Guido Pagliarino
Il Giudice e Le Streghe
Romanzo
Copyright © 2017 Guido Pagliarino
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E-book published by Tektime
Tektime S.r.l.s. - Via Armando Fioretti, 17 - 05030 Montefranco (TR)
Immaginedicopertina: âLe streghe si recano al Sabbaâ, olio,1878, di Luis Ricardo Falero
Guido Pagliarino
Il Giudice e Le Streghe
Romanzo
4a Edizione, distribuita da Tektime nei formati E-book e Libro
Copyright © 2017 Guido Pagliarino
Stesura del manoscritto: dall'anno 1990 all'anno 1992
Opera riveduta e variata dall'autore nell'anno 2016
Edizioni del romanzo:
1a Edizione, solo in libro fisico, sotto il titolo âUnâindagine del â500", Copyright © 2002-2006 Prospettiva editrice sas
2a Edizione, solo in libro fisico, sotto il titolo âIl giudice e le stregheâ, Copyright © 2006-nov.2011 Prospettiva editrice sas - Da dicembre 2011 Copyright © Guido Pagliarino
3a Edizione, riveduta e variata e munita di postfazione dellâautore, pubblicata sotto il titolo âIl giudice e le streghe (Unâindagine del â500)â, in ebook Smashwords e in libro cartaceo Create Space, Copyright © 2016 Guido Pagliarino
4a Edizione, conforme alla 3a, distribuita da Tektime Copyright © 2017 Guido Pagliarino
Indice
Prefazione dell'autore alle due precedenti edizioni cartacee
Guido Pagliarino, Il giudice e le streghe, romanzo:
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitol o XXIII
Postfazione dellâautore a lla terza edizione e a questa quarta edizione
PREFAZIONE DELLâAUTORE ALLE PRECEDENTI DUE EDIZIONI CARTACEE
à questo un romanzo ambientato in unâepoca di isterie religiose, di caccia alle streghe e della donna considerata come una cosa, nonostante lo sbandierato precetto cristiano di amare il prossimo e lâaffermazione neotestamentaria che ânon câè più uomo, non câè più donna, ma tutti sono eguali davanti a Cristoâ.
Anche se si tratta di unâopera di narrativa, ho tentato dâimmergermi nella mentalità del â500. Come gli storici sanno, nel guardare al passato bisogna eliminare, il più possibile, il sentire contemporaneo, ché altrimenti si rischierebbero giudizi astorici. Ad esempio la pena capitale, oggi, è normalmente giudicata cosa atroce, nel â500 era considerata ovvia punizione e si pensava che lâassassino pentito scontasse con la morte tutti i suoi peccati, salendo così al Paradiso. Come vedremo, già câera invece chi si batteva contro la tortura, ben prima del Beccaria.
Intervengono nella narrazione personaggi di fantasia e altri realmente vissuti. Il protagonista stesso è figura storica, il cui nome è rimasto per un suo trattato contro la stregoneria. Si sa che era avvocato. Non risulta che fosse giudice pontificio come io immagino. Lâho dipinto uomo privo di auto ironia. Ho cercato dâinfilare io ironia e â nero â umorismo involontari, in certi suoi atteggiamenti e in certe sue descrizioni e considerazioni. Lâavvocato Ponzinibio e il tremendo domenicano Spina sono anchâessi realmente esistiti, oltre che, naturalmente, le grandi figure storiche che richiamo nellâopera. Pure lâindemoniato Balestrini è veramente vissuto, solo che risiedeva in Piemonte e non nel Lazio: un caso che oggi si potrebbe dire di mitomania e schizofrenia con istinto suicida. Il giovane vescovo Micheli è invece personaggio fantastico, anche se è immagine di alcuni alti prelati che furono accusati di eresia perché predicavano la carità evangelica, i cardinali Pole, Sadoleto e Morone. Pure sono di fantasia, oltre a figure minori, Mora, il cavalier Rinaldi, il principe di Biancacroce. Questâultimo ho mantenuto sempre sullo sfondo, incombente.
