridavano più allegramente che mai il loro «niente da vendere?»
Ah, ah! bella, questa!proruppero in coro gli studenti.Abbiamo dunque la prova provata.
Via, non c'è umanità!disse l'Ariberti, con aria che voleva parer rimprovero, ma che sapeva piuttosto di preghiera.Che ci può far egli, se è povero?
Sì, sì, hai ragione;rispose ghignando il Ferrero;ma che ci possiamo far noi, se è così sudicio? Spero almeno che quest'anno tu non ce lo vorrai tirare fra' piedi. Con quel coso lì in compagnia, si passerebbe tutti per altrettanti straccioni.
L'Ariberti non ebbe animo di protestare contro questa nuova maniera d'ostracismo. E non era mica un giovine di cattivo cuore; anzi, bisogna dire che gli rincrescevan assai le parole del Ferrero. Ma in fondo in fondo, o come sarebbe egli stato possibile di sostener l'onore del giubbone color tabacco dell'amico Bertone? Segnatamente là, al caffè davanti al conte Candioli, a quel figurino di Parigi, vestito nientemeno che da Humann, cioè dal primo sartore di tutti i leoni di Lutezia, con giubba, o senza? Perciò l'Ariberti si tenne le sue ragioni in gola e il povero Bertone fu condannato senza forma di processo.
E che faremo ora?continuò il Ferrero.L'anno scorso c'erano certe idee! Ma sì, ad anno così inoltrato, non bisognava pensarci. Ti ricordi, Ariberti, del nostro giornale letterario? Tu avevi già pensato alle module pei registri degli associati.
Ah sì, sarebbe bene di mandarlo avanti;disse il Balestra.Io ci ho una canzone in pronto.
Ed io,soggiunse il Vigna, che era un altro della compagnia,ci ho un capitolo sugli amori di Tibullo.
Già tu l'hai sempre coi latini. Io ci ho invece uno studio sui Nibelunghi.
Che cosa sono? Roba da mangiare?
Tira via, sciocco, e impara l'arte nuova; ne abbiamo piene le tasche dei classici.
Amici,interruppe il Ferrero,noi ci stiamo bisticciando per la pelle dell'orso. Prima di tutto, vediamo se il giornale uscirà. Avremo noi il permesso del governo?
Perchè no?disse l'Ariberti, mandando una timida occhiata al ricapito del figurino di Parigi;se il signor conte si degna di spendere una parolina per noi con Sua Eccellenza, voglio sperare.
Il signor conte, che andava farfalleggiando continuamente dal banco di Malvina al tavolino degli amici, gonfiò a quelle parole lusinghiere.
Il signor conteaggiunse il Ferrero,potrebbe anche essere uno dei primi scrittori del giornale, ed anzi il più gradito alla miglior classe di lettori, che è senza dubbio quella delle lettrici.
Io?dimandò il contino, che non ci arrivava da sè.E che cosa potrei scrivere io, palsambleu?
Eh, per esempio, i ricordi del suo viaggio a Parigi. Mi sembra che l'argomento sia ghiotto; che ne dite voi altri? Ella ha certamente molto veduto e molto osservato;soggiunse il Ferrero, dandogli accortamente la soia;ricevimenti di corte, passatempi di strada, segreti di boudoir, occhiate tra le quinte del palcoscenico, chiacchiere di foyer, insomma, tutto ciò che forma la vita di quella capitale affascinante; ecco quello che potrebbe descrivere. Non c'è che lei, per farlo; e sarebbe la man di Dio pel nuovo giornale.
Questa volta il pavone fece a dirittura la ruota.
Sicuramenterispose egli, mettendosi sul grave.E sebbene io non abbia troppa domestichezza colla lingua. Del resto, sentano, signori miei; bisogna confessarlo una volta; la lingua italiana è povera, assai povera.
Che diavolo dice?esclamò il classico Vigna. Con un vocabolario di ottantaseimila parole!
Sta zitto!interruppe il Ferrero, che voleva ingrazionirsi col figlio del ministro.Il signor Conte ha ragione, e tu gli scambi la tesi. Sicuro, c'è molta roba nel vocabolario; ma a che serve, se è lingua morta e ciarpame?
Infatti, è proprio questo che volevo dir io;ripigliò il signor Conte, inchinandosi.Ed ecco un esempio che fa al caso nostro. Come tradurrebbero lor signori la parola francese regret?
La domanda era vecchia, e certo il signor Conte l'aveva raccattata in qualche conversazione di gente sconclusionata, che non sa la sua lingua, e, quel che è peggio, non vuol confessarlo. Anche Ariberti, come il classico Vigna, si sentiva a rispondergli che c'erano in italiano almeno dieci vocaboli per esprimere tutte le gradazioni d'un sentimento, anzi meglio, i vari sentimenti che i francesi sono costretti ad esprimere con quel vocabolo solo; la qual cosa, a dir vero, non fa testimonianza di molta ricchezza nel tesoro filologico dei nostri vicini d'oltralpe. Voleva anco soggiungere, allargando la questione, che ogni lingua ha i suoi propri modi e partiti per dire il fatto suo, e che il non poter voltare col medesimo giro una frase forastiera non prova nulla a suo danno. Infine, voleva dargli pulitamente di sciocco; voleva. Ma a qual pro? Anch'egli aveva capito che non bisognava urtare con quella ignoranza pomposa; e fu egli il primo a rispondere, con una mimica espressiva, al signor conte, che egli aveva ragione, e che quel maledetto regret era proprio intraducibile.
Il conte Candioli ricompensò l'Ariberti con un gesto di protezione.
Se scrivessimo il giornale in francese,soggiunse egli poscia, piantandosi la fida lente nella incavatura dell'occhio destro, come faceva sempre quando volea darsi aria d'uomo d'assai,sarebbe forse meglio, e il giornale sarebbe più répandu.
È verissimo;rispose il Ferrero:ma non tutti abbiamo famigliare la lingua francese come il conte Candioli. Via, facciamo un tanto per uno, scriviamo il giornale in due lingue.
Soit,disse il contino;chacun son goût.
Pensiamo dunque al nome:disse Balestra;io propongo che si chiami L'Aurora.
Io La Minerva;gridò il classico Vigna.
Il primo non dice niente, e l'altro vuol dir troppo; rispose il Ferrero.Cerchiamo ancora.