Lâidea del romanzo mâera sorta dopo una ricerca sulla caccia alle streghe per capire, almeno, le ragioni storico â sociali di tanta barbarie al culmine dellâepoca rinascimentale. Quanto avevo trovato è sintetizzato nelle considerazioni dellâavvocato Ponzinibio, del vescovo Micheli, del cavalier Rinaldi e, da un certo punto dellâopera, del protagonista.
Nel XVI secolo persisteva la forma allocutiva voi, ma ormai accanto al lei che, anzi, la stava soppiantando: ho preferito questa perché naturale tanto per me quanto per la maggioranza dei lettori, dato che il voi sopravvive solo in alcune zone del meridione dâItalia. Ho tentato, a volte con lâintento di far sorridere, una lingua che, pur essendo di gran norma moderna, richiamasse in qualche luogo quella del XVI secolo.
Guido Pagliarino
Guido Pagliarino
Il Giudice e Le Streghe
Romanzo
Capitolo I
Nellâanno del Signore 1517, giovane di ventisei anni, io, Paolo Grillandi giurisperito, fui nominato giudice a latere nel Tribunale di Roma, dove cominciai ad apprendere, dal Giudice Generale Astolfo Rinaldi, la pratica dei procedimenti contro i criminali tutti e, primariamente, contro le servitrici del male dette strigi.
Da molto prima del mio ingresso in magistratura, da quando Innocenzo VIII, nel 1484, aveva promulgato la bolla Summis Desiderantes sancendo ufficialmente la guerra a maligni e maligne e precisando i criteri per distinguerli, innumeri processi per stregoneria, quanti mai prima, erano stati celebrati. Sua Santità aveva compreso che di molto era aumentato il numero di persone, maschi e soprattutto femmine, dedite a pratiche di magia e aveva perciò dichiarato "assolutamente necessario non essere pietosi e indulgenti verso di loro". Felice ne era stato l'esito, con gran condanne di assatanati, resi inoffensivi con l'imprigionamento o con il rogo.
D'insostituibile aiuto era stato, e rimaneva per noi, Il Martello delle Streghe, che i dotti domenicani Sprenger e Kramer avevano scritto nel 1486, su incarico di Innocenzo VIII, dove ogni caso era previsto e che dava le direttive per la scoperta e la punizione dei maligni. Purtroppo, nonostante i successi, maggiormente il diavolo s'era impegnato e in numero più grande ancora aveva suscitato streghe e stregoni: essi parevano tanto più aumentare quanto maggiormente numerosi divenivano i processi. Così, almeno, io credevo. Infatti la maggioranza degl'inquisiti confessava senza bisogno di tortura; e addirittura unâimputata, quellâElvira che mai io potrò obliare, aveva ceduto innanzi a me senza nemmeno riceverne minaccia. Ci era stata consegnata con la solita formale richiesta di grazia. Noi sapevamo bene che non s'aveva da tenerne conto perché, altrimenti, noi stessi saremmo stati sottoposti a giudizio: si trattava soltanto, una volta avuta la confessione, di scegliere la pena. La donna era stata denunciata per una fattura su tal Remo Brunacci, come lei villano in Grottaferrata. Preziosa era stata la testimonianza del curato piovano, tanto che, a parte la vittima, non era stato necessario interrogare altri paesani: il Brunacci aveva avuto il membro virile sottratto con magia dalla strega e se n'era confidato con lâarciprete. Questi gli aveva allora chiesto di abbassarsi le brache e aveva personalmente verificato: effettivamente, come aveva poi testimoniato, il membro non c'era. Aveva allora invitato il fedele a fare penitenza: digiunare e bere acqua benedetta, pregando il Cielo per riottenere il maltolto. Perché meglio potesse concentrarsi nella preghiera, aveva chiuso il penitente, fornendolo d'un secchio di quellâacqua, in una stanzetta vuota della canonica e ve l'aveva tenuto per un giorno e una notte. Quando finalmente gli aveva riaperto, il piovano aveva eseguito su di lui un nuovo controllo ed era apparso a entrambi il virile membro, con gran gioia e meraviglia di Remo che, appena congedato, aveva raccontato la storia a tutto il borgo. Era dunque arrivata una lettera anonima all'Inquisizione, cui era seguita quella ufficiale dellâarciprete.
In quel tempo assumevo tali denunzie con partecipata indignazione. Anche la mia famiglia, infatti, aveva dovuto subire mali estremi da una strige. Avevo nove anni e, dopo aver appreso a leggere, scrivere e fare di conto, ero ormai a bottega da mio padre, mastro spadaio, quando mia madre, colma di salute per tutta la vita, era stata improvvisamente presa da febbre maligna ed era morta. Ero figlio unigenito, nonostante i miei avessero desiato numerosa prole da avviare allâarte di famiglia. Tante volte la mamma, lacrimando, aveva ripetuto a mio padre che doveva essere stata la levatrice che mâaveva tratto al mondo a impedirlo: era venuta a diverbio con lei, qualche mese dopo la mia nascita, per una questione di panni sgocciolanti, e quella donna doveva averle fatto fattura: è di pubblico dominio che guaritrici e levatrici son streghe sospette per il solo fatto dell'arte loro; lo stesso Martello delle Streghe indica quelle donne come potenziali maligne. Temendo vendetta pure su di me, i miei genitori ne avevano parlato sempre e solo fra di loro. Purtroppo una sera, essendo come sempre a tavola con noi, qual parte del loro salario, i due garzoni di bottega, il mio genitore aveva bevuto piuttosto ed era caduto preda di gravissima tristezza. La lingua gli si era sciolta e aveva svelato il segreto. Se non entrambi, uno dei due doveva averlo raccontato in giro. Così mia madre, due giorni dopo, era stata affrontata sullâuscio di casa dalla levatrice che, viperina, le aveva soffiato che a una come lei, che andava a spargere voci, stavano bene disgrazie. Un mese dopo, colpita da sortilegio di quella lurida strega, la mamma era defunta. Mio padre, perso il lume per il lutto e il rimorso dâaver provocato la ritorsione della maliarda, aveva per prima cosa picchiato i garzoni, nemmeno che questo avesse potuto cambiare la sorte dellâamatissima moglie e non fosse stato il suo bere la prima causa dellâaccaduto. Gonfio di odio, perduto ogni timore, al funerale aveva denunziato pubblicamente la levatrice; dâaltronde, il fatto stesso châella non fosse stata là presente, a pregare per la morta, era dâaccusa. Il curato aveva avvisato lâInquisizione; tuttavia la strige, avvertita da qualcuno, sâera supposto dal diavolo stesso, sâera eclissata per sempre e non aveva avuto punizione. Sino a quel punto, io avevo solo alternato pianto a silenzio. Conosciuta la fuga dellâassassina, ero esploso: âLa troverò io!â avevo gridato a mio padre: âPunirò col rogo lei e tutte quelle come lei!â Non avevo demorso, e tanto avevo detto per giorni e settimane che il genitore, anche lui bramoso di giustizia, aveva chiesto consiglio al curato. Così ero stato avviato agli studi da giurisperito. Avevo però continuato a lavorare nella bottega Grillandi ogni volta châera stato possibile. Per questo, a forza di battere spade, il mio braccio destro era divenuto muscoloso, col tempo, quasi il doppio del mancino. Dopo un paio di anni, mio padre sâera risposato con una vedova senza figli. Dopo solo alcuni mesi, la consorte era stata colta da violentissimi dolori al ventre e, di lì a pochi giorni, era morta. Il mio genitore sâera sposato una terza volta, con una cugina. Con lei aveva concepito una bambina, ma nel venire alla luce questa aveva rivelato lâorrore di due teste e, durante lâatroce parto, tanto madre che figlia erano decedute, la prima insanabilmente squarciata dal doppio capo della nascente, la seconda per non aver preso a respirare. La strega, di lontano, aveva continuato a lanciare maleficio su tutte le femmine della famiglia. Il nostro odio per lei era, se possibile, aumentato. Quandâero giunto al dottorato, come nellâuso mio padre aveva comprato, coi buoni uffici del prete e gran somma da distribuire fra potenti, la mia carica di giudice. Pure il curato aveva avuto donazione. Al mio genitore non erano rimasti né pecunia, né argenteria, né armi, così che, per acquistare le materie con cui fabbricare nuove spade, aveva dovuto chiedere prestito a un banco. Avrei però, negli anni, compensato il suo sacrificio, lasciandogli un decimo di ogni mio stipendio